Magda Martini, La cultura all’ombra del muro

[Riproponiamo volentieri, qui di seguito, la recensione di Paola Quadrelli (Intersezioni, 3, 2009) al volume di Magda Martini La cultura all’ombra del muro. Relazioni culturali tra Italia e DDR (1949-1989), il Mulino, Bologna, 2007, pp. 463]

Paola Quadrelli

L’esposizione appassionante, e al contempo equilibrata, delle relazioni culturali tra Italia e Repubblica Democratica Tedesca offertaci in questo saggio da Magda Martini (classe 1975, ricercatrice presso l’Istituto storico italo-germanico di Trento) costituisce un lavoro imprescindibile per ogni futura discussione sul ruolo degli intellettuali italiani nei rapporti culturali con i paesi dell’Est: sorretto da un imponente e accurato lavoro documentario, il lavoro della Martini si pone infatti al di sopra dei dibattiti giornalistici sulla caduta del comunismo, viziati, ora, da polemiche animose e da semplificazione eccessive, ora da ambiguità nostalgiche e da prospettive deformanti e (auto)assolutorie.

La Martini illustra con chiarezza le oscillazioni e le incomprensioni a cui andò incontro il dialogo culturale tra Italia e RDT, sollecitato e promosso, innanzitutto, da intellettuali comunisti o comunque vicini alla politica del PCI: tra di essi occupano un ruolo predominante nella trattazione della Martini il pittore Gabriele Mucchi, per molti anni docente all’Accademia di Belle Arti di Berlino Est, il germanista Cesare Cases, autore nel 1958 di un saggio pionieristico sulla vita culturale nella RDT, Luigi Nono, grande amico del musicista tedesco-orientale Paul Dessau, il matematico Lucio Lombardo-Radice, che a metà degli anni Sessanta sostenne in Italia la causa del dissidente Robert Havemann, Giorgio Strehler, con il suo importante lavoro di diffusione del teatro brechtiano in Italia, e l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli che diresse il Centro culturale Thomas Mann fino al 1968, quando si ritirò dall’incarico in seguito ai fatti di Praga. Il Centro Thomas Mann, fondato a Roma all’inizio del 1957 con l’intento di presentare all’Italia “una visione unitaria della nazione e della cultura tedesca”, finì poi per dedicarsi quasi esclusivamente alla Germania orientale, divenendo, almeno sino al riconoscimento diplomatico della RDT da parte dell’Italia nel gennaio 1973, una sorta di consolato ufficioso dell’“altra Germania”.

Dagli archivi del Centro Thomas Mann, che negli anni successivi estese la propria attività ad altre città italiane sino a spostare il perno della sua politica culturale a Venezia, affiora una messe di lettere, relazioni e documenti che contribuisce a comporre nell’indagine della Martini un quadro assai articolato degli obiettivi comuni e delle ragioni di dissenso nello scambio culturale tra i due Paesi. Lo Stato tedesco-orientale, a lungo isolato diplomaticamente, anelante a un riconoscimento esterno e improntato per propria costituzione ideologica alla propaganda politica, riconobbe nel potente Partito comunista italiano un interlocutore privilegiato e, almeno nei primi tempi, un sostegno sicuro per la propria causa. Nonostante i parziali cambiamenti di rotta della SED (il partito socialista unitario della RDT), nonostante i revisionismi e i nuovi assetti internazionali, la politica culturale della Germania orientale, in tutti i quarant’anni della sua esistenza, fu, com’è ovvio, determinata primariamente da obiettivi politico-propagandistici: il criterio che guidava i censori nella scelta dei libri italiani da tradurre e dei film da distribuire era la bontà ideologica di questi prodotti culturali, ossia, il loro impegno nella lotta antifascista e la denuncia da essi operata della corruzione delle società borghesi e imperialiste.

Gli esiti di questa censura paranoica erano spesso bizzarri e in qualche caso paradossali: Se questo è un uomo e La tregua, i capolavori sull’inferno concentrazionario nazista dell’ebreo, antifascista Primo Levi, ad esempio, non figurarono mai nei cataloghi delle case editrici tedesco-orientali. Se questo è un uomo, in cui Primo Levi sottolineava, tra l’altro, la condizione privilegiata dei detenuti politici all’interno dei lager, venne ritenuto dai censori espressione di un’“esperienza soggettiva e falsa”, in ogni caso non corrispondente alla raffigurazione stereotipata della lotta antifascista diffusa nella letteratura di regime, mentre La tregua conteneva dichiarazioni fortemente critiche nei confronti dei russi e tali dunque da pregiudicare l’amicizia inattaccabile tra RDT e Unione Sovietica. Un bestseller ideologicamente innocuo, quale Il nome della rosa, venne invece pubblicato a metà degli anni Ottanta dall’editore Volk und Welt sulla scia dello straordinario successo internazionale del romanzo. Se ai tempi di Opera aperta, Umberto Eco era stato bocciato dalla censura tedesco-orientale come rappresentante di “un’ideologia piccolo-borghese e di un idealismo soggettivo”, il suo romanzo storico venne fatto passare, invece, come una “critica sociale all’Italia degli anni Settanta” e sotto tali (mentite) spoglie poté essere proposto al pubblico della Germania Est. Gli occhiuti censori provvidero peraltro, previo consenso dello stesso Eco, a espungere l’introduzione in cui l’autore menzionava la cruenta repressione della Primavera di Praga. L’adozione di analoghi paraocchi ideologici, congiunta alla sessuofobia e al perbenismo tipici di ogni regime totalitario, furono i criteri che guidarono anche la ricezione del cinema italiano: Senso di Visconti fu bocciato perché privo di un chiaro contenuto sociale e troppo incentrato sull’elemento sessuale, Rocco e i suoi fratelli fu rifiutato nel 1961 poiché raffigurava dei personaggi appartenenti alla classe dei lavoratori con tratti di brutalità e orrore animalesco.

Se ancora negli anni Cinquanta la RDT godeva all’estero e anche tra i comunisti italiani di quello che la Martini definisce il “bonus ideologico dell’antifascismo”, nei decenni successivi emersero numerosi e laceranti elementi di attrito tra intellettuali occidentali e il repressivo regime di Berlino Est. L’espulsione del fisico Robert Havemann dall’Accademia delle scienze di Berlino Est, la primavera di Praga, l’espatrio di Wolf Biermann nel 1976, le voci del dissenso emerse nella Biennale veneziana del 1977 (fortemente osteggiata da Mosca e accolta dal PCI con un atteggiamento di diplomatica neutralità) segnarono strappi dolorosi e spesso irrimediabili nel rapporto di fiducia tra la SED e l’intelligenzija italiana. Nel 1968 erano peraltro usciti in Italia due approfonditi studi sulla realtà tedesco-orientale: la Storia delle due Germanie di Enzo Collotti, in cui si rimarcavano l’eccessiva burocratizzazione e i gravi limiti dello sviluppo culturale della società tedesco-orientale, e il reportage L’altra Germania di Enzo Bettiza in cui l’autore diagnosticava con straordinario acume i vizi e le contraddizioni della “nuova” Germania: il rapporto sfuggente con il passato nazista che si risolveva spesso più in retoriche formule di ripudio che non in un confronto franco e aperto con le recenti colpe della Germania, la presenza di una borghesia filistea e perbenista e di una società “fredda, opaca, apolitica, china sulla produzione, rispettosa dei titoli e delle gerarchie”, il velleitarismo di un’opposizione conformistica, illusa di potere conciliare il “Diamat” (la dottrina ufficiale del materialismo dialettico) con la libertà.

Ciononostante, l’atteggiamento pubblico di molti intellettuali italiani nei confronti della Germania orientale restò machiavellico e ambiguo, sospeso in formule vaghe, quali “solidarietà critica” o “amicizia critica”, che rivelavano un fondo di ammirazione per le società del socialismo reale e la speranza (o l’illusione) che esse potessero rigenerarsi dall’interno, quasi che censura e intolleranza ideologica non fossero inevitabili corollari delle società totalitarie, ma eccessi di zelo e derive dogmatiche a cui poteva essere posto un freno. La caduta del muro e il collasso della RDT costrinsero gli intellettuali tedesco-orientali e i loro simpatizzanti italiani a un inevitabile e doloroso redde rationem. L’editoria italiana, che già dalla fine degli anni Settanta seguiva con una certa attenzione la produzione letteraria della Germania orientale, pubblicò tempestivamente, a ridosso della riunificazione tedesca, alcuni testi decisivi per la riflessione sul ruolo degli intellettuali nella Germania Est: Il suonatore di tango di Christoph Hein, il racconto autobiografico di Christa Wolf Che cosa resta, la requisitoria di Wolf Biermann contro gli intellettuali rimasti nella Germania orientale (Il coniglio divora il serpente), le interviste di Heiner Müller ne Lo stato della nazione, in cui l’autore, drammaturgo di punta del teatro post-brechtiano, denunciava la condizione di privilegio in cui erano vissuti gli artisti nella Germania Orientale e il conseguente, pericoloso scollamento che si era creato tra l’intelligenzija e la gente comune, la raccolta di racconti di Stefan Heym, Costruito sulla sabbia, in cui Heym descrive il sofferto percorso interiore che lo aveva condotto alla convinzione “che il socialismo reale non è modificabile e che va dunque rifiutato in blocco”.

D’altro canto, Magda Martini riporta anche le condivisibili parole della germanista Anna Chiarloni la quale, di fronte alle accuse di connivenza, acquiescenza e pavidità rivolte nei primi anni Novanta agli scrittori tedesco-orientali, ricorda come alcuni di essi furono per molti anni gli unici ad aver alzato la voce in un Paese non libero e ad aver additato contraddizioni e ingiustizie di un regime oppressivo. Lo studio di Magda Martini si chiude con queste considerazioni e pone dunque infine il lettore dinanzi a una serie di interrogativi difficili e forse insolubili sul ruolo dell’arte nei regimi totalitari e sul rapporto complesso e ineludibile tra cultura e potere.

Paola Quadrelli

da: Intersezioni, 3 (2009)

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