Pocar vs Vittorini?

[Sul nuovo numero della rivista Tradurre ci sono molte cose sulla letteratura tedesca e i traduttori dal tedesco, a cominciare dall’editoriale di G.F. Petrillo che riprendiamo. Immagine via Fondazione Mondadori. M.S.]

Gian Franco Petrillo

La storia complessiva dei rapporti tra la cultura italiana e quella del resto del mondo dopo la prima guerra mondiale è ancora da fare, ma è molto più articolata e viva di come la rappresenta una vulgata sempre più spesso corrente nei media e (temo) nella scuola. Non solo, ovviamente, in Italia si è sempre tradotto da altre lingue, e non solo i classici ma anche i contemporanei. Non solo i risvegli alle culture altrui sono ricorsi più volte fin dal Settecento, in non casuale concomitanza con il risveglio all’identità nazionale. Ma il Novecento letterario italiano si apre, direi, addirittura con un programma di attenzione all’esterno dei confini: quello della «Voce» prezzoliniana.

Tutti gli anni dieci e venti, prima e dopo la prima guerra mondiale, furono un pullulare di traduzioni. La parte del leone la facevano ovviamente gli autori francesi. E questa è una prima dimenticanza della vulgata: il netto predominio che la cultura e la lingua francesi ebbero, in Italia come in tutta Europa, fino alla seconda guerra mondiale. Alla Francia era connesso il concetto stesso di modernità e non c’era persona di media cultura in Italia che non fosse in grado di leggere in francese. Fu tramite il francese che arrivarono da noi anche gran parte dei primi romanzi russi tradotti. Ma quella era la modernità d’élite. Il destino della modernità di massa si giocò, insieme coi destini novecenteschi del mondo, nelle due guerre mondiali e nella guerra fredda, facendo tramontare l’egemonia culturale francese. 

Christopher Rundle (2010) ha dimostrato, cifre alla mano, che già dagli anni venti in Italia si pubblicavano più libri tradotti che in Francia e in Germania; che il numero complessivo delle traduzioni cominciò a calare, nonostante le grida d’allarme per gli attentati alla cultura nazionale lanciati dalle oche di regime già da tempo, soltanto dopo il 1935, cioè dopo l’aggressione italiana all’Etiopia e l’avvicinamento alla Germania; e che fino ad allora la lingua da cui si traduceva di più era di gran lunga il francese. E che, paradossalmente, mentre si cominciava a gridare alla «perfida Albione», proprio allora le traduzioni dall’inglese raggiunsero e superarono quelle dal francese. Di fatto, dal punto di vista culturale l’ostilità si elevava prima di tutto contro la vicina Francia, che tanto più potente e pericolosa appariva in questo campo. E, soprattutto, l’industria editoriale italiana cominciava a essere dominata dalla Mondadori, che assorbiva quasi tutta la produzione in traduzione e che evitava di pubblicare traduzioni di libri francesi perché i lettori abituali, che erano in numero molto più ristretto di oggi, leggevano direttamente in originale questa lingua. In tal modo il dinamico editore diede maggiore spazio ai best seller in inglese, di provenienza però principalmente britannica (forse è il caso di avvertire, anche se dovrebbe essere ovvio, che di postcoloniale non c’era ombra, essendo tempi di colonialismo trionfante).

Fra il 1930 e il 1935, cinque anni decisivi, la situazione era ancora fluida. I «mille demoni della modernità», come li evocava Corrado Alvaro nelle sue corrispondenze da Berlino nel 1929, erano impegnati in una lotta che aveva a epicentro la capitale tedesca. Il grande merito di aver messo a fuoco questo importante passaggio della nostra storia dell’editoria e culturale è di un bel libro di Mario Rubino (2002), che prende il titolo appunto da quella espressione alvariana. E non ho ritegno a riprenderne qui i passaggi essenziali al nostro tema.

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