Lukas Bärfuss, Cento giorni

Cento giorni

[Ripescata anche questa dall’Indice dei libri del mese di qualche tempo faConsigli di lettura. M.S.]

Ilaria Buscaglia

Con uno stile realista e privo di dialoghi, che si fa sempre più crudo e “corporeo” con il precipitare degli eventi, Bärfuss, un drammaturgo al suo primo romanzo, ci porta nella storia recentissima del Rwanda, raccontata in prima persona da David Hohl, un cooperante svizzero impiegato in un progetto di riforestazione.

David arriva in Rwanda nel 1990: il Paese è conosciuto come la “Svizzera dell’Africa” e come partner modello della cooperazione. La situazione politica è stabile, i progetti funzionano, ordine e disciplina caratterizzano il lavoro dei rwandesi. Il protagonista lavora con solerzia, nel weekend fa la vita da expat a Kigali, e si innamora della conturbante Agathe, una ragazza hutu con la quale non riuscirà a stabilire un reale contatto. L’impenetrabilità della donna si rivela il tratto culturale tipico di tutto un popolo e diventa la metafora di un intero Paese: nel 1991, in seguito all’inizio delle ostilità con i ribelli tutsi, in esilio da trent’anni a causa del razzismo istituzionalizzato del regime di Habyarimana, il Rwanda rivela un volto inaspettato. Nelle radio dell’odio gli speakers urlano parole infuocate e si verificano i primi disordini. Il protagonista, pur rifiutando moralmente quanto sta accadendo, si eccita di fronte alle manifestazioni di razzismo della sua donna: è ridotto a un corpo, che tradisce inequivocabilmente una certa attrazione per questo clima di violenza. 

Dopo l’abbattimento dell’aereo presidenziale, mentre i suoi colleghi rientrano in Europa, David rimane a Kigali durante i cento giorni del genocidio, quando vennero uccise ottocentomila persone fra tutsi e hutu moderati. A spingerlo, la speranza di rivedere Agathe e forse anche la volontà (rapidamente disillusa) di capire per la prima volta quel Paese così ambiguo.

Il romanzo è una critica profonda, amara e “dall’interno”, della cooperazione internazionale. Bärfuss ha probabilmente letto Aiding violence, una riflessione scientifica sulle conseguenze politiche dello sviluppo, che Peter Uvin scrisse dopo un’esperienza lavorativa in una ONG svizzera in Rwanda. Per decenni, incantati dall’efficienza di uno Stato ben organizzato, gli europei hanno riversato ciecamente tonnellate di aiuti nelle tasche di un regime fondato sul razzismo e sull’esclusione di una minoranza, consolidando così quelle istituzioni che pianificarono i massacri del 1994.

L’efficacia del romanzo non si basa tanto sulla denuncia, quanto sulla capacità di restituire con ruvida onestà l’ambiguità delle relazioni sociali e delle emozioni in un contesto di violenza estrema. Un giudizio a posteriori separa facilmente i colpevoli dagli innocenti, ma lo sguardo di David è attento alla complessità. Nessuno è assolto, nessuno viene condannato: né Théoneste, il giardiniere che uccide i tutsi ma porta acqua a David, né Agathe che, morendo di colera in un campo di rifugiati, diventa essa stessa una vittima, né Missland, il vizioso muzungu che, però, è l’unico a salvare delle vite umane.

Al centro c’è la storia di un’illusione, quella di un uomo che si ostina a voler raggiungere con una donna (e con un Paese) una profonda empatia che non riuscirà mai a trovare.

Ilaria Buscaglia

Lukas Bärfuss, Cento giorni, ed. or. 2008, traduzione dal ted. di Daniela Idra, Einaudi, Torino, 2011, pp. 216.

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