L’invenzione del futuro

Fabrizio Cambi – Anna Chiarloni – Matteo Galli
Magda Martini – Michele Sisto

L’invenzione del futuro.
Breve storia letteraria della DDR
dal dopoguerra a oggi

a cura di Michele Sisto
Milano, Libri Scheiwiller, 2009, 464 p.

La migliore letteratura della DDR non dimentica
le ragioni dell’utopia. Si fa carico dei fallimenti,
della necessità di trasformare il mondo.
Prende ancora sul serio i poeti:
“noi non siamo nulla ciò che cerchiamo è tutto”.

Il 9 novembre 1989 la caduta del muro di Berlino innesca il processo di dissoluzione della DDR, che viene rapidamente cancellata dagli atlanti e rubricata nei manuali di storia alla voce “dittatura”. La Deutsche Demokratische Republik era stata però anche una Repubblica delle lettere, il paese d’elezione di molti scrittori scampati al nazismo, come Brecht, Anna Seghers, Heinrich Mann e Arnold Zweig.

Nello “stato socialista in terra tedesca” gli scrittori erano chiamati a partecipare alla costruzione di una società nuova, senza precedenti, all’invenzione del futuro. Oggi conosciamo fatti che smascherano quell’invenzione come inganno, illusione: la censura e l’autocensura, la collaborazione di alcuni scrittori con la Stasi, l’emigrazione di altri nella Germania federale. Ma invenzione del futuro ha significato anche altro: creazione di strutture, disegno di utopie, esplorazione della fantasia. Nella DDR si sono formati – tra consenso e dissenso – autori come Uwe Johnson e Christa Wolf, Heiner Müller e Volker Braun. Ancora oggi forme e contenuti di questa letteratura segnano l’opera di alcuni tra più rilevanti autori della Germania riunificata, da Ingo Schulze a Uwe Tellkamp.

dall’Introduzione

Sembra che la letteratura della DDR ripercorra in pochi decenni la parabola della letteratura occidentale dal 1789 agli anni venti del novecento, rivivendo il trauma della separazione tra etica ed estetica già compiutasi – come illustrato da Pierre Bourdieu – con Flaubert. Dapprima l’adesione a un progetto di trasformazione della società (la rivoluzione democratica in Francia, l’unificazione nazionale in Germania e in Italia, il socialismo nella DDR), quindi la delusione per il tradimento degli ideali universalistici, e infine, attraverso il rifiuto strutturale del potere dominante, la costituzione di un campo letterario autonomo, una sorta di società nella società, basata su valori e gerarchie proprie. «Nella nostra società arte e morale vanno poco d’accordo – annota Brecht nel diario di lavoro alla data 16.1.42 –; quando la morale di una società diventa poco sociale, è un’ottima cosa che l’arte sviluppi una sua propria morale (professionale) e che per il resto diventi “immorale”». Ma aggiunge:

Un ordinamento sociale produttivo svilupperà nel campo dell’arte, accanto alla morale professionale, anche una morale sociale […]. Da oggetto della morale [l’artista] deve trasformarsi in soggetto della morale. La morale si trasforma in produzione. L’artista non soltanto è responsabile nei confronti della società, egli responsabilizza la società. Insomma la società perde il carattere di istanza, l’artista deve rappresentarla nella sua totalità.

Sulla base di queste aspirazioni, che sebbene non senza attrito trovano sponda nell’estetica di Lukács, ancora basata sull’ipotesi ottocentesca che attraverso il superamento dell’alienazione sia possibile ripristinare l’integrità della persona umana, nasce la letteratura della DDR. La repressione della rivolta del 1953, la costruzione del muro nel 1961, i carri armati di Ulbricht a Praga nel 1968, l’espulsione di Wolf Biermann nel 1976 sono altrettante tappe di una progressiva estraneazione dal progetto originario. Col passare degli anni la letteratura tedesco-orientale viene gradualmente riconfigurandosi secondo il paradigma occidentale: da una parte il potere – lì del mercato, qui del partito – e la produzione letteraria che ne segue le regole; dall’altra piccole comunità di resistenti concordi nell’attribuire alla scrittura una funzione critica, di smascheramento, di resistenza all’esistente. Dal proposito brechtiano di ricongiungere, entro condizioni sociali rivoluzionate, l’estetica all’etica si giunge negli anni ottanta al totale isolamento degli artisti della Szene berlinese e – come ha recentemente mostrato Carola Hähnel-Mesnard – alla strutturazione di una comunità separata da quella politica, dotata di codici propri e fondata esclusivamente sulla morale professionale. Questa progressiva estraneazione non è scandita soltanto da cesure politiche. Anche gli scrittori possono prendere l’iniziativa, come fa Uwe Johnson nel 1959 opponendosi al nomos dominante, che prevedeva la sottomissione dello scrittore (e del testo) alle regole stabilite dalla politica. Nello stesso anno in cui la conferenza di Bitterfeld spinge l’imperativo del realismo fino a invitare gli scrittori ad andare in fabbrica e gli operai a prendere in mano la penna, Johnson pubblica un romanzo che, rifacendosi alle avanguardie degli anni venti e trenta (a lungo bandite, insieme a Kafka, dalla cultura ufficiale della DDR) infrange tutte le convenzioni di ciò che era istituzionalmente considerato realismo. La pubblicazione di Congetture su Jakob (solo all’ovest) e il trasferimento di Johnson nella Germania federale rappresentano l’atto di rottura inaugurale destinato a determinare per decenni la dinamica portante della vita letteraria della DDR. In esso la coraggiosa affermazione dell’autonomia della letteratura coincide infatti con la delegittimazione del tentativo di produrre quelle nuove condizioni sociali che per Brecht costituivano la condizione imprescindibile per la realizzazione del suo progetto, non solo artistico ma antropologico. Tutti i principali scrittori della DDR affrontano lo stesso dilemma, tanto nelle prese di posizione pubbliche (si pensi a Biermann) quanto nelle scelte estetiche (il recupero dell’avanguardia in Müller, Braun, Brasch, in certa misura perfino nella Wolf), risolvendolo di volta in volta entro le circostanze date, nelle pratiche artistiche, e nelle opere.

Le opere sono infatti ciò che resta di queste dinamiche una volta che si sono esaurite. Se da una parte limitarsi a considerare le opere può essere un’indebita concessione al paradigma del mercato, quantomeno in riferimento ad autori che generalmente hanno privilegiato un’idea artigianale, progressiva e diffusa del fare artistico – il modello fondamentale è sempre Brecht, quello dei Versuche (Tentativi) e quello che faceva il verso ai produttori hollywoodiani cantando «Consegna la merce! Consegna la merce!» – dall’altra è una necessità imprescindibile, almeno fino a quando non saranno invalse nuove modalità di fare storia letteraria. A giudicare dunque dalle opere l’apporto più rilevante degli autori della DDR alla letteratura del secondo novecento sta probabilmente in una pervicace referenzialità. Referenzialità non solo al dato storico-politico, ma anche al corpo – si pensi alla Frauenliteratur – o al quotidiano, alla condizione stessa dello scrittore che interrompe il suo lavoro per fare la spesa e rispondere al telefono, come mostra Christa Wolf forzando le convenzioni della finzione autoriale. Se il risvolto meno attraente di questa tendenza è la piattezza di certo realismo socialista (che tuttavia raramente ha varcato i confini della DDR) basato su un’interpretazione riduttiva del concetto di rispecchiamento, essa ha d’altra parte funzionato come vaccino contro la tentazione del gioco formale e dell’autoreferenzialità dominante nella letteratura occidentale dagli anni settanta in poi. Le opere mature di autori come Wolf, Müller, Johnson, Braun, Hein o Tellkamp possono a pieno titolo essere considerate postmoderne o tardo-moderne, nel senso di Jameson, e come tali figurare a pieno titolo nel canone internazionale del secondo novecento, ma non condividono i limiti di gran parte della produzione classificata sotto questa etichetta. Per dirla in estrema sintesi, e dunque un po’ rozzamente, la letteratura della DDR non si è mai ritirata non solo dall’agone della politica, ma neppure da quello della storia, mantenendo una capacità di sconfinamento, di uscire dai recinti in cui la società capitalistica tende a relegare la letteratura, che risulta ancora oggi produttiva, non solo attraverso la rilettura degli autori ormai canonici ma anche nella produzione successiva all’89.

È significativo che il riconoscimento di questa attitudine venga non solo dalla critica letteraria, ma anche dall’esterno. Uno dei maggiori storici tedeschi contemporanei, Konrad H. Jarausch, sostiene che la stessa storiografia, per imparare a restituire la complessità e l’ambivalenza del passato tedesco al di là di rigidi stereotipi, dovrebbe prendere a modello scrittori come Uwe Johnson e Christa Wolf (accanto ai quali cita anche Alfred Döblin, Walter Kempowski, Alexander Kluge e W. G. Sebald): le loro sono «opere di finzione in grado di raccontare sia i momenti drammatici che quelli felici e anche, come accade di frequente, quanto siano inestricabilmente intrecciati. Danno conto tanto dei modi in cui le persone si aggregano e si costituiscono in comunità, quanto delle lotte che le dividono e le allontanano. E attraversano d’un balzo la barriera del tempo, mescolando il racconto di esperienze catastrofiche nel loro accadere con la loro ricostruzione memoriale a posteriori. Sono narrazioni epiche, a più livelli e a più prospettive, del farsi e disfarsi di individui e nazioni, che non sfociano in un rassicurante telos di redenzione».

Per un altro verso la letteratura della DDR, proveniente da un sistema profondamente diverso da quello in cui viviamo, ci parla oggi con una radicalità impensabile nel nostro orizzonte. Pone il problema e lo stimolo di un’alterità, di un’alternativa non generica, bensì legata a un esperienza concreta di organizzazione socialista dei rapporti tra gli esseri umani, e appare come un torso potente, una galleria di tentativi di rappresentare la società come totalità, secondo l’indicazione di Brecht. Se poi gran parte di questi tentativi, come l’organizzazione sociale che li ha resi possibili, siano da considerarsi falliti, resta una questione aperta, alla quale peraltro lo stesso Brecht avrebbe probabilmente risposto che sono gli errori a conferire immortalità alle opere d’arte: finché contengono errori, finché non sono perfette, sono utilizzabili, sfruttabili. È proprio il fallimento degli intellettuali orientali, del resto, ciò che Heiner Müller consegna all’Europa nel 1990, pronunciando il discorso d’insediamento a presidente dell’Akademie der Künste della Germania appena riunificata. Colpisce, nelle sue parole, come il senso del fallimento non incrini il radicalismo, anzi lo potenzi, portando ancora una volta in primo piano il nesso tra istanze sociali ed artistiche. Le prospettive future della nuova Europa vengono scandite sul dettato dei poeti; il programma politico, declinato in frasi, è proiettato nell’utopia.

Consentitemi dieci frasi di saluto, la prima formulata centocinquanta anni fa da Georg Herwegh: LA LIBERTÀ DEL MONDO È INDIVISIBILE. Questa frase non ha ancora trovato realizzazione. Resta all’ordine del giorno, dopo il fallimento del tentativo avviato da Lenin di smentire l’ebreo Marx e scongiurare la distruzione del pianeta ad opera dell’industria, il principio della Comune di Parigi NESSUNO O TUTTI. L’alternativa è la legge di Auschwitz, la selezione. Ciò che gli intellettuali dell’est in via d’implosione possono offrire alla nuova Europa provvisoriamente dominata dall’ovest è l’esperienza del fallimento. L’esperienza dell’illibertà, patrimonio di intere popolazioni, può essere usata per farsi carico con maggiore impegno della libertà tuttora divisa. A condizione che le necessità dell’economia concedano il tempo per un’elaborazione del lutto che superi il trauma. Il blocco sovietico si disfa in un turbine di frammenti, l’Europa si trasforma in un’area d’insicurezza, c’è richiesta di immagini del nemico. Ciò di cui l’Europa ha bisogno è un programma di temperanza. Non è tempo di polemiche. L’immagine del nemico ce la mostra lo specchio [der Spiegel], e non mi riferisco a un settimanale. Vorrei che potessimo già dire insieme a Hans Henny Jahnn: A POCO A POCO IL NOSTRO PATRIMONIO È DIVENUTO L’AMORE. Possiamo invece dire, con Hölderlin: NOI NON SIAMO NULLA, CIÒ CHE CERCHIAMO È TUTTO. Chiedo scusa, le frasi erano dodici.

 

Indice del volume

Introduzione
di Michele Sisto (7)

I. 1945-1968: il contributo della letteratura al progetto socialista
di Fabrizio Cambi
(25)

L’“anno zero” 1945 e la ricostruzione culturale nella zona d’occupazione sovietica (25) – Realismo e umanesimo nella narrativa di Anna Seghers (34) – La fondazione della DDR e la politica culturale dal 1949 al 1961 (37) – Uwe Johnson e la poetica congetturale (49) – La narrativa rurale di Erwin Strittmatter (53) – La guerra nella narrativa degli anni cinquanta (55) – La cifra della storia nella lirica negli anni cinquanta (58) – Il teatro dialettico da Bertolt Brecht a Heiner Müller (68) – 1961: il muro e la controversa identità dello stato socialista (80) – La Ankunftsliteratur e Il cielo diviso (83) – Altri narratori degli anni sessanta (95) – «Non veniteci con le cose pronte»: la lirica critica degli anni sessanta (101)

II. 1968-1989: una letteratura critica verso il riconoscimento internazionale di Anna Chiarloni (125)

L’individuo, il socialismo, la storia: Riflessioni su Christa T. (125) – La prosa del nuovo corso: tra critica sociale e Frauenliteratur (133) – La storia nel laboratorio drammatico: il teatro degli anni settanta (146) – Il romanzo: la riflessione sul passato (154) – La memoria della Shoah (159) – La poesia delle nuove generazioni (164) – Il caso Biermann e la cesura del 1976: il disincanto degli scrittori critici, la Szene del Prenzlauer Berg, gli emigrati (171) – Oltre la DDR: gli anni ottanta tra critica interna, sviluppi della Frauenliteratur e disposizione a «prendere la parola per il mondo intero» (183) – Uwe Johnson, I giorni e gli anni (196) – Verso un canone della letteratura della DDR: Christa Wolf e Heiner Müller (200) –  Post scriptum: gli intellettuali di fronte a un “evento inaudito” (209)

III. 1989-2009: Cronache di Atlantide
di Matteo Galli (217)

Considerazioni preliminari (217) – Literaturstreit o della sovranità ermeneutica (222) – Look back: autobiografie (228) – Look back in anger: invettive (240) – Look back and laugh: comicità e Ostalgie (256) – Grands récits: Wenderomane (269) – Giovani talenti: gli anni zero (288) – Sei note sulla poesia della post-DDR (298)

IV. Vicende e problemi della ricezione in Italia
di Magda Martini e Michele Sisto (333)

Premessa (333) – Bertolt Brecht e la parabola italiana dello “scrittore impegnato” (338) – Gli scrittori dell’antifascismo e le delusioni del realismo socialista: da Anna Seghers a Bruno Apitz (345) – Tra il dissenso dei “giovani arrabbiati” e l’insorgere di una logica letteraria: Uwe Johnson (351) – Scrittori delle due Germanie: Huchel e Bobrowski rappresentanti di una letteratura tedesca ancora indivisa (355) – Il profilarsi di una “letteratura della DDR”: Riflessioni su Christa T.I nuovi dolori del giovane W. (361) – Scrittori del dissenso: dal caso Biermann alla ricezione contesa di Reiner Kunze (364) – Il movimento delle donne e la Frauenliteratur (368) – Il boom degli anni ottanta: Christa Wolf, Heiner Müller, Christoph Hein (371) – La strutturazione di un campo di studi specifico (380) – La letteratura della DDR di fronte alla caduta del muro (387) – Scrittori della Germania riunificata tra Ostalgie e Wenderoman: Brussig, Schulze, Grünbein (398) – Uno sguardo d’insieme: canone e influenze (407)

Glossario (415)

Bibliografia delle opere citate (421)

Letteratura della DDR in traduzione italiana (431)

Indice dei nomi (447)

—–

In occasione della presentazione del volume, il 25 ottobre 2009 alla Biblioteca comunale di Trento, Paolo Nori ha detto I bicchieri infrangibili. Discorso sulla DDR, ora pubblicato nel volume La meravigliosa utilità del filo a piombo (Marcos y Marcos, 2011).

Il 31 dicembre 2009 si è parlato dell’Invenzione del futuro con Felice Cimatti a Fahrenheit, su RadioTre. Il volume è in parte disponibile su google books.

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