Gli eretici conniventi

[Lavorando sui pareri di lettura di Cesare Cases mi sono nuovamente imbattuto in questo articolo uscito sul n. 18 della rivista del Pci «Il contemporaneo» (24 luglio 1954). A partire da un famoso libro di Ernst von Salomon, Der Fragebogen (Il questionario), Cases tratteggia il tipo intellettuale del basco, o eretico connivente. Non solo questo saggio-recensione costituisce una delle più esplicite prese di posizione politiche del giovane Cases ‘ortodosso’, ma il tipo da lui descritto mi pare ancora ben presente, a distanza di oltre mezzo secolo, sulla scena culturale e politica italiana. Per questa sua attualità (e perché ottimamente scritto e pungente) ho pensato valesse la pena rileggerlo. Ringrazio Claudio Musso per la trascrizione. M.S.]

Cesare Cases

 Gli uomini che aiutarono l’avvento del fascismo ma poi lo trovarono plebeo per i loro gusti raffinati,
vivono e prosperano in Germania come in Italia  all’insegna dell’«ordine dei baschi»

Era scontato, inevitabile, che fosse l’editore Longanesi a pubblicare la traduzione italiana del famigerato Fragebogen di Ernst von Salomon, poiché è bene che solum è suo ed egli nacque per lui. Ogni riga di questo libro, si può dire, portava scritto: opzione per via Borghetto. Basti osservare, per chi non lo conosca, che l’autore è una specie di felice sintesi tra due illustri scrittori indigeni della Casa: Amerigo Dumini e Indro Montanelli. Col primo ha in comune l’aver partecipato all’assassinio di un noto uomo politico; col secondo il saper scrivere in uno stile piacevolmente smaliziato, che comunica ai benpensanti il brivido dell’intelligenza senza comunicarne i rischi, nonché la brutta abitudine di attribuire alla propria persona un’importanza assolutamente ingiustificata.

Meno scontato, meno inevitabile, era che Longanesi ribattezzasse il volume con questo titolo kravčenkiano (Ernst von Salomon, Io resto prussiano, Milano, Longanesi, 1954). È un titolo che impone una difesa di ufficio del prussianesimo, dolorosa quando è fatta sul Contemporaneo, ma pur necessaria. Lo spirito prussiano è certo, oggettivamente, la conseguenza di un’involuzione storica quanto mai deprecabile per cui lo Stato (militare semifeudale) appare in forma feticizzata come alcunché di indipendente dalla società civile e a cui l’individuo deve subordinarsi senza critiche. Ma come astratta forma mentis, come moralismo di tipo kantiano, esso può, in ore decisive e in persone oneste, staccarsi dal suo contenuto storico e trasformarsi in un superiore impegno di fedeltà alla coscienza.

Per questo, se è vero che il prussianesimo ha costituito uno dei filoni del nazismo (ma uno soltanto), non è men vero che i migliori suoi rappresentanti, come Wiechert, Niemöller, Niekisch, hanno trovato in esso un incentivo a resistere e ad affrontare il campo di concentramento. Ed anche la morte, perché basta scorrere la sezione tedesca delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea per veder riapparire, umano e commovente, l’antico errore prussiano del dovere astrattamente concepito, del dovere per il dovere. Ma chi, in questi casi, avrebbe il coraggio di ricordarsi che è un errore?

La morte non redime il prussianesimo dalla condanna della storia, ma può mostrare come la forza spirituale si alimenti e grandeggi anche da poca linfa. Harro Schulze-Boysen, il fondatore della Rote Kapelle, nato a Kiel, come von Salomon che lo ha conosciuto e apprezzato, scrive prima dell’esecuzione: «Questa morte mi si addice. In qualche modo ho sempre saputo che sarebbe stata così. È per così dire la mia propria morte, come ha scritto una volta Rilke». Ed ecco che l’estetizzante culto rilkiano della morte si fa ad un tratto terribilmente serio, anche il nuovo contenuto che esso ha assunto, e che ha permesso questa metamorfosi, rimane «prussianamente» inespresso.

Ben diverso è il prussianesimo di von Salomon. Ma cominciamo da capo. Il 24 giugno 1922 Walther Rathenau, ministro degli esteri della Repubblica di Weimar, fu ucciso da due giovani membri di uno dei tanti gruppi nazionalistici, quello del colonnello Ehrhardt. Braccati e scovati, i due morirono. L’altro principale organizzatore del colpo, il diciannovenne von Salomon, fu arrestato poco dopo, processato e condannato a cinque anni di penitenziario. Egli ha raccolto la vicenda sua e dei suoi compagni in un celebre libro che porta il significativo titolo di I proscritti. In occasione della pubblicazione del libro in italiano Giaime Pintor subito vi riconobbe il disorientamento dell’intellettuale che evade nell’avventura per sfuggire alla propria responsabilità.

Ora von Salomon torna alla ribalta con questo libro che è stato il più grande successo editoriale del dopoguerra in Germania (ciò che purtroppo lo rivela indicativo di una mentalità assai diffusa). Lo spunto non è privo di genialità: l’autore risponde, in ben novecento pagine, al lungo questionario che le autorità alleate facevano riempire ad ogni tedesco sospetto di attività nazista.

Una cosa è certa: von Salomon non è stato nazista. Tuttavia quando gli americani, appena giunti, lo schiaffano tra le sue proteste in un campo di concentramento, seguono un istinto più giusto di quando lo rilasciano come erroneous arrestee. Poiché egli appartiene a quella categoria di persone che aiutarono a combinare la ricetta della minestra fascista, e quando essa fu scodellata nelle mense popolari della demagogia non ne vollero più sapere. Perché? Appunto perché le masse li disgustano. Volevano agire esclusivamente dall’alto, secondo la buona tradizione prussiana, e invece Hitler ottiene le stesse cose dal basso. Orrore! Per von Salomon, Hitler rappresenta la democrazia integrale, l’odiata democrazia. C’è una nota di amaro cruccio quando egli riconosce di aver appartenuto a una di quelle «innumerevoli navicelle» (i gruppetti reazionari tipo Ehrhardt) che «solcavano il mare germanico prima che un potente incrociatore cominciasse a manovrare nel nostro stagno d’anitre e spazzasse via immantinente tutte le filosofiche barchette degli escursionisti».

In questa fede nello «Stato autoritario» da lui contrapposto allo Stato totalitario della demagogia nazista, von Salomon è dunque veramente prussiano. Tuttavia il suo prussianesimo, passato e presente, finisce qui. Del pathos morale, del dovere per il dovere, in lui non c’è traccia. Con sincerità veramente encomiabile egli ci racconta tutto quanto comprova la sua infinita vigliaccheria di fronte al nazismo (salvo riprendere la antica germanica tracotanza di fronte agli alleati). Non è da dire che questa scoperta vigliaccheria non risulti per certi versi simpatica, soprattutto se la si confronta coi disgustosi tentativi di giustificazione di quegli spiriti suoi congeniali (Jünger, Heidegger ecc.) che, diversamente da lui, si sono ampiamente compromessi col nazismo. Ma dov’è più il diciannovenne vichingo? Dove l’adolescente che muoveva guerra ai compromessi e al disfattismo? Ahimè! I dati segnaletici del questionario ci avvertono che egli è ingrassato: ottanta chili, e si duole di non poter arrivare ai cento. Non solo, ma ne è fiero, perché i grassi «trovano facile credito» anche presso le donne, e si appella «al Cesare del grande conoscitore di uomini Shakespeare», il quale diceva: «Uomini corpulenti voglio intorno a me, con teste lisce, e che di notte dorman bene». Un cortigiano ben pasciuto: ecco che cosa è diventato. Un abile arrivista che ha uno zampino dappertutto: tra gli editori, nei giornali, nel cinema particolarmente. Alla sua attività di soggettista dobbiamo infatti quei bei film UFA che ci deliziavano prima della guerra, con tanti orribili tedeschi grassi che passavano metà del tempo in cucina e metà al ristorante, insieme a certe donne lustre che avevano anch’esse una consistenza puramente culinaria, erano comprese nel menù. Ha mangiato a tutte le tavole fuorché a quella di Cesare, e sappiamo il perché: aveva paura di trovarci i plebei.

Ma è poi tanto cambiato? Lenin ci ha insegnato a non sorprenderci quando scopriamo che il nocciolo del dinamitardo era un filisteo soddisfatto. Tutti e due hanno il mito dell’indipendenza, politica e materiale, se non gastronomica. Ancorché panciuti, sono proscritti, non mai iscritti. Prussiano? No: basco. Che cosa sia un basco glielo spiega in Francia il «re dei contrabbandieri» (naturalmente grasso): «Les basques, Monsieur, ne sont pas un peuple, una nation, une race, les basques sont un honneur! Il y a  des basques français, il y a des basques espagnols, et vous Monsieur, vous êtes un basque allemand!».

Dunque un basco (in questo senso specifico, beninteso, salvo restando il diritto di protesta dei baschi veri). Qual è la concezione basca del mondo? Ricordiamo un articolo dell’editore italiano di von Salomon che la esprimeva molto bene. Egli ascoltava un discorso di Togliatti, a Milano in Piazza del Duomo, e vedeva dietro le finestre di un appartamento un cameriere che, mentre l’uomo politico prometteva al popolo pane e circensi, continuava a manovrare ritmicamente uno spazzettone. E pensava che, per quanto cambino i regimi, quell’uomo avrebbe continuato a spazzare per l’eternità. Così sono fatti i baschi. Si mettono in un osservatorio privilegiato e discosto e stanno immobili a veder zampettare le goffe marionette della commedia umana.

Un esame preciso delle analogie e discrepanze tra baschi francesi, spagnoli ecc. dobbiamo rimandarlo a quando la teratologia letteraria comparata sarà divenuta una scienza esatta. Ma non sarà inutile, per quanto possibile, anticiparne i risultati. I tratti fondamentali sono naturalmente gli stessi. Per esempio il re dei baschi tedeschi e il re dei baschi italiani, Indro Montanelli, concordano appieno nella valutazione del cristianesimo: entrambi sono nati cattolici, entrambi se ne infischiano completamente della religione ma nutrono altissima stima della Chiesa come organizzazione mondana nonché per la sua eccellente abitudine di assolvere da tutti i peccati.

Entrambi concordano altresì nell’atteggiamento verso la società costituita, cui talora si oppongono con manifestazioni clamorose, magari un po’ sgradevoli, suvvia, per chi ne rimane vittima, ma sempre superficiali, perché l’accordo in profondità non manca mai. Uno dei più pittoreschi articoli di Montanelli ce lo mostrava all’assalto del liceo di Prato, di cui il padre era preside: lui rappresentava la Rivoluzione fascista, il padre la Legalità, ma dopo qualche coreografica scaramuccia si appurò ciò che già si sapeva, e cioè che la Legalità era conquistata alla Rivoluzione e pronta ad abbracciarla fraternamente, anzi paternamente. Così von Salomon, dopo averlo ammazzato, legge in prigione le opere di Rathenau e ne resta affascinato. E quando ritrova il giudice che aveva impiegato tanto zelo per condannarlo, i comuni ricordi e il vino della Mosella li entusiasmano al tal punto che si danno del tu, e von Salomon deve riportare a casa sua il nuovo amico completamente ubriaco. Il tutto, insomma, era stato un deplorevole equivoco.

Già questo episodio rivela però una certa differenza, perché il basco tedesco è andato molto più a fondo di quello italiano, sia nel piombo della rivolta che nel vino della riconciliazione. Ma di ciò più tardi. Giova invece qui rilevare un’altra differenza essenziale. Montanelli vede tutto a sua basca immagine e somiglianza, né concepisce che qualcuno possa avere moventi disinteressati: un comunista è per lui un furbone che ha puntato sul cavallo vincente e riceverà laute prebende il giorno stesso in cui Montanelli sarà, a suo dire, immancabilmente impiccato. La luce di questa fine gloriosa rischiarerà retrospettivamente la sua vita come una prefazione al sacrificio, di modo che guardandosi allo specchio egli non sa più bene se vede la pecora attuale o il leone futuro, e ora ci mostra il candido sedere ovino, ora si rivolta scuotendo la fulva immaginaria criniera e incitando i borghesi a seguirlo sulle barricate. È probabilmente questa dilacerazione della coscienza infelice tra essere e non essere a consumarlo, facendo di lui, contrariamente alle buone norme, un basco magro.

Una simile inversione delle parti, per cui l’eroe appare come arrivista e l’arrivista si proietta in eroe, è completamente estranea a von Salomon. La sua sincerità gli preclude ogni illusione sia soggettiva che oggettiva. Egli sa benissimo che nessuno lo impiccherà e che egli ingrasserà indisturbato, proseguendo asintoticamente verso il quintale. E sa benissimo che gli uomini come Schulze-Boysen sono di un’altra tempra. Sui comunisti, poi, ha idee perfettamente chiare, forse anche perché un suo fratello, Bruno von Salomon, dopo inizi simili ai suoi è diventato comunista. Dice una volta che «nel fondo il comunismo aveva senz’altro ragione» e assistendo a una riunione clandestina di comunisti dopo l’incendio del Reichstag, confessa: «Mai prima di allora avevo provato una così pungente vergogna di non essere uno dei loro». Se Dio, come ardentemente speriamo, non è basco, si ricorderà di questa vergogna di von Salomon il giorno in cui la sua anima avrà cessato di ingrassare col corpo.

Questa vergogna è un’ulteriore testimonianza del suo spirito realistico, che ci permette di leggere i primi due terzi del volume con indubbio interesse. Come documento della vita di un basco nel Terzo Reich, esso è di gran lunga superiore a tutte le opere dei baschi nostrani. Anche nella sua unica evasione oltre confine, in Francia, egli mostra di aver buoni occhi. Non si limita infatti, come di rigore, a sedurre subito una francesina, la gentile Majie (e chi gli saprebbe dar torto, dopo tante donne UFA?), ma vedendo i balli popolari del quattordici luglio penetra per la prima volta, nella sua dura cervice prussiana, qualche cosa di simile a un vago barlume di coscienza che il popolo, la società civile, è una grande, libera, gioiosa forza e non un gregge di manovra per i generali. Anche di questo, e della sua decisione «di non calpestar mai il sacro suolo di Francia», Iddio dovrà tenere conto. Non ha forse detto un altro basco tedesco, Friedrich Sieburg, che Dio è francese?

Dobbiamo dunque assolverlo anche noi? No. Iddio fabbrica un’anima, la spedisce sulla terra, e poi se la riprende e fa presto a trovare dei buoni motivi per non dannarla. È il suo mestiere, diceva Heine morente. Noi non possiamo permetterci di questi lussi. Dobbiamo considerare un’anima non solo di per se stessa, ma anche per ciò che rappresenta. Ora von Salomon rappresenta un ordine malefico, quello dei baschi, contro cui l’umanità deve stare perpetuamente in guardia. La lucidità di von Salomon, il fatto che egli sia in grado di misurare e la statura altrui e la propria, non deve trarre in inganno. Perché il gioco dei baschi tedeschi consiste sempre nel vedere il meglio ed appigliarsi al peggio, col pretesto che il peggio è carico di chissà quale Destino metafisico.

Essi vanno in Francia, scoprono che «Dio è francese», ma poi tornano in patria e non muovono un dito per svegliare i tedeschi al canto del gallo francese: anzi, si gonfiano il petto proclamandosi orgogliosamente boches. Si vergognano di non essere comunisti, ma solo per consolarsi subito col fatto che sono dei «declassati», i quali, in base alle ferree leggi dell’etimologia, sono destinati a «superare le classi» senza bisogno di ricorrere al comunismo. Si vergognano dei massacri degli ebrei, ma solo per affermare: «Che non si fosse versato il calderone ebraico attraverso un setaccio era la colpa minore dei terribles simplificateurs, dopo la colpa più grande di averne lasciato troppo cuocere il contenuto». Hanno una compagna ebrea con cui hanno condiviso paure e orrori del Terzo Reich, ma quando anche essa, nonostante strilli «I am a Jewish!», finisce in un campo di concentramento alleato, fa grande amicizia con una donna deliziosa: Emmy Goering.

Sono convinti (bontà loro) che i campi della morte sono veramente esistiti, ma quando ne conoscono i capi, queste placide e miti persone, capiscono subito che non c’entravano per niente. Si vergognano dell’esistenza stessa dei nazisti, e non li vogliono frequentare, ma quando li ritrovano nel campo di concentramento scoprono che sono gente rispettabilissima e che solo loro sono in grado di spiegare i problemi «sull’essenza e realtà di una forza, la quale era stata per sempre di modificare l’ordine del mondo sino alle ultime ramificazioni, e che doveva continuare ad agire in qualche forma…», ecc. ecc.

Ma a che pro continuare? Chiunque legga le ultime nauseanti trecento pagine, il racconto delle vicende dopo l’arrivo degli alleati, non potrà non condividere l’indignazione manifestata da Franco Fortini su Comunità. Più i baschi tedeschi aprono gli occhi sulla miseria tedesca e più si irrigidiscono in essa, di modo che alla fine gli eretici si trovano conniventi, i proscritti iscritti. Non pretendiamo, intendiamoci bene, che essi traggano le conseguenze pratiche dai loro riconoscimenti teorici, che diventino comunisti o altro, bensì soltanto che permangano in un atteggiamento di astratta opposizione, di scissione delle responsabilità. Ma per questo occorrerebbe concedere alla storia un minimo di razionalità, credere che essa sia perlomeno influenzata dagli uomini e che quindi l’astensione abbia già un certo valore, seppure soltanto negativo.

Invece la malafede di von Salomon sta nel fatto che egli non aderisce al nazismo, ma è tuttavia convinto che esso sia una forza trascendente, un cieco destino. Benché infatti Goethe abbia cercato di spiegare ai suoi compatrioti la massima napoleonica per cui ai nostri tempi il Destino è la politica, essi continuano a credere, come gli antichi Greci, gli antichi Romani e il moderno On. Saragat, che la politica è il Destino.

Si capisce come su queste basi l’unica differenza tra il basco e il nazista sia che questo partecipa al Destino, mentre quello si limita a contemplarlo perché la sua natura aristocratica non gli permette di identificarsi con esso nel momento in cui lo fanno tutti gli altri. Quindi il basco è soltanto un nazista a scoppio anticipato e ritardato, che in solitaria masturbazione presagisce ed echeggia il grande amplesso storico del Destino con le masse. Ripetiamo: il merito di von Salomon è che almeno, in questa situazione, egli non si dà, come un Jünger, le arie dell’eroe che occupa il «posto perduto», ma si limita ad ingrassare. Tuttavia la conclusione della storia è sempre la stessa: l’atteggiamento umano, falsamente tragico e falsamente vigliacco, o impegnato che sia in un campo o nell’altro, non conta niente, perché di tutto decide il Destino. Non c’è tema d’errore: dall’alto di queste novecento pagine quaranta secoli d’indegnità nazionale ti guardano.

Ciò ci riporta ai nostri baschi autoctoni. Diversamente dai loro colleghi tedeschi, e seguendo la loro particolare tradizione di indegnità nazionale, essi non giudicano l’assurdo zampettare delle marionette umane come un risultato del Destino, ma del Caso. Mentre quindi i tedeschi aggrottano le ciglia per afferrare il senso della rappresentazione (e magari lo capiscono, e raccapricciano, e godono di trovarsi al riparo su una comoda poltrona, salvo, calato il sipario, andare a congratularsi coi lignei interpreti delle parti dei cattivi perché erano anch’essi sospesi ai fili del Destino), invece gli italiani non fanno il benché minimo sforzo di capire: essi siedono confabulando, schiamazzando, sgranocchiando caramelle di cui buttano le carte per terra. Ogni tanto alzano distrattamente gli occhi verso il palcoscenico, colgono un gesto, e subito ammiccano, ridacchiano, si alzano dal posto per dare un confidenziale buffetto alle marionette delle classi elevate e tirar fuori la lingua a quelle delle classi subalterne. Quando si sono accertati che le prime avranno la meglio, e che sarà quindi soddisfatta l’unica legge storica che essi conoscono, si rimettono a sedere, continuando a disinteressarsi della trama e della morale, opera del Caso, e alla fine dello spettacolo raggiungono nel ridotto i colleghi tedeschi con cui andranno a consumare un’ottima cena prima di accingersi a scrivere per il Corriere o per il Borghese quei resoconti in cui la vanità oggettiva dell’accaduto sarà piacevolmente condita dal sapore delle caramelle soggettive.

Così si risolve anche la questione lasciata in sospeso. Perché von Salomon è un’unione personale tra Montanelli e Dumini? Perché non si è accontentato, in gioventù, di scappare con una sciantosa e di assaltare un liceo per ottenere un giorno di vacanza? È la differenza, appunto, tra chi segue il Destino e chi si abbandona al Caso. Forse anche Montanelli è uscito una volta spinto dal bisogno di ammazzare qualche membro della Legalità che si opponeva alla sua Rivoluzione, ma poi ha visto degli amici assisi intorno a quella certa specialità gastronomica di Fucecchio, e ha scordato tutto. Invece von Salomon non si lascerebbe deviare dal suo Destino nemmeno da un buon pranzo, che per lui è tutto dire. Di qui il malcelato complesso di inferiorità che si riscontra negli scritti degli italiani. Per fortuna l’assennato Indro, invece di prendersi un’ebrea fasulla come von Salomon, ha sposato una tedesca che spera possa rassodare un po’ l’esile, distratta pianta dei baschi italiani.

Intanto la Germania di Bonn ingrassa, e von Salomon con lei, sicché, avendo certo dimenticato nel frattempo le sue ire antiamericane, raggiungerà forse, nonostante le sue pessimistiche previsioni, l’agognato quintale. Le prospettive dell’internazionale basca si presentano quindi buone dappertutto. Che fare contro di essa? Ebbene, se i baschi restano baschi, a noi non resta altro che appropriarci del titolo sbagliato di Longanesi: restare prussiani.

È vero: anche del prussianesimo come concezione astratta del dovere, alla Kant o alla Schulze-Boysen, abbiamo detto all’inizio che è un errore, ma ora, dopo esserci tanto addentrati in territorio basco, ce ne pentiamo e cantiamo la palinodia. Il problema fondamentale del nostro tempo – non lo si ripeterà mai abbastanza – è, come già durante la Resistenza, quello di riunire i marxisti, liberali, cattolici antibaschi, celui qui croyait au ciel e celui qui n’y croyait pas. Per questo bisogna per forza prescindere dalla maggior parte dei contenuti. Quale migliore strumento, allora, del vecchio formalismo kantiano? La «Chiesa invisibile» delle «volontà sante»: ecco che cosa vogliamo e dobbiamo ottenere di fronte al «male radicale» e ai suoi servi baschi. Restiamo prussiani.

Cesare Cases

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2 Responses to Gli eretici conniventi

  1. Andrea Lombardi says:

    C’è da dire che Cases se lo ricorderanno forse in quindici intellò ortodossi e poi meno ortodossi come lui, mentre il von Salomon dei “Proscritti” forse è un’opera un tantino più importante delle righe pur “ottimamente scritte e pungenti” del nostro.

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