Uwe Johnson, I giorni e gli anni, vol. 3

Il 17 febbraio 2014 L’Orma editore pubblicherà il terzo volume della tetralogia I giorni e gli anni di Uwe Johnson, tradotto da Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini per la collana “Kreuzville Aleph” (484 pagine, 26 euro). Nella storia delle traduzioni di letteratura tedesca in Italia questa è una scelta importante, alla quale vogliamo dare tutto il nostro sostegno.

Cominciamo col ricordare i post che germanistica.net ha dedicato a Uwe Johnson e alla sua opera.

Pubblichiamo inoltre il capitolo dedicato da Anna Chiarloni a I giorni e gli anni nel volume L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal 1945 a oggi (Libri Scheiwiller 2009, pp. 196-200), invitando tutti i collaboratori e gli amici di germanistica.net a inviarci e segnalarci testi di e su Johnson da (ri-)proporre sul nostro blog nelle prossime settimane. (M.S.)

Anna Chiarloni

In una posizione defilata e complessa tanto rispetto agli scrittori rimasti nella DDR quanto rispetto a coloro che sono passati all’ovest si trova Uwe Johnson. Nonostante abbia lasciato la DDR fin dal 1959 e nessuno dei suoi libri vi sia mai stato pubblicato, Johnson rimane un interlocutore e un punto di riferimento per molti autori tedesco-orientali, e continua, in pressoché tutte le sue opere degli anni sessanta e settanta, a raccontare la DDR, criticandone l’involuzione autoritaria senza tuttavia rinunciare a una visione marxista del mondo: Ingrid Babendererde, Congetture su Jakob, Il terzo libro su Achim e Due punti di vista costituiscono nel loro insieme una circostanziata versione della storia della Germania socialista negli anni cruciali che vanno dalla sua fondazione al periodo in cui il nuovo stato si consolida (Bond). Nel 1983, un anno prima che lo scrittore venga ritrovato senza vita nella sua casa inglese di Sheerness-on-Sea, esce il quarto e conclusivo volume de I giorni e gli anni.

Protagonista della tetralogia è Gesine Cresspahl, che conosciamo fin dalle Congetture su Jakob: è la bambina dell’est che incalzata dall’Armata rossa, era riparata alla fine della guerra nella Germania orientale, passando poi a ovest come segretaria della Nato e infine a New York con la figlia Marie, avuta da Jakob. Qui la ritroviamo appena trentenne, impiegata di una grande banca statunitense. In Gesine s’intravedono tratti dell’itinerario dell’autore, trasferitosi negli Stati Uniti dopo aver abbandonato dopo la DDR anche la BRD. Nella Germania di Bonn, infatti, Johnson non si sente a casa, malgrado il grande successo. Troppo alto il prezzo da pagare, ribadirà ancora nel 1981. Lui, ascetico moralista, dell’ovest tedesco disprezza il consumismo frenetico, la chiusura intimistica nel privato, soprattutto lo disgusta quel grottesco feticismo automobilistico che è tra i bersagli di Due punti di vista. Sono gli anni di Kiesinger, il cancelliere della CDU compromesso col nazismo. È il tempo della militanza cubana di Enzensberger, mentre in Svezia Peter Weiss lavora al suo Discorso sul Vietnam. Anche Johnson vuol cambiar aria, prendere distanza da un mondo che sente asfittico. Nel 1967 si trasferisce con moglie e figlia a New York, incoraggiato da Helen Wolff,  nome  di spicco nell’editoria tedesca – Kurt Wolff era stato l’editore di Kafka – emigrata negli Stati Uniti all’avvento di Hitler.

È qui che Johnson inizia a scrivere con una tecnica del tutto diversa rispetto a quella «congetturale» dei romanzi precedenti, ossia a documentare la «vita», come recita il sottotitolo, di Gesine Cresspahl dal 21 agosto al 19 dicembre del 1967. Il filo cronologico è sorretto dalle notizie del «New York Times», di cui Gesine è una fedele lettrice: il romanzo è anzi un’ode al giornale che, affidabile come una saggia «zia» descrive il mondo «con citazioni di prima mano, commenti, foto, riassunti delle puntate precedenti, piccoli gioielli del gusto del racconto». Si capisce che Johnson, abituato a una stampa ingessata non solo dalla stridula «istitutrice» quale era stata la DDR, ma anche dalle concentrazioni occidentali alla Springer, fosse affascinato da quel quotidiano che con la stessa algida obiettività scandiva i mesi del 1967 nei numeri dei caduti americani in Vietnam o nei dati sulla rivolta dei ghetti neri e la repressione dei giovani pacifisti. Il dilemma tipico di quegli anni tra poesia e letteratura documentaria è qui felicemente risolto da una struttura narrativa che richiama la tavola sinottica – nel secondo volume Johnson inserirà anche un registro dei nomi – procedendo tuttavia per incastri e sovrapposizioni oniriche.

Perché i «giorni dell’anno» sono anche Gedenktage, giorni della memoria in cui Gesine ripercorre per la figlia il passato nel Meclemburgo: le vicende domestiche all’avvento del nazismo, l’acquiescenza di una piccola borghesia onesta e operosa ma incline a quel sotterraneo compromesso che – nel secondo libro – condurrà la madre al suicidio. Heimatroman, lo definisce Wolfgang Emmerich: il romanzo di un paesaggio tedesco tracciato nel sangue della storia. Archivio di uno spatriato in bilico sul nulla che ripetutamente scrive: «Non ci tornerei a vivere in Germania un’altra volta».

«Chi racconta ora, Gesine? Noi due, non senti Johnson?», si legge nel primo volume. Se la voce narrante è quella della protagonista e chi ascolta è la piccola Marie, altre voci si affollano nei corsivi del testo, tra i blocchi di eventi contrapposti. Sono le parole di una coscienza etica che incalza, voci dei vivi e dei morti che raccontano di oggi e di ieri. La stessa struttura dialogica rifrange l’andamento binario tra passato tedesco e realtà americana istituendo una serie di corrispondenze interne. L’acronia illumina i frammenti di una luce obliqua: è la tecnica che Hannah Arendt – alla quale Johnson è legato da profonda amicizia – rileva negli scritti di Benjamin. Un dato, questo, che  implica una pluralità di interpretazioni. Johnson, che sente nella carne la «colpa tedesca», che è migrato attraverso le ideologie delle due Germanie, scrive ormai da un Niemandsland, da una terra di nessuno. Di qui il suo bisogno di ancorarsi, arrivato a New York, alla presa diretta, al dettaglio concreto, a una sorta di etica pragmatica che gli chiede di registrare elementi anche contraddittori di una società poliedrica e sfuggente come quella americana degli anni sessanta.

Oggi, a trent’anni di distanza, I giorni e gli anni sembrano ribadire il diritto di una testimonianza a tutto campo, svincolata da un’appartenenza ideologica. Il risultato è una sorta di epico compendio di fotogrammi dal mondo alternati ai ricordi di una coscienza inquieta. Ed è proprio qui, dalle dolorose reminiscenze di un’anima tedesca che nascono le pagine migliori. Come quella di uno shabbat di settembre, nel parco lungo il fiume, in cui passato e presente, sembrano ricomporsi: «Può darsi mia figlia può giocare with yours?» chiede Mrs. Ferwalter – il numero tatuato sul braccio – a Gesine che parla in tedesco con Marie. E forse, avverte Johnson, c’è nostalgia di Europa nella voce di quella anziana signora: «Sua figlia è tanto composta. Si vede che non è americana, che è europea» dice l’ebrea rutena nel suo inglese incerto. Le bimbe si guardano l’un l’altra diffidenti. «Ma Mrs. Ferwalter diede l’ordine perentorio: – Go and play nicely! E allora Rebecca ubbidiente prese con sé l’altra bimba a andò all’altalena». Come tutti i grandi narratori Johnson usa i segni mutili della storia allargandone il senso, proiettandoli verso il futuro.

Nell’autunno 1989 la casa editrice Aufbau pubblica l’antologia Eine Reise wegwohin und andere kurze Prosa (Un viaggio altrove e altre prose brevi), che avrebbe dovuto preludere alla pubblicazione di Congetture su Jakob e alla restituzione di Johnson alla letteratura della DDR. Il progetto non ha seguito, a causa del collasso dello stato socialista, ma nei primi anni novanta la sua opera viene letta in chiave di resistenza alla sbrigativa liquidazione del passato recente: nel 1992 un lungo brano del capitolo Wenn Jerichow zum Westen gekommen wäre (Se Jerichow fosse passata all’ovest) dal quarto volume de I giorni e gli anni, che sembra descrivere la colonizzazione della DDR da parte dei tedeschi di Bonn, viene letto pubblicamente da Christoph Hein a Dresda in un’affollatissima Semper Oper e rielaborato su «Freitag», il settimanale “oriental-occidentale” da lui diretto.

Anna Chiarloni

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