Uwe Johnson maestro del mio presente: intervista a Marcel Beyer

Monica Lumachi

Nato nel 1965 nei pressi di Stoccarda, Marcel Beyer vive e lavora a Dresda. Traduttore, poeta e narratore, ha ottenuto una eco internazionale con il romanzo Flughunde, del 1995 (trad. it. Pipistrelli, Einaudi 1997), per il quale ha ricevuto il premio Uwe-Johnson 1997. A proposito dell’uscita  del primo volume della traduzione italiana del romanzo di Johnson Jahrestage (I giorni e gli anni I) abbiamo condotto con Beyer la seguente conversazione. [l’immagine è tratta da nordkurier.de]

Marcel, il primo volume di Jahrestage esce finalmente anche in italiano. In Germania Johnson sembra appartenere  invece ormai definitivamente al “canone” del romanzo novecentesco, anche se in una posizione più defilata rispetto agli altri due nomi della narrativa tedesca del secondo dopoguerra, Grass e Böll. 

Uwe Johnson è stato fin da subito considerato un autore difficile di libri difficili. E tuttavia in quegli anni, vale a dire i primi anni Sessanta, quando esordì appunto con Congetture su Jakob, credo che il pubblico fosse molto più aperto e disponibile alla sfida rappresentata da un testo, al confronto con particolari tecniche narrative e così via. Penso ad esempio alla celebrità e alla diffusione di un autore come Faulkner, di cui lo stesso Johnson era un appassionato lettore. In questo senso si può dire che Johnson abbia avuto all’inizio una notevole risonanza, a cui poi hanno fatto seguito le difficoltà (anche nella stessa stesura) di Jahrestage, recepiti subito come un grande lavoro, ma solo da pochi. Ritengo invece che la fine della DDR abbia segnato una vera e propria riscoperta o scoperta di Johnson da parte di un pubblico più vasto. Se prima ad Est non si conosceva praticamente nulla (eccetto forse un volumetto uscito nel 1990), da quel momento in poi si assiste a un vero e proprio rilancio, culminato con la realizzazione di un film per la televisione tratto da I giorni e gli anni [del 2001, regia di M. von Trotta, M.L.] e che ha portato a un vero e proprio boom di vendite che nessuno avrebbe prima immaginato. Chissà se poi venga letto davvero, dato che è un  un’opera di vasta portata che ha bisogno di molto tempo (a differenza per esempio dei romanzi di Walser). Certo, si riceve poi moltissimo da questa lettura.

In cosa consiste in particolare per te, come autore e come lettore, l’importanza dell’opera di Johnson?

C’è una cosa che continua ad affascinarmi nella lettura di I giorni e gli anni come pure di Begleitumstände [Concomitanze, le conferenze francofortesi di poetica tenute da Johnson nel 1979, M.L.], ovvero il fatto che Johnson non abbia mai cessato di mettere in discussione opinioni correnti e diffuse, non si sia mai ritirato su posizioni sicure, nè abbia mai amato le dichiarazioni fatte ad alta voce. Ne I giorni e gli anni ci sono pagine estremamente divertenti, ad esempio, in cui ironizza su chi si assesta in comode Weltanschauungen e dove non risparmia frecciate all’indirizzo di un certo tipo di intellettuali alla Enzensberger. Credo che anche questo renda così vivi i suoi testi per noi.

E per il narratore Beyer, qual è il peso della lezione di Johnson? Penso soltanto alla centralità, in entrambi,  del ricordo e della memoria di un passato individuale e collettivo, di cui, come scrivi nel discorso di ringraziamento per il premio a lui intitolato, “non si può parlare come di un’epoca conclusa”.

Johnson ha scritto del passato, ma non ha scritto romanzi storici, e lo stesso vale per me, anche laddove, come in Pipistrelli, gli eventi che tratto si collocano essenzialmente nel lasso di tempo tra il ’33 e il ’45. La mia prospettiva, il mio orizzonte intellettuale e le mie conoscenze sono sempre quelle dell’oggi, e penso che questo sia anche l’aspetto più interessante di Johnson. Per quanto i suoi romanzi possano sembrare così diversi, hanno raccontato e continuano a raccontarci del nazismo e della DDR non da una rassicurante prospettiva “in poltrona”, o del tipo “ah ecco, così dunque stavano le cose”, che consente a chi legge di mantenere la distanza dello spettatore. Johnson impegna il lettore, lo provoca a tirarsi dentro in prima persona. Questo è anche quanto auspico per i miei testi.

Montaggio, poliprospettivismo, polifonia delle voci, sono gli strumenti stilistici con cui il romanziere Johnson. Molto di ciò ritorna nella tua stessa prosa. Ti collocheresti in questo senso lungo una ipotetica linea ereditaria?

Non parlerei di un maestro, o di un rapporto di parentela, ma di qualcosa che forse è ancora più bello, ovvero in ultima analisi, di una comunanza di esperienze di lettura, di un analogo sguardo sul mondo. Il fatto di approdare a simili strumenti stilististici ha che fare con questo parallelismo.

Per dirla con Johnson, la costruzione del ricordo non è una questione di riproduzione: semmai – per riprendere il titolo del tuo discorso di ringraziamento per il premio a lui intitolato – di un atteggiamento di ascolto?

È vero. Io ho definito così questa poetica, lasciando tuttavia un po’ aperta questa definizione: per me infatti significa un modo di porsi nei confronti della scrittura, ma anche della lettura. Del resto, è quanto io stesso sperimento leggendo Johnson: ci sono momenti, nei suoi testi, che ogni volta tornano a catturare la mia attenzione. Faccio solo un esempio molto semplice e plastico allo stesso tempo: nel volume pubblicato postumo Heute 90 Jahre [Oggi, 90 anni], che risale a un progetto successivo a I giorni e gli anni, in cui Johnson intendeva raccontare la storia degli Junker, dei grandi baroni terrieri del Meclemburgo, compaiono nomi che ancora oggi sono frequenti e così, quando mi capita di incontrare qualcuno che si chiama, che so, von Mahlzahn, ecco che mi scopro a pensare che il suo trisnonno effettivamente era uno di quelli che distribuivano gli schioppi ai propri servi per sparare sui contadini. Un effetto, una eco simile, è qualcosa di molto diverso da quello che potrei avere da una lezione di storia, di cui forse non ricorderei niente.

L’esempio che hai fatto è interessante perchè ricorda non solo come in Johnson le sensazioni auditive e sonore fungano – insieme a oggetti precisi e concreti – da catalizzatori della memoria, ma anche come la lingua johnsoniana possieda una qualità fisica talmente intensa da  provocare simili meccanismi associativi. Che cosa significa questa esperienza per il tuo lavoro?

L’aspetto della percezione, dell’esperienza del mondo attraverso i sensi, è determinante sia per le mie prose che per la mia poesia. Per questo in entrambi i casi io tento di evitare gli astratti e di restituire, ad esempio, atmosfere o sentimenti di un personaggio tramite il gesto e l’espressione, nella convinzione che il lettore, sulla base di questa descrizione, si faccia strada da solo nel suo mondo interiore. Credo che dietro a ciò stia l’idea che i concetti astratti siano come superfici liscie nel testo: non riesco a collegarvi niente.

Spesso la critica parla di un “realismo” johnsoniano. Forse si potrebbe definirlo in questo senso, come tensione verso l’esperibile fisicamente, sensualmente, e come fuga dall’astratto.

Certo. Spesso agli autori che lavorano in questa direzione viene rimproverato di procedere con lo sguardo freddo del medico, io penso al contrario che sia un modo per invitare il lettore a leggere qualcosa oltre e nella situazione descritta, a raggiungere piani e contesti diversi, compresi appunto quelli storici.

A proposito di personaggi. i bambini e lo sguardo interrogativo infantile sono al centro dei tuoi romanzi, siano Helga Goebbels e i suoi fratellini in Pipistrelli o i cugini di Spie. In che rapporto li vedresti, soprattutto questi ultimi, quasi dei terroristi ossessionati dalle  memorie familiari, con la figura di Marie ne I giorni e gli anni?

La prospettiva infantile per me ha questo valore, che consente agli adulti – ai lettori – di riattivare il già noto o il già vissuto: Helga Goebbels non sa chi è suo padre, il lettore sì, e in tal modo rimane coinvolto nel testo. I bambini di Spie sono l’esatto contrario dell’occhio “unificante” di Helga Goebbels, possiedono un’energia aggressiva che con l’ottenere l’effetto opposto, la perdita di ogni legame. Certo, le figure infantili non stanno affatto a indicare una via di fuga verso una dimensione ingenua, naif. La Marie di Johnson spesso si comporta in maniera molto più adulta di sua madre, è addirittura in concorrenza con lei, non dà pace con la sua curiosità e con il suo desiderio di conoscere il mondo in tutti i suoi aspetti.

Un altro tema johnsoniano è notoriamente la riflessione sui media. Gesine legge il New York Times e commenta le foto dal Vietnam, Marie guarda con passione la televisione.

Altro esempio, la scena in cui madre e figlia vanno al cinema e guardano Notte e nebbia di Resnais, a cui segue una lunga discussione. Fra l’altro la scena per me è doppiamente importante in quanto qui si incontrano e si intrecciano indirettamente due dei miei autori preferiti: il testo del film in questione, infatti, è stato tradotto in tedesco da Paul Celan. Dunque in effetti loro discutono di Celan, senza che con questo Celan compaia espressamente ne I giorni e gli anni. Ma a parte questo, per tornare alla discussione sui media, la cosa che ritengo estremamente interessante in Johnson è che siamo di fronte a un atteggiamento precocemente maturo e distaccato nei confronti dei media – qui fondamentalmente giornali e televisione -, soprattutto si pensa che siamo negli anni Sessanta, in cui si tendeva a demonizzare o a esaltare, per esempio, l’influsso della televisione sui bambini. Non si tratta di eliminare certi fenomeni, ma di trovare una diversa forma di uso. Come Marie, la mia generazione è cresciuta di fatto in mezzo e con i media e come per Marie il problema non è guardare o no la televisione ma come la si guarda. Senza per questo che i fenomeni spariscano. Pur avendo vissuto la discussione degli anni Ottanta condotta sul filo della tesi della desemantizzazione, della manipolabilità dell’immagine, non condivido una certa isteria mediatica, per cui si parla solo della messa in scena delle cose e non più delle cose.

La prospettiva americana de I giorni e gli anni: la propria storia e quella tedesca possono trovare espressione solo dall’altra parte dell’Oceano?

Ritengo che la distanza sia indispensabile per riuscire a descrivere la propria identità, e dunque a prenderne coscienza. Personalmente, io sono andato a vivere e lavorare all’est, e certo posso muovermi e stabilirmi ovunque, ma non sarò mai un tedesco orientale, per il semplice fatto che la DDR non esiste più e che io non sono cresciuto lì. Chi ha vissuto infanzia e giovinezza in un altro paese ha vissuto un altro processo di socializzazione. In superficie al momento molte differenze non si notano più, ma sono convinto che tra venti o trenta anni, e anche nei testi, ritorneranno fuori. Anche tra autori e tra lo stesso pubblico esistono analoghe differenze.

La copertina dell’edizione tedesca delle opere di Johnson reca la dicitura: il narratore delle due Germanie. Sei d’accordo?

No, affatto. Johnson stesso si è sempre ribellato a questa definizione, anche perchè non si è mai sentito un tedesco occidentale, al punto da trasferirsi a vivere in Inghilterra. Non si trattava per lui di negare la propria origine o di appiattire ogni differenza; al contrario, proprio quel suo sguardo speciale, avulso da ogni compromesso, ne fa un caso particolare e non etichettabile.

 Monica Lumachi

da: Alias, suppl. a «Il Manifesto», 5, nr. 45, 16 novembre 2002, p. 7.

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