Morte e apoteosi del Romanzo

The New York Times, October 11, 1967

Massimo Raffaeli

Da una impasse epocale, da un’indigenza letteraria che vorrebbe tramontate e ormai sterili le parole-chiave del moderno nasce uno dei grandi romanzi del Novecento, il più eroico nella totale destituzione dell’orgoglio: I giorni e gli anni 1. Dalla vita di Gesine Cresspahl (prefazione di Michele Ranchetti, traduzione di Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti, Feltrinelli), proposto in edizione integralmente rinnovata rispetto alla prima di trent’anni fa che uscì col titolo di Anniversari, a cura di Enrico Filippini. Si tratta della prima parte di una tetralogia, di complessive millenovecento pagine, che si accampa nell’ultimo decennio della vita di Johnson (1934-1984), nativo della Pomerania, ragazzo prodigio del Gruppo 47, transfuga di entrambe le Germanie, inviso tanto alle cricche burocratiche della RDT quanto alle gilde liberali della RFT, gemello in prosa di Ingeborg Bachmann e, nel riserbo ascetico, antipode dell’amico Gunter Grass: per definirne la fisionomia il critico Hans Mayer, suo maestro all’università, non trovò di meglio che la parola genio. Steso con dedizione maniaca (nel silenzio dell’ultimo esilio, un’isola alla foce del Tamigi), I giorni e gli anni porta a compimento e maestà architettonica quanto poteva già dedursi, di scorcio e per ellissi folgoranti, dai testi che ne avevano svelato il talento, Il terzo libro su Achim (Feltrinelli 1963) e, prima, l’esordio di Congetture su Jakob del ’59, uscito insieme con Il tamburo di latta, scheletro disceso dall’armadio per fermarsi, spettrale, nella terra di nessuno su cui presto si sarebbe eretto il Muro di Berlino.

Misura lenticolare, asfissia dell’io, rigore documentario ai limiti del claustrofobico, cautela verso l’evidenza dei fatti, montaggio dei medesimi, costituiscono da subito i contrassegni di Johnson. Eppure tutto la sua pagina sa evocare meno che i referti di un neonaturalista o la noia, da nomenclatura museale, del Nouveau Roman. Johnson sa così a memoria la miseria della letteratura che gli è data da viverne i tabù come inibizioni primordiali; per lui è scontato che si è divisi (anzi lacerati, quale un tedesco formatosi a cavallo del ’45), è ovvio che la vita dia soltanto immagini prismatiche, che  qualunque intreccio funzioni solo a posteriori, con beneficio di inventario, e tuttavia, ogni momento possa venire revocato in dubbio. Sa cioè che narrare è possibile solo nella consapevolezza depressiva di un falso, costruendo sequenze illatorie di fatti che si limitano a presumersi tali. Uomo del suo secolo, resta persuaso che il dentro e il fuori dell’esperienza configgano nell’io-cruna-d’ago decretandone l’irrilevanza, o meglio l’indicibilità; scrivendo, sente di compulsare frantumi, brandelli alla deriva nello spazio-tempo o, come li chiama, i cocci della vita.

Per questo Johnson non persegue effetti di realismo. Alza la posta, e mira direttamente alla verità: per lo stesso motivo, il suo sguardo sdegna il responso (il percorso lineare, il senso compiuto) e si appunta semmai su domande reiterabili all’infinito. Che ne è di noi che interroghiamo dal presente il passato? Quale il peso specifico di un evento? Quale la portata del suo accadere allora e dell’essere trascritto ora? Il fatto che Johnson si defili e si sciolga, per così dire, dal giuramento non implica il credo borghese dello scetticismo o, peggio, la metafisica avanguardista dell’opera aperta. Ciò comporta, al contrario, una ricezione plastica dei decorsi individuali e collettivi, la vita intesa in campo aperto, refrattaria al giudizio inappellabile. (L’unico dogma in cui si sarebbe forse ritrovato è quello che tiene sempre aperto il tribunale della storia, anche privata: nel ’75 caccia di casa Elisabeth quando scopre che la compagna di una vita ha da anni intimità con un agente dei servizi segreti cecoslovacchi).

L’autenticità come continua approssimazione, la verità della scrittura come utopia, slancio obbligatorio e sempre fallimentare, spiega la meteorite di I giorni e gli anni precipitata in pieno Novecento. Nel mezzo della disputa fra romanzo e antiromanzo, senza voltarsi indietro egli torna all’origine, a Goethe e Manzoni, cioè alla dialettica di vero e verosimile, a una pila di documenti che reclamano di essere interpretati (integrati da una Erlebnis) e, viceversa, affonda in un magma (voci, sensazioni, idee) che, in assenza di un visto documentale, resterebbe virtuale. Per paradosso, il documento che reifica l’io è il solo in grado di animarlo, autenticarlo. Lo scartafaccio di Johnson è la collezione del “New York Times” che si scandisce come un basso continuo esattamente per un anno, dal 21 agosto 1967 (il primo volume si ferma al 9 dicembre): il bollettino dei morti in Vietnam, la rivolta dei neri nei ghetti, l’eco della guerra dei Sei Giorni, il bollore della Grande Mela, sono il nastro trasportatore dentro le giornate di Gesine Cresspahl.

Trentaquattro anni, bancaria, nativa del Meclemburgo, espatriata dalla Germania Est, Gesine vive in un appartamento di Upper Westside con la figlia Marie di dieci anni, la cui precocità si spiega con l’educazione improntata al politicamente corretto ma anche con la sua vocazione socratica alle domande indiscrete. Intorno, a debita distanza, due uomini (entrambi spatriati e potenziali pretendenti), cui va aggiunto un terzo, il “compagno scrittore U. J.”, destinatario del manoscritto. Gesine dispone di tante voci quanti sono i tempi e gli spazi da cui racconta, in prima ma anche in terza persona. C’è la voce del “Times” che funziona da ventriloquo e le spiega quello che non vede, chiusa nel concentrazionario capitalista, tra la Sotterranea e il cubicolo di Manhattan; c’è la voce del ricordo, reso ambiguo dalle intermittenze del cuore dove il passato torna nei modi del romanzo di formazione mentre affiorano la vita del padre ebanista e della madre borghese in Meclemburgo, la saga di una famiglia composita e in vista, l’infanzia sotto la svastica, squarci di giovinezza e patimenti nella Germania Orientale; c’è infine la voce nuda e quotidiana di lei, che racconta spasimando per trarre certezze dai vortici di una turbolenza che non ha mai avuto tregua.

L’effetto non è di moto centrifugo e polifonia. I blocchi di diario e riflessione evolvono fluidi proprio perché non si indirizzano a un giudice (a un autore onnisciente) bensì ad un interlocutore, a una voce ulteriore. Vale a dire a una voce a sua volta consapevolmente parziale, congetturale. Per questo la pagina di Johnson respira, pulsa dal centro ai margini, pure se racchiusa in meccanismi inderogabili, pure se ispirata da un gelo che se da un lato tradisce la disperazione teorica, dall’altro asseconda l’intera gamma della lingua e dello stile. Nel contrappunto di pieni e vuoti, accelerazioni e stati di vitrea rigidezza, da natura morta, non si avverte mai l’indulgenza al capriccio sentimentale ma si sente il dispotismo della necessità, la fermezza dell’autore classico: e sia detto a lode dei traduttori, capaci di misurarsi su una partitura sterminata, che di continuo glissa dal tedesco iperletterario alle sonorità del Plattdeutsch: “Se la memoria potesse comprendere il passato nelle forme nelle quali noi incaselliamo la realtà! Ma il reticolo a più piani di tempo terrestre e casualità, logica e cronologia, che noi usiamo per pensare, non dipende dal cervello, dove noi ripensiamo ciò che è stato. […] Il deposito della memoria non è proprio fatto per riprodurre. È appunto al richiamo di una connessione di eventi che si oppone”.

La verità residua non dalla esorbitanza ma dalla sua stessa fugacità. È un continuo di corpuscoli, ben individuati eppure reversibili fra esterno e interno, come potrebbe essere, nella lunga durata, un piano-sequenza o uno scorrere di affiches: Hitler, il Che in Bolivia, i carbonizzati a Danang, e insieme foto in seppia da passaporto, odori della vecchia Europa, telefoni che squillano sinistri, solitudine e folla, tutto quanto andato, trapassato, e nel frattempo sempre in evidenza, etimologicamente osceno. Chi parla infatti da quei documenti, e chi in essi vorrebbe appagarsi di un senso, di una prestabilita identità? E, ormai, costui parla da dove, e a nome di chi? Introducendo la ristampa di Congetture su Jakob (Feltrinelli 1995), Michele Ranchetti sottolineava “il puntiglio quasi ossessivo di ricostruire la verità e le ragioni delle vite individuali […] nella prospettiva di rivendicare le ingiustizie e le persecuzioni e di dare la parola ai morti, compresenti nella narrazione coi vivi”. Gesine straziata dalle voci e dai ricordi, i quesiti della piccola Marie, i titoli del “New York Times”, l’ombra del compagno Uwe Johnson, ora sono tutti uguali.

Massimo Raffaeli

Uwe Johnson, I giorni e gli anni 1, trad. D. Angiolini e N. Pasqualetti, Milano, Feltrinelli, 2002

da:   Alias, 16/XI/2002, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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