La fantascienza nella DDR, I

[Pubblichiamo la prima puntata (di tre, che seguiranno) della ricognizione di Alessandro Fambrini sulla Fantascienza nella DDR, realizzata vent’anni fa per la rivista Futuro Europa. La precede una breve nota dell’autore. M.S.]

Alessandro Fambrini

Nota. La breve ricognizione che viene ora pubblicata con il titolo complessivo La fantascienza nella DDR uscì negli anni Novanta in tre capitoli distinti, ospitata da una rivista che in quegli anni conosceva il suo massimo splendore, “Futuro Europa”, curata da Lino Aldani e Ugo Malaguti e pubblicata dalla Perseo Libri di Bologna. All’epoca ero uno dei collaboratori dell’impresa, dedicata alla valorizzazione della fantascienza europea attraverso la proposta di autori contemporanei e la riscoperta di opere più o meno dimenticate del passato. Come “esperto” di letterature tedesche e scandinave, avevo già selezionato testi di classici minori dell’Ottocento e del primo Novecento, come Heinrich Seidel, Christian Morgenstern, Kurd Laßwitz o il danese Jens Peter Jacobsen, che avevo accompagnato con note critiche e piccoli saggi di carattere introduttivo.

A un certo punto, tuttavia, mi venne dai curatori l’invito a cercare qualcosa di nuovo, possibilmente in fonti fino a quel momento non ancora esplorate. Pensai subito alla DDR e alla tradizione che la narrativa utopica aveva tradizionalmente posseduto nei paesi socialisti, in cui la riflessione sul futuro era strumento tra gli altri di una sua progettazione morale, e iniziai a racimolare materiale in forma di saggi e di opere di Primärliteratur. E scoprii ben presto che una puntata non sarebbe bastata.

Nacquero così, intorno al 1994-95, tre articoli distinti, che esaminavano la produzione fantascientifica tedesco-orientale dal dopoguerra agli anni Ottanta, e che uscirono rispettivamente sul numero 14 della rivista (1996), con il titolo La fantascienza nella Repubblica Democratica Tedesca: dalle origini al 1970, sul numero 19 (1997), con il titolo Saiäns-Fiktschen e la science fiction. La fantascienza in DDR negli anni Settanta, e sul numero 23 (1998), con il titolo Incontri straordinari nella DDR.

A essi si accompagnarono degli esempi narrativi che io stesso avevo selezionato e tradotto: racconti colti e raffinati come quelli di Günter Kunert, ma anche opere minori di un gusto pulp alla maniera socialista come il truculento Gli esperimenti del professor Pulex di Herbert Ziergiebel: nell’insieme un quadro certo parziale, ma rappresentativo, di un universo non solo narrativo che già allora, a pochi anni dalla sua scomparsa, stava iniziando a divenire esotico.

Le circostanze e la sede della pubblicazione dovrebbero essere sufficienti a chiarire il tenore dell’operazione e la sua portata: che è necessariamente divulgativo, informativo, senza alcuna pretesa di esaustività. A leggerli in fila, questi tre articoli, si notano le ripetizioni e i pleonasmi, l’ansia di chiarezza che si trasforma talvolta in eccesso di informazioni anche banali. Ma nel complesso credo che emerga un panorama vivace, caleidoscopico, che aggiunge un tassello a quell’insieme tutt’altro che monolitico e monocorde che ci si presenta quando riconsideriamo le vie della letteratura nella DDR.

1. Dalle origini al 1970

La Repubblica Democratica Tedesca – altrimenti nota come DDR (Deutsche Demokratische Republik) – non esiste più. A ben guardare, sembra che non sia mai esistita: che faccia parte di uno di quei magici mondi alternativi che affollano le pagine della fantascienza, in cui la storia ha preso una direzione diversa da quella del mondo reale, così tetragono, grigio, privo d’evasione. Ma la DDR esisteva e a chi la conosceva appariva tetragona, grigia, priva d’evasione: forse per questo, tra le letterature che questo paese ha prodotto nella sua storia quarantennale quella fantastica è stata tra le più copiose, e quella fantascientifica, in particolare – grazie all’accento che il regime marxista poneva sulla razionalizzazione dei mezzi di produzione e sul progresso tecnologico – ha conosciuto una fioritura tanto più interessante in quanto pressoché indipendente dal modello anglosassone che ha invece imperversato nella cultura occidentale, a cominciare dallo stato nemico e gemello della Repubblica Federale Tedesca.

Nella DDR la fantascienza costituiva certamente una forma d’evasione, la possibilità di sfuggire alle contraddizioni che nel corso degli anni, via via, si accumulavano nel reale, ma al tempo stesso era anche un’espressione “di regime”, del tutto consona a un’ideologia che si proiettava verso il futuro e faceva di un’utopia (certo, orribilmente mancata nella pratica) il proprio scopo: si pensi a Ernst Bloch e al suo “principio-speranza”[1], secondo il quale già il pensare come possibile un mondo migliore significava porlo in progetto e quindi iniziare il suo compimento. In questo senso, la fantascienza consentiva di rappresentare quel futuro di nobili idealità realizzate e al tempo stesso di scavalcare un presente di penuria, ponendolo implicitamente come condizione necessaria al raggiungimento di quei fini lontani (anche se non lontanissimi: per la prima volta forse nella storia, l’utopia sembrava davvero a portata di  mano).

Sorprende, quindi – anche se forse non dovrebbe, data l’appartenenza allo stesso scenario mondiale e, soprattutto, la provenienza dalla stessa fonte, ovvero la mente umana, che qualcuno dice sempre uguale nella molteplicità delle sue manifestazioni – sorprende la sintonia di motivi, se non di toni, che attraversa questa fantascienza del tutto sganciata dai suoi corrispondenti occidentali, questa fantascienza autarchica, narrata con accenti realistici, scevra da irrazionalismi e metafisiche, diretta dall’alto, che non si chiama neppure fantascienza (ossia, “science-fiction”), termine americano e quindi bandito, e viene indicata con strane perifrasi: letteratura utopistica, romanzi del futuro e così via[2].

Come nella fantascienza a noi nota, sono numerose, soprattutto nei primi anni, le proiezioni tecnologiche, le scoperte sensazionali che porteranno a enormi mutamenti nella sorte degli uomini, così come centrale è il tema dell’esplorazione spaziale, culminato negli anni dello Sputnik e del trionfo sovietico; al tempo stesso non mancano le riflessioni sull’uomo e sulla sua condizione, alle quali la fantascienza consente una prospettiva inusuale, spesso inedita, che non di rado si trasforma in approfondimento; ai mutamenti tecnologici, si affiancano nelle previsioni generali altrettanto grandi mutamenti politici: soprattutto negli anni cinquanta, la fine del capitalismo è sentita come imminente, e il futuro della Germania (clamorosamente rovesciato nella storia) è quello di un’unità nel socialismo[3], anche se l’ingresso della BRD nella NATO nel 1956, e forse ancor di più la costruzione del Muro di Berlino nel 1961, vennero a incrinare questa certezza. Difficile è comunque tracciare un bilancio breve e schematico di quarant’anni di letteratura che traduce quarant’anni di storia: una storia apparentemente uguale a se stessa, prima di precipitare verso i suoi esiti finali e imprevisti; ma solo apparentemente: proprio la letteratura, quando gli altri canali di osservazione erano preclusi o difficilmente percorribili, ci diceva che qualcosa stava cambiando, e che cosa. La fantascienza, ad esempio, negli anni ottanta non si nascondeva più, si chiamava con il suo nome. A ben guardare, anche questo era un segno.

Lo stato della Repubblica Democratica Tedesca nacque nel 1949 dai territori già appartenuti al Reich tedesco e occupati dalle forze armate sovietiche. Dopo una primissima fase di relativa liberalità culturale, l’inasprimento delle condizioni internazionali, la situazione di fatto di “guerra fredda” nella quale la DDR si trovava schierata a fianco dell’Unione Sovietica, portò a un irrigidimento con da una parte la funzionalizzazione della letteratura a scopi sociali, politici ed economici, dall’altra al rigetto se non all’incriminazione delle opere meno convenzionali e innovatrici. Nella narrativa si tentano di indirizzare gli sforzi verso quei “romanzi di costruzione” (“Aufbau-Romane”) in cui si progetta il comunismo della società futura, ai quali seguiranno negli anni sessanta opere tese al “consolidamento” (“Konsolidierung”) di quella società. In campo fantastico, già si definisce una caratteristica che sarà costante nella futura evoluzione del genere: ovvero, che non esiste un “genere”, o che almeno non viene percepito come tale, la letteratura utopica o decisamente fantascientifica appare fianco a fianco alla letteratura realistica, senza distinzione di etichetta.

Le prime opere sono ristampe di classici del passato, in genere utopie di tradizione umanistica (Looking Backward. Ein Rückblick aus dem Jahre 2000 di Edward Bellamy, Berlino 1949; Utopia di Thomas More, Lipsia 1950; Der Tunnel, “Il tunnel”, dello scrittore antifascista Bernhard Kellermann, uscito in origine nel 1913 e ristampato a Berlino nel 1950), oppure fantasie scientifiche importate dall’Unione Sovietica (Der Schatten der Vergangenheit, “L’ombra del passato”, di Ivan Efremov, Berlino 1946; Patent A.V., “Brevetto A.V.” di Lasar Lagin, Berlino 1947-48; Der zehnte Planet, “Il decimo pianeta”, di S. Beliaev, Berlino 1947) e che mettono in scena contrapposizioni spesso brutali tra mondo capitalista e mondo socialista.

Contrapposizioni ancora più brutali sono rappresentate nelle prime opere autoctone della neonata DDR, i romanzi Der goldene Kugel (“La pallottola d’oro”) di Ludwig Turek e Gefangen am Gipfel der Welt. Im Nordmeer verschollen (“Prigionieri sulla vetta del mondo. Dispersi nel Mare del Nord”) di Fritz E. W. Enskat, entrambi del 1949. Nel primo romanzo gli americani – che possedevano ancora il monopolio sulla bomba atomica – progettano un attacco contro l’Unione Sovietica, ma l’atterraggio di una spedizione venusiana, il cui scopo è quello di liberare l’umanità dal “tremendo idolo denaro”, scongiura la minaccia; tra le altre trovate, è da segnalare un apparecchio telepatico che registra tutti i pensieri del mondo e serve a individuare – e quindi a far eliminare – gli individui più aggressivi, in modo che, alla fine, il capitalismo sia sconfitto e il socialismo trionfi (un curioso rovesciamento anticipato di quello che sarà, anni dopo, il tema di un altrettanto atroce romanzo americano di propaganda, Il ventisettesimo giorno di John Mantley). Il romanzo di Enskat, invece, si rivolge a un pubblico giovanile (come molti dei romanzi fantastici degli anni avvenire, ai quali era affidato un messaggio formativo e didattico) e mette in scena le avventure di un ragazzo che, nel 1975, in una Germania ancora capitalista, va alla ricerca del fratello perduto nel corso di una spedizione sull’Himalaya; nella trama avventurosa le connotazioni sociali si limitano a tratti schematici (i capitalisti senza scrupoli, ma anche capaci di eroismo e bontà, i russi sostanzialmente positivi).

Alle soglie degli anni cinquanta, la società tedesco-orientale andava incontro a uno sviluppo dapprima lento, ma che poi, alla metà del decennio, prese un ritmo sempre più veloce; sulla spinta di questo incremento produttivo e del conseguente relativo benessere sociale, crebbe il numero delle opere d’impostazione fantastico-scientifica: furono un centinaio nell’arco di quegli anni, di cui circa un terzo di autori della DDR; parallelamente sorsero le prime riviste – destinate a un pubblico giovanile – che, insieme ad articoli di carattere scientifico, pubblicavano storie avveniristiche: tali furono ad esempio «Jugend und Technik» e – per curiosa combinazione – una rivista dal titolo evocatore per noi italiani, «Urania Universum». Comune a queste opere è la fede nel progresso (numerose furono le ristampe dei romanzi di Jules Verne), presa a prestito dai modelli sovietici e adattata alla particolare realtà dello stato tedesco, cui faceva da continuo, pressante contrappunto la presenza di un Doppelgänger, di un gemello oscuro, la Germania Federale che si andava rafforzando e minacciava di coinvolgere la più piccola Germania Democratica nei propri processi di capitalizzazione.

Soprattutto fino alla metà degli anni cinquanta e alla destalinizzazione, furono diffusi i cosiddetti “utopische Kriminalromane”, romanzi utopico-polizieschi, in cui le situazioni schematiche (esperimenti pericolosi portano a una scoperta risolutiva per il benessere dell’umanità; spie capitaliste tentano il sabotaggio; la situazione sembra precipitare; attraverso colpi di scena i buoni hanno la meglio; lieto fine) rispondevano alle esigenze di una realtà rigidamente divisa in blocchi contrapposti. Tipici in questo senso sono ad esempio i romanzi Heißes Metall (“Metallo bollente”, 1952) di Klaus Kunkel, in cui i capitalisti voglio rubare un metallo ultraleggero e dalle miracolose proprietà di resistenza, scoperto dai bravi scienziati tedesco-orientali, e destinato “alla nostra società socialista attualmente in costruzione”, o Ultrasymet bleibt geheim (“Il segreto dell’ultrasimeto”, 1955) di Heinz Vieweg, in cui una multinazionale occidentale vuole eliminare uno scienziato che ha scoperto nel Sahara un nuovo elemento migliore dell’acciaio e che può essere prodotto a bassissimo costo.

In questa prospettiva, anche il topos del viaggio spaziale – vivificato a nella seconda metà degli anni cinquanta dal successo dei progetti spaziali sovietici – si colora di connotati ideologici che si combinano alle caratteristiche avventurose; significativo in tal senso è il romanzo di Eberhardt Del’Antonio – uno dei migliori in assoluto della DDR – Titanus, del 1959, in cui l’elemento tecnologico si riduce notevolmente a favore di quello utopico: una spedizione terrestre lascia il sistema solare su un razzo a fotoni e sbarca sul pianeta Titanus-1, popolato di esseri umani fuggiti dal gemello Titanus-2; la situazione iniziale di complicità si ribalta quando appare chiaro che gli abitanti di Titanus-1 sono sfruttatori fuggiti da Titanus-2 perché sopraffatti dalla rivoluzione che si è consumata contro di loro, portando al regno di una società senza classi; ora gli esuli tentano di colpire Titanus-2 con le armi atomiche, ma gli abitanti di quel pianeta riescono a rimandare al mittente i missili distruttori, mentre i terrestri, scampati appena in tempo dal pianeta, raggiungono Titanus-2 e ne visitano la società perfetta, in cui tutti lavorano con impegno e coltivano di pari passo arti e scienze. Altrettanto riuscito è il seguito che Del’Antonio diede nel 1966 al suo romanzo, Heimkehr der Vorfahren (“Il ritorno degli antenati”): la spedizione terrestre su Titanus ritorna dopo dieci anni di tempo soggettivo su una Terra in cui sono trascorsi 345 anni; il pianeta è unito in una società socialista che presenta caratteri utopici, incrinata tuttavia da lievi cenni nostalgici: gli uomini del passato, gli “antenati”, appunto, sono più vivi, sensibili, umani dei loro eredi, dominati da una razionalità inflessibile.

Come avviene, sia pure obliquamente, anche nel romanzo di Del’Antonio, altre opere dell’epoca combinano il filone di viaggi spaziali con quello più contingente della lotta tra le potenze mondiali: così ad esempio il romanzo di Günther Krupkat Die große Grenze (“La grande frontiera”, 1960), mette in scena una spedizione di americani inesperti, salvata dalla catastrofe grazie alla cooperazione di valenti astronauti sovietici, mentre Signale vom Mond (“Segnali dalla Luna”, 1960) di Horst Müller immagina che i sabotaggi effettuati dalle forze capitaliste ritardino il progresso e la conquista dello spazio.

Più rari sono, nel contesto di questi anni, gli esempi di prosa fantastico-utopica, un genere di lunga tradizione umanistica, per il quale tuttavia ci si limita a ristampe. È da segnalare invece, sul piano della satira avveniristica, l’esordio di un autore che – specialmente con le sue liriche – sarà tra i più interessanti della DDR, Günter Kunert, del quale esce nel 1954 la prima raccolta di racconti; tra essi, alcuni presentano spunti decisamente fantastici – una caratteristica, questa, che Kunert continuerà a mantenere nel corso degli anni –, talvolta curiosamente convergenti come esiti e intenti con opere della science-fiction occidentale, talvolta legati a doppio filo con la realtà tedesco-orientale, come Der ewige Detective (“Il detective eterno”), in cui un visitatore proveniente da Marte s’imbatte nelle difficoltà burocratiche della DDR. A pochi anni più tardi, al 1960, risale l’esordio di un altro autore significativo sul versante della satira: con i suoi racconti della raccolta Kumpelfings in Weltenraum (“La famiglia Kumpelfing nello spazio”) Gerhard Branster accentuava il carattere paradossale di certe situazioni che la consuetudine fantascientifica aveva reso popolari, come nell’episodio in cui il piccolo Heinzelmann, durante un pic-nic spaziale, è preso da un’improvvisa urgenza e si mette a liberare “sein Wässerchen in die Unendlichkeit” (“la sua acquetta nell’infinito”).

È nel decennio successivo, tuttavia, tra il 1960 e il 1970, che la fantascienza giunge alla definitiva consacrazione: nel 1962 si tenne il primo convegno, promosso dall’Associazione degli Scrittori, sulla “Zukunftsliteratur” (“Letteratura del futuro”) e i titoli pubblicati, nella seconda metà del decennio, furono circa venti all’anno (di cui una metà di traduzioni). Diminuiscono in questo periodo – anche in seguito alle mutate condizioni politiche mondiali – le opere basate sulla rigida contrapposizione dei due blocchi, cala il numero di storie concentrate sul motivo spionistico, mentre – di pari passo con l’importanza crescente che assume la scienza nello stato socialista – aumentano le vicende imperniate su scoperte volte ad assicurare un aumento della produttività industriale: su tali tematiche ruotano ad esempio i romanzi Unternehmen Marsgibberellin (“L’impresa del gibberellin marziano”, 1964) di Lothar Weise, in cui dalle piante marziane viene estratto un preparato che può aumentare o bloccare a piacere la crescita dei vegetali terrestri, con enormi conseguenze sulla produzione agricola, Ein Bann gegen das Eis (“L’incantesimo del ghiaccio”, 1965) di Herbert Friedrich, in cui una diga tra l’Alasca e la Kamciatka porta a un mutamento delle correnti marine, quindi del clima terrestre, con il riscaldamento delle regioni artiche e la conseguente possibilità di farne terre coltivate, o Im Schatten der Tiefsee (“All’ombra del mare profondo”, 1965) di Carlos Rasch, che rappresenta un mondo futuro nel quale – nel 1990 – gli stati dell’Africa orientale riescono a risolvere i problemi alimentari grazie alla coltivazione intensiva delle alghe.

Il filone che conosce in questi anni una vera esplosione, tuttavia, è quello dei viaggi spaziali, caratterizzato dal forte senso dell’avventura e da una crescita continua della qualità letteraria, sempre meno appesantita da dettagli tecnici e da impedimenti moralistici; esemplare in questo senso è il romanzo di Herbert Ziergiebel Die andere Welt (“L’altro mondo”, 1968): con tecnica diaristica è narrato il progressivo deterioramento psicologico e fisico di un equipaggio che, naufragato su un asteroide, è costretto ad attendere per un anno l’arrivo dei soccorsi. Nelle trame avventurose non è del resto impossibile scorgere in trasparenza un riflesso della situazione mondiale, in particolare per quanto riguarda un problema urgente dell’epoca, l’emancipazione del terzo mondo, in cui si andavano allora combattendo strenue lotte di liberazione: così, in Das Gehemnis des Transpluto (“Il segreto di Transplutone”, 1962) un americano sabotatore si allea con la fazione reazionaria degli extraterrestri contro il gruppo che, animato da principi socialisti, alla fine avrà la meglio, e in Die Stimme der Unendlichkeit (“La voce dell’infinito”, 1965) di Hubert Horstmann i terrestri aiutano i ribelli di Proxima che si rivoltano contro la dominazione feudale di una gerarchia religiosa.

È ancora negli anni sessanta che s’inizia a distinguere una corrente di fantascienza “archeologica”, condizionata anche dall’atteggiamento positivo dei sovietici rispetto all’argomento (all’opposto delle fobie solitamente nutrite da noi occidentali nei confronti degli extraterrestri), inaugurata dal romanzo di Carlos Rasch Der blaue Planet (“Il pianeta azzurro”, 1963), in cui una nave spaziale atterra tra i sumeri, e proseguita da opere come il dittico di Günther Krupkat Als die Götter starben (“Quando morirono gli dei”, 1963) e Nabou (1968), che mette in scena una titanica costruzione che collega eventi del remoto passato (la distruzione di Sodoma e Gomorra, la formazione della terrazza di Baalbek) e del prossimo futuro (l’unità degli uomini sotto il socialismo) attraverso una razza benevola che popolava il pianeta Meju, andato distrutto seimila anni fa, e che ha visitato a più riprese la nostra Terra per indirizzarne e guidarne le sorti.

Nello stesso periodo, Gerhard Branster continua nella sua rivisitazione sarcastica dei luoghi comuni del genere con la raccolta Zu Besuch auf der Erde (“In visita alla Terra”, 1961) e con il suo primo romanzo Die Reise zum Stern der Beschwingten (“Viaggio sul pianeta degli alati”, 1968), una parodia delle avventure sfrenate e dei personaggi ottusamente eroici di certa fantascienza: qui i protagonisti sono deboli, grassi e pelati, i viaggi nello spazio avvengono senza un perché e gli incontri con razze strane e sconosciute, come in certi romanzi di Sheckley, si susseguono comicamente.

In un’opera anch’essa di intento satirico, Silvanus contra Silvanus (1969) di Klaus Beuchler, si affacciano per la prima volta le problematiche legate alla cibernetica e all’intelligenza artificiale (un artista di varietà costruisce un androide che riproduce le fattezze di suo figlio ed è dotato di grandi capacità esecutive, ma è incapace di amare come un essere umano), ma è un romanzo di Kunert – apparso anche in edizione italiana – a rappresentare probabilmente il vertice della letteratura fantastica del periodo, Im Namen der Hüte (“Nel nome dei cappelli”, 1967); l’opera si regge su una trovata di grande suggestione: il protagonista è in grado di leggere i pensieri degli uomini attraverso i cappelli che hanno indossato; sullo scenario di una Germania sconvolta, nell’immediato dopoguerra, le sue avventure, narrate con garbo e ironia, rappresentano anche un quadro reale e talvolta sgradevole, che dovette dispiacere al regime, tanto che il romanzo non fu pubblicato in DDR fino al 1976.

Negli anni sessanta iniziò anche una produzione di narrativa fantascientifica breve, dopo che praticamente tutti gli sforzi si erano concentrati sulla misura del romanzo: nel 1961 apparve la prima antologia dedicata al genere, Phantastische Weltraumfahrten (“Viaggi spaziali fantastici”) a cura di B. Mittenzwei, cui seguì nel 1964 un’altra antologia, incentrata sul tema dell’utopia, Reise nach Utopia (“Viaggio verso l’utopia”) a cura di W. Krauss. Parallelamente prese a svilupparsi un fenomeno simile a quello del “fandom” occidentale, dapprima con il raggrupparsi di appassionati in circoli non ufficiali[4], poi con il costituirsi di gruppi organizzati, tra i quali ad esempio lo “Stanislav Lem-Club” a Dresda, che nel 1967 assommavano secondo l’autore Carlos Rasch almeno a quindici[5]. Già si preparava la strada a un’apertura verso occidente che portò, negli anni settanta, alle prime traduzioni di autori anglosassoni e all’importazione del termine science-fiction , che venne così a definire la cosa che già esisteva, ma non aveva nome.

Alessandro Fambrini


[1] Das Prinzip Hoffnung (1954-59) fu una delle opere maggiori del filosofo tedesco Ernst Bloch (1885-1977) che nel dopoguerra, al ritorno dall’esilio cui lo aveva costretto il nazismo, scelse di vivere in DDR, da dove tuttavia si allontanò definitivamente nel 1961 in seguito a un inasprimento dei rapporti con la dirigenza politica.

[2] “I termini Zukunftsliteratur (‘Letteratura del futuro’), Wissenschaftliche Phantastik (‘Fantastico scientifico’) e Utopische Literatur (‘Letteratura utopistica’) vengono usati comunemente – e talvolta anche dalle case editrici – come sinonimi per la SF […] Wissenschaftliche Phantastik è un calco disgraziato dal russo […]; come ‘utopistico’ vogliamo designare – secondo la consuetudine internazionale – le utopie sociali classiche e quella parte della SF che si concentra sull’ideazione e la rappresentazione di modelli sociali” (Die SF der DDR-Autoren und Werke: ein Lexikon, hrsg. von E. Simon und O. Spittel, Berlin 1988, p.6); gli autori sostengono altresì che è dovuto passare molto tempo prima che in DDR “si accettasse l’internazionalità del genere che il nome inglese esprime” (Ivi, p.11).

[3] Ad esempio, nel romanzo di G. Krupkat Die Unsichtbaren (“Gli invisibili”, 1958) il protagonista compie un’osservazione che la recente unificazione rende plausibile, anche se non certo in corrispondenza con le intenzioni dell’autore: “Qui, negli anni cinquanta, s’innalzavano le barriere di confine. In mezzo alla Germania! Le chiamavano linee di demarcazione. Che strana epoca doveva essere” (G. Krupkat, Die Unsichtbaren, Berlin 1958, p.139).

[4] Cfr. Horst Heidtmann, Utopisch-phantastische Literatur in der DDR, München 1982, p. 237 n.

[5] Cfr. Ivi, p.76 e p.139.

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