La fantascienza nella DDR, II

[Seconda puntata (di tre, la prima è qui) della ricognizione di Alessandro Fambrini sulla Fantascienza nella DDR.]

Alessandro Fambrini

2. Gli anni settanta

Come si è visto nella prima parte di questo studio relativo alla storia della fantascienza nella Repubblica Democratica Tedesca, già alla fine degli anni sessanta si erano segnate le prime uscite dalle delimitazioni di campo – peraltro mai rigorosamente segnate e ghettizzanti come qui da noi in Occidente – che avevano visto nei decenni precedenti imporsi due filoni principali interni al genere, quasi sempre improntati – qualora si prescinda da quello utopico, che si situa a parte – a intenti divulgativi, fossero essi di tipo politico oppure tecnologico-scientifico, realizzati attraverso impianti avventurosi, secondo modelli arcaici e ancora tardo ottocenteschi nella loro struttura, su cui venivano innestati nuovi contenuti etico-ideologici.

Gli anni settanta si aprono con immense novità sullo scenario mondiale. Il “disgelo” che scioglie il clima di guerra fredda, avvicinando in un balletto le grandi potenze, va a investire anche i rapporti tra Germania Federale e DDR. I socialdemocratici al potere in BRD aprono relazioni diplomatiche con il paese gemello (il 19 marzo 1970 si ha lo storico incontro del cancelliere Brandt con il premier tedesco orientale Stoph a Erfurt), che viene così di fatto riconosciuto come soggetto reale: nel 1972 l’accordo di Bonn tra i due paesi dar… il via a un processo di normalizzazione che culminerà con l’accoglimento, nel 1973, della DDR quale membro dell’ONU. Erich Honecker, che nel 1971 aveva assunto la direzione della SED divenendo di fatto il leader della DDR, promuove al suo insediamento un progetto che invita gli scrittori a invadere spazi fino ad allora sconosciuti alla letteratura di regime, per lo più impegnata – in narrativa – a seguire le coordinate del realismo socialista.

Il fantastico iniziava così a conquistarsi uno spazio più ampio nella considerazione dell’establishment letterario e la forma breve del racconto trovava presso pubblico ed editori un consenso fino ad allora sconosciuto. Autori di letteratura “alta” si producono in tentativi che riconducono per molti versi alla fantascienza classica: è questo il caso di Anna Seghers con Sagen von Unirdischen (“Leggende di extraterrestri”, 1972), di Christa Wolf con Selbstversuch. Traktat zu einem Protokoll (“Autoesperimento. Trattato per un verbale”, 1973), o più organicamente di Günter Kunert, già da molti anni attivo sulla scena del fantastico che appare la dimensione a lui più congeniale, o di Franz Fühmann, autore nel 1974 del racconto Die Ohnmacht (“Lo svenimento”), poi confluito nella raccolta Saiäns-fiktschen del 1981, con il suo titolo che deforma, riproducendolo secondo l’onomatopea tedesca, la denominazione stessa del genere della science-fiction. Su queste opere si tornerà più avanti.

Parallelamente a queste incursioni, autori “di genere” esordiscono o continuano la loro carriera, mostrando però una multiformità di interessi e capacità immaginative e speculative in precedenza sconosciute. Opere di fantascienza appaiono su giornali e riviste non specializzate, in antologie di narrativa “comune”. Negli anni settanta esce un quantitativo di opere pari a quello complessivo dei venticinque anni precedenti. Di soli autori “indigeni” della DDR – senza contare quindi le traduzioni o le opere di autori di altri paesi tedescofoni – escono dal 1971 più di dodici volumi all’anno[1]. Resta tuttavia irrealizzata la prospettiva – portata a buon fine in altri paesi dell’area socialista – di creare una rivista specializzata nel settore: solo nel 1980 uscirà il primo numero di un “almanacco della letteratura utopistica”, «Lichtjahr 1».

In questo quadro di fermenti, le linee che percorrono la fantascienza della DDR non sono più marcate come in precedenza, e tuttavia alcune coordinate appaiono comunque riconoscibili. Una netta prevalenza all’interno del genere è registrata da testi avventurosi, spesso sulla misura del racconto, orientati su tre grandi direttive: 1) il viaggio spaziale e il contatto con gli extraterrestri (nella duplice direzione di espansione dell’uomo verso il cosmo e di spedizioni aliene sulla terra); 2) la proiezione avveniristico-politica; 3) l’avventura tecnologico-scientifica. Spesso, com’è ovvio, i tre filoni si mescolano e trapassano gli uni negli altri, dando vita a lavori compositi in cui s’intrecciano istanze contingenti, leggibilissimi riferimenti alla politica di quegli anni e motivi sovrapolitici e sovranazionali, collegati alle direttive più ampie, alle radici comuni di una civiltà come quella occidentale che, nel suo orientamento complessivo, produce lo stesso sforzo ed è rivolta alle stesse finalità.

Al centro dell’azione delle opere di avventura interplanetaria “pura” si trova spesso il motivo dell’incontro e dell’interscambio con altre civiltà e altre razze. In Besuch aus dem All (“Visita dal cosmo”, 1973) di Wolf-Dieter Spiethoff, navi spaziali aliene atterrano in una base sovietica e rivelano agli occhi degli scienziati un equipaggio formato da esseri incomprensibili, diversissimi dagli umani, con i quali fallirà ogni tentativo di comunicazione. Più interessante è Die Augen der Blinden (“Gli occhi dei ciechi”, 1973) di Werner Steinberg, già sessantenne quando pubblica questo romanzo[2] in cui l’innovazione fantascientifica serve anche a dinamiche d’altro stampo: un viaggio spaziale compiuto da due uomini e una donna, infatti, è il pretesto per uno studio psicologico che vede un fondale insolito al conflitto dei personaggi e al dilemma che la protagonista femminile dovrà sciogliere scegliendo uno dei suoi due compagni. La situazione va incontro a una svolta quando l’astronave sbarca sul pianeta alieno, abitato da umanoidi ciechi il cui supremo rappresentante, a capo di un oppressivo sistema feudale, vuole per sé‚ la donna allo scopo di generare una progenie di vedenti (e dichiara di possedere un organo riproduttivo lungo mezzo metro; del resto, le femmine possiedono tre mammelle e l’organo riproduttivo immediatamente al di sotto, mentre anche gli uomini tengono a riposo il loro organo gigantesco in una piega posta sotto il seno). Uno dei due compagni, quello dalla mentalità scientifica e razionale, si dichiara a favore dell’obbrobrioso accoppiamento, mentre l’altro, più passionale e emotivo, vi si oppone. Alla fine, in tutta fretta, si scopre che la razza aliena è sul punto di sviluppare una mutazione genetica che la porterà per suo conto a possedere organi di vista. Per favorire tale mutazione si decide di agire anche chirurgicamente, e nel caos che segue l’avvento dei primi “vedenti”, i tre umani riescono a fuggire. E ormai la femmina potrà compiere facilmente la sua scelta.

Pochi anni più tardi Steinberg si cimenterà con un secondo romanzo di fantascienza, Zwischen Sarg und Ararat (“Tra la bara e l’Ararat”, 1978), decisamente migliore del precedente: in un’astronave generazionale l’unico sopravvissuto della spedizione originaria assiste alla progressiva degradazione fisica e morale dei componenti dell’equipaggio, il cui comando è assunto da un comandante sadico e spietato. Quando l’astronave naufraga su un pianeta sconosciuto, la situazione di bordo si trova replicata nella società degli esseri alieni che abitano il nuovo mondo: qui una razza proveniente dalle stelle, costretta anch’essa molti anni prima a un atterraggio forzato, ha soggiogato la popolazione originaria e l’ha costretta in schiavitù. L’incontro degli umani con gli alieni avviene su un piano di scontro e di violenza, che solo grazie ai membri più illuminati dell’una e dell’altra parte porterà a una situazione di stallo che sembra preludere a una possibile, più matura convivenza nel rispetto e nella reciproca tolleranza.

Oltre al “fattore umano”, così centrale nei due romanzi di Steinberg, due altri sono tra i principali agenti propulsivi delle opere tedesco-orientali di questi anni che rientrano nello standard della fantascienza hard: l’infortunio tecnico, come nei racconti Havarie (“Avaria”, 1977) di Bernd Ulbrich e Risiko (“Rischio”, 1977) di Klaus Frühauf, uno degli autori più prolifici degli anni settanta e ottanta, in cui un componente robotico di un’astronave si guasta e si rifiuta di portare a termine la missione per la quale è stato creato; e l’intervento scatenante di fattori esterni, ma comunque naturali (pioggia di meteoriti, macchie solari e così via), come nel racconto lungo Der Marssturm (“La tempesta marziana”, 1976) di Frank Quilitsch. Una mescolanza di elementi presentano i racconti di Karl-Heinz Tuschel raccolti in Raumflotte greift nicht an (“La flotta spaziale non attacca”, 1977), in cui predomina la struttura “a enigma” e ogni episodio è occasione di un mistero, dall’incontro con alieni che comunicano attraverso onde radio e avvertono come un disturbo la presenza rumorosa dei terrestri (Der unverständliche Funkspruch, “Il radiomessaggio incomprensibile”), alla sequenza di disavventure cosmiche provocate da un taxi spaziale in avaria al suo equipaggio (Kalte Sonne, “Sole freddo”) e al contatto con razze ignote che popolano la galassia che serve da pretesto a uno studio dell’istinto umano all’aggressività e alla socialità come nel racconto che dà il titolo al volume.

Tuschel tra l’altro, oltre a essere uno dei più prolifici autori di fantascienza della DDR, è stato uno di coloro che maggiormente hanno contribuito all’esplorazione del topos robotico in questa letteratura, già fin quasi dai suoi esordi con il racconto Der unauffällige Mr. McHine (“Il modesto Mr. McHine”, 1970) e poi soprattutto con il romanzo Die Insel der Roboter (“L’isola dei robot”, 1973), una sorta di risposta alla mitologia asimoviana con le sue tre leggi: i robot sono restituiti nel romanzo al loro stato di strumento al servizio, nel bene e nel male, degli esseri umani, e deprivati pertanto di ogni attributo che possa porli in contrasto con essi, anche se – o anzi proprio in quanto – si rivelano capaci di apprendere grazie alla loro particolare programmazione stocastica. La funzione dei robot di Tuschel si misura tutta nella portata della società in cui si trovano ad agire, e ciò fa slittare in parte il romanzo dai binari avventurosi, sui quali la storia comunque si dipana, verso quelli utopico-sociologici che sono al centro del miglior romanzo dell’autore tedesco, Kurs Minusmond (“Rotta Luna Minus”, 1986), in cui viene descritta una società futura retta su principi socialisti nella quale ogni individuo, al fine di realizzarsi, ha diritto di svolgere tre professioni diverse, condizione, questa, che libera energie altrimenti sepolte e insospettate, tali da dischiudere alla razza umana la possibilità di una nuova tappa nel processo evolutivo.

Anche nei romanzi apparentemente più tradizionali di avventure spaziali spesso si cela il germe di originali innovazioni, evidenti soprattutto nelle storie di contatti ravvicinati con specie extraumane – forse fin troppo trasparente riflesso della (relativa) apertura al mondo che il disgelo politico andava provocando al paese. Così in Die Rätsel des Silbermondes (“Gli enigmi della luna d’argento”, 1971) di Hubert Horstmann, autore del già citato Die Stimme der Unendlichkeit (1965), cade il pregiudizio che gli alieni debbano essere simili agli esseri umani: in uno scenario di mari d’ammoniaca e metano, gli abitanti di Titano e i terrestri, lontanissimi gli uni dagli altri nell’aspetto fisico, si ritrovano tuttavia sul terreno comune della logica e della ragione, che dischiudono anche le vie apparentemente impraticabili della reciproca comprensione. Più inquietanti – e più “alieni” nonostante la loro appartenenza al regno comunque animale – sono le creature immaginate da Richard Funk per il suo Gerichtstag auf Epsi (“Giorno d’udienza su Epsi”, 1973), sorta di ragni giganteschi che divorano a tavola esseri viventi (e vivi).

L’organizzazione sociale delle civiltà non umane, nelle opere che ruotano intorno alla problematica aliena, si presenta secondo uno schema bipolare: se molto progredita, assume forme e contorni assimilabili all’ideale socialista, assunto come ragionevole sbocco universale per ogni forma di convivenza civile, cui fa da controcanto, come modello degenerativo, un capitalismo brutale e oppressivo; le società arretrate, invece, tendono a strutturarsi secondo un feudalesimo di stampo terrestre, destinato a essere sconfitto e superato: un tipico esempio di questo schema è un altro romanzo di Tuschel, Die blaue Sonne der Paksi (“Il sole azzurro dei Paksi”, 1978) in cui l’equipaggio di un’astronave in esplorazione scopre una civiltà robotica (fondata, come si ricostruirà nel corso dell’opera, da un’astronave terrestre precipitata secoli addietro) organizzata secondo oscuri principî medievalizzanti, e finisce per schierarsi con la fazione “progressista”, aiutandola nella sua lotta.

In sintesi, comunque, il tema del rapporto umani/alieni può essere ricondotto a tre principali filoni. Il primo di essi inscena un “primo contatto” amichevole, sulla scorta di un modello già affermato fin dagli anni cinquanta e di derivazione sovietica, contrapposto ai cliché‚ bellicosi della fantascienza angloamericana: in Projekt Pluto (“Progetto Plutone”, 1976) di Gerhard Matzke, ad esempio, i terrestri accorrono in aiuto degli abitanti di Plutone e collaborano nell’impresa di spingere quel pianeta ostile alla vita in un’orbita più vicina al sole, mentre in Planet der Träume (“Pianeta dei sogni”, 1973) di Hans Prüfer una razza di piante senzienti si dimostra più evoluta dell’uomo e gli dispensa nozioni scientifiche come l’antigravità, spingendo l’ipotesi di una totale armonia cosmica oltre i confini stessi della vita animale.

Una seconda opzione è quella opposta e antitetica di relazioni strutturate inizialmente sulla bellicosità, che quasi sempre, tuttavia, finiscono per risolversi in chiave di superamento e di miglioramento reciproco delle parti in causa: così, nel già rammentato Gerichtstag auf Epsi l’iniziale ostilità degli alieni è provocata da malintesi nel contatto (gli umani sono giudicati erroneamente invasori); in altri casi gli scontri iniziali sono solo il preludio a rapporti di altro tipo: in Mutanten auf Andromeda, il primo dei numerosi contributi di Klaus Frühauf alla letteratura di fantascienza, una razza di alieni sembra irriducibile nel suo odio contro i terrestri, fin quando non si scopre che essa è composta dai mutanti generati da una catastrofe atomica; solo alla fine appariranno sulla scena i discendenti dell’antica razza di Andromeda, evolutissimi e saggi.

Il terzo tipo di storie imperniate sulla dialettica umano/alieno è di stampo nuovo. Al suo centro campeggia una problematica fino ad allora trascurata o marginale: quella dell’incomprensione, dell’incomunicabilità. Gli esseri umani, in questa nuova prospettiva, non sono più destinati a ogni costo e a priori al successo. In Raumstation Anakonda (“Stazione spaziale Anakonda”, 1974) di Curt Letsche, un esempio illuminante del genere, gli alieni si dimostrano progrediti tanto dal punto di vista scientifico (hanno sviluppato un sistema per modificare a piacimento gli oggetti e l’ambiente, trionfando così sulle condizioni materiali e assurgendo a un rango quasi divino) quanto da quello morale, avendo superato lo stadio dell’egoismo e dell’aggressività, mentre gli uomini si rivelano incapaci di porsi obiettivi diversi da quello del soddisfacimento del proprio piacere. Tra le migliori, in questo gruppo di opere di carattere prevalentemente avventuroso, è un romanzo di Heiner Rank, Die Ohnmacht der Allmächtigen (“L’impotenza degli onnipotenti”, 1974), che suscitò grandi dibattiti all’epoca della sua uscita e segnò, insieme ad altri esempi di questi anni, il passaggio della fantascienza a una fase più matura e consapevole nella scrittura e nella concezione e soprattutto nella percezione del pubblico dei lettori.

Il romanzo replica uno schema caro a certi classici occidentali del genere (si pensi in particolare a La città e le stelle di Clarke): un astronauta si risveglia su un pianeta sconosciuto, Astilot, popolato da una civiltà che ha raggiunto vette inconcepibili di progresso materiale; tanto progresso, tuttavia, ha prodotto stagnazione e la perdita di valori basilari alla definizione stessa del concetto di umanità quali amore, amicizia, fedeltà, lavoro, arte e così via. L’uomo venuto da fuori agisce come una variabile destabilizzante nel contesto statico del mondo di Astilot, e con l’aiuto di altri ribelli, a differenza di lui, tuttavia, geneticamente impotenti a organizzare una vera rivolta, scopre che dietro gli umani agisce come vera tessitrice di trame una stirpe di alieni che sfrutta gli umani come servi e concede loro le briciole della propria sapienza. Il protagonista stesso è solo una pedina, destinata a sconvolgere l’equilibrio di Astilot con le proprie azioni imprevedibili. Cosa che alla fine avverrà: l’utopia basata solo sul soddisfacimento di bisogni materiali crollerà e sarà ripristinato un ordine umano nel senso più pieno.

Parallelamente – e stringendo occasionali alleanze con le ultime tendenze del modello avventuroso-spaziale – continua a prosperare un filone che in entrambe le Germanie contava su una ricca tradizione (basti citare il nome di Erich von Däniken) e ben si rapportava ai gusti del pubblico: quello della fantascienza archeologica. Nel dittico di Wolf Weitbrecht, ad esempio, Das Orakel der Delphine (“L’oracolo dei delfini”, 1972) e Stunde der Ceres (“Ora di Ceres”, 1975), le conoscenze scientifiche più avanzate sono sfruttate allo scopo di decifrare un messaggio contenuto nel cervello dei delfini, un messaggio in scrittura cuneiforme sumera, secondo il quale gli esseri delle fiabe e delle leggende non sono altro che il ricordo deformato di antichi visitatori extraterrestri. Più forte è il segno della tradizione nei racconti di Sternenspur im Ozean (“Traccia di stelle nell’oceano”, 1972) di Karl-Georg Knobloch o nel romanzo Das Raumschiff aus der Steinzeit (“La nave spaziale dell’età della pietra”, 1978) di Rainer Fuhrmann: quest’ultimo mette in scena la scoperta di un’astronave antica 250.000 anni nel sottosuolo neozelandese e la conseguente spedizione terrestre per visitare il pianeta dal quale l’astronave proviene; il romanzo diviene così una storia piuttosto convenzionale di avventura ed esplorazione, e si chiude oltretutto su una soluzione scontata: sulle piste wellsiane, si viene a scoprire che gli alieni sono stati sterminati, al momento del loro sbarco sul nostro pianeta, dai microorganismi terrestri.

Mentre il filone principale della fantascienza tedesco orientale continua a presentare motivi che collegano riflessioni socio-politiche a spunti d’innovazione scientifica, cominciano a venir rielaborati motivi tratti dalla letteratura classica e persino da quella “borghese”, se non proprio da quella fantascientifica di stampo occidentale che, a differenza da quanto avveniva nell’URSS, era poco diffusa e pochissimo tradotta. Si hanno così dei riflessi ritardati e un poco distorti di fenomeni che in Occidente hanno già fatto il loro corso: ad esempio nei già citati Die Ohnmacht der Allmächtigen di Rank o in Mutanten auf Andromeda di Frühauf, con l’accento che si sposta dai ritrovati tecnologici alle relazioni umane e sociali, riecheggia la fantascienza americana di due decadi precedenti. Un altro romanzo di Karl-Heinz Tuschel, ad esempio, Der purpurne Planet (“Il pianeta purpureo”, 1971), rielabora in senso fantascientifico il motivo robinsoniano[3] (i pionieri di un avamposto su un lontano pianeta creano, grazie alla propria adattabilità e iniziativa, le condizioni affinché‚ l’intero pianeta sia reso abitabile per gli esseri umani), il cui tratto dominante è quello avventuroso, ma che ben si presta a dischiudersi a contenuti “politici” che fanno perno sull’esaltazione della creatività e produttività umane, sull’affermazione del progresso e della civiltà, della razionalità sulla barbarie, come in Die Kristallwelt der Robina Crux (“Il mondo di cristallo di Robina Crux”, 1971) di Alexander Kröger (pseudonimo di Helmut Routschek, uno degli autori più fecondi degli anni settanta), in cui la Robina del titolo è una Robinson-astronauta costretta a un atterraggio di fortuna su un pianeta ostile, la cui natura ella riesce a domare grazie anche all’ausilio di strumentazioni aliene abbandonate che rimette in funzione con il suo ingegno indomabile.

Sempre derivati dalla tradizione fantastica della letteratura “borghese” sono opere come il racconto Die Experimente des Professors von Pulex (“Gli esperimenti del professor von Pulex”, 1975) di Herbert Ziergebel, in cui sono gli orrori del nazismo a ritornare in uno scenario dell’immediato dopoguerra, deformati sotto una lente orrorifica che in realtà ne mette a nudo le autentiche valenze, o il romanzo di Rainer Fuhrmann Homo Sapiens 10-2 (1977), che ricalca da vicino celebri modelli di esperimenti condotti da scienziati folli sugli esseri umani (qui il rimpicciolimento degli organismi viventi a dimensioni minuscole[4]), e si differenzia soltanto per le caratteristiche dei protagonisti: in questo caso Robert Langard docente di chimica presso la scuola superiore di polizia dell’Europa socialista, a Praga, contrapposto al sinistro genetista americano Britannus.

Anche il romanzo Homunkuli (“Homunculi”, 1978) di Peter Lorenz riprende un motivo caro alla fantascienza occidentale, quello della creazione di individui artificiali, sottoposto questa volta a un dettato ideologico che lo deforma rispetto al modello: gli “homunculi” del titolo sono infatti creati dall’esercito statunitense, all’indomani di una disastrosa terza guerra mondiale, al fine di preservare il mondo dalla minaccia comunista, ma prima che la loro missione possa compiersi le creature acquisiscono una coscienza di classe, si strutturano in una loro organizzazione segreta e liberano infine se stessi dallo sfruttamento dei loro costruttori e il mondo dalla loro minaccia.

Al filone avventuroso-spaziale, intanto, si affianca sempre più quello avventuroso-futuristico che, prescindendo da fini più propriamente letterari, proietta nel futuro i conflitti del presente, sviluppando in forma romanzata la contrapposizione di società socialista e capitalista. In Wer stiehlt schon Unterschenkel? (“Chi è che ruba gambe?”, 1977) di Gert Prokop il detective nano Timothy Truckle sventa, con l’aiuto del suo computer Napoleon, una serie di tentativi criminosi nel mondo del capitale americano; negli episodi finali si scopre che Tim è agente di un’organizzazione segreta che, collegata al resto del mondo socialista, tenta di organizzare un’azione di resistenza negli USA, ostacolata dai servizi segreti americani dipinti come feroci e disumani (del resto, Philip Dick faceva lo stesso negli stessi anni). Die Straße durch den Urwald (“La strada nella foresta vergine”, 1973) di Wolf D. Brennecke (un autore popolare qui alla sua unica escursione nel fantastico) invece presenta – con ben poca lungimiranza rispetto alle tematiche ecologiste che emergeranno di lì a pochi anni – il progetto di un’autostrada automatica attraverso la foresta amazzonica di un Brasile da poco divenuto uno stato socialista; l’impresa, condotta sotto la guida di un ingegnere della DDR, viene sabotata dalle forze reazionarie che tuttavia non avranno la meglio, in un libro che mescola proiezione tecnologica e sociale, esotismo, spionaggio e avventura.

Simile nell’impianto avventuroso sovrimposto a uno sfondo esplorativo è il romanzo di Alexander Kröger Antarktis 2020 (“Antartide 2020”, 1973), in cui, sullo sfondo di un mondo pacifico e interamente unificato nel segno del comunismo, un giovane tecnico, capace ma ancora immaturo dal punto di vista umano e politico, affronta una dura gavetta per uscire infine fortificato da una lunga serie di peripezie, dapprima presso gli insediamenti umani al Polo Sud, quindi in quelli nel deserto del Sahara, dove è in corso un progetto di irrigazione. Un’opera in cui si mescolano le componenti tecnologico-avventurose a quelle fantastico-speculative è Zeitsprung ins Ungewisse (“Balzo temporale nell’ignoto”, 1975) di Fred Hubert, in cui dei giovani scienziati s’imbattono in un manufatto sconosciuto che si rivela essere una macchina del tempo proveniente dal futuro; sebbene ostacolati dai biechi servizi segreti americani, i protagonisti riescono a raggiungere l’anno 2860, dove li attende un mondo di meraviglie. I viaggi nel tempo sono anche al centro di un’opera del veterano Carlos Rasch (autore, oltre che di diversi romanzi e racconti, di efficaci tentativi di “lirica fantascientifica”), Magma im Himmel (“Magma nel cielo”, 1975) in cui si riannodano motivi e anche personaggi dei suoi libri precedenti: qui il viaggio è intrapreso, con l’aiuto della tecnologia dei benevoli eridaniani (già apparsi in Der blaue Planet, 1963), per prelevare dal “presente” uno dei protagonisti di Im Schatten der Tiefsee (1965), affinché‚ nel futuro in cui l’azione si svolge sia scongiurata la catastrofe minacciata dai depositi di armi atomiche sepolte a suo tempo dagli americani sotto il mare.

Un ultimo gruppo, cospicuo per numero e spesso notevole per qualità, si segnala nel panorama tedesco orientale degli anni Settanta, ed è quello delle opere che si situano in diversa misura sulla linea della speculazione utopica (o antiutopica), all’interno della quale, e questa è una novità, vengono integrate situazioni (come il viaggio spaziale o il primo contatto con forme di vita aliene) che erano state finora pertinenti al filone avventuroso. Carattere distintivo, in questo gruppo di opere, è lo sguardo che tenta di dissociarsi dalla contingenza e, coerentemente con la specificità del genere speculativo cui esse appartengono, si orienta verso il futuro, tenta di prefigurarlo o di auspicarlo. In particolare, si cristallizza una tendenza che sempre più pone dubbi sul valore “progressivo” della tecnologia e del suo uso indiscriminato, come nel racconto di Frank Töppe, Die letzten Bilder des Grafikers Schneider (“Le ultime opere del grafico Schneider”, 1976), in cui i ritrovati dei terrestri, messi in buona fede a disposizione della civiltà di una lontana stella che vive un’esistenza idilliaca, la condannano alla disarmonia e alla distruzione, oppure come nel primo romanzo di una coppia che diverrà famosissima, uguagliando in successo il tedesco occidentale Herbert W. Franke, quella formata da Günter e Johanna Braun, che esordirono appunto nel 1972 con Der Irrtum des Großen Zauberers (“L’errore del Grande Mago”): si tratta di un’opera in cui la scienza, incanalata in produzione compulsiva, rende schiavi gli esseri umani del paese di Plikato, un regno di fantasia che langue sotto il giogo di un despota, il cui ideale supremo è quello di sostituire tutti gli esseri viventi con delle macchine; il protagonista Oliver Input, tuttavia, sviluppa a poco a poco una coscienza etica in base alla quale sarà spinto verso un’opposizione che deve necessariamente reggersi sul pensiero autonomo e non omologato.

Motivi simili – l’esasperazione per una scienza andata troppo oltre, l’attenzione alla condizione umana, il prevalere di tratti grotteschi, un atteggiamento di fondo che ha portato a coniare per le loro opere la definizione di “Anti-Science-Fiction”[5] – si ritrovano in numerosi racconti (ad esempio in Der Fehlfaktor, “Il fattore sbagliato”, 1975) e nel romanzo successivo dei Braun (che negli anni Settanta, nel 1978 per l’esattezza, saranno autori di un terzo romanzo utopico, Conviva Ludibundus, in cui predominano gli elementi fiabeschi), Unheimliche Erscheinungsformen auf Omega XI (“Inquietanti apparizioni su Omega IX”, 1974), in cui i due terrestri inviati a investigare sul pianeta del titolo scoprono che gli sconvolgenti fenomeni che ne stanno turbando la vita sono dovuti agli eccessi di un’economia basata sulla produzione sconsiderata e senza controllo, che costituisce una minaccia micidiale per l’ambiente e la natura e dalla quale viene generato, come un mostro dell’inconscio, un surplus di materiale che assedia la popolazione esausta e indifesa.

Con Günter e Johanna Braun la fantascienza della DDR entrerà negli anni ottanta. Intanto, comunque, sempre più spazio si conquista un genere praticamente neonato, quello della parodia. Quasi un maestro in questo campo è stato Gerhard Branster, laureato nel 1963 con una tesi sull’Umorismo e il suo ruolo nella letteratura (uscito come volume nel 1980 con il titolo Arte dell’umorismo – umorismo dell’arte) e autore come si è visto, già a partire dagli anni sessanta, di numerosi racconti e romanzi imperniati sul ribaltamento dei luoghi comuni del genere fantascientifico, in cui la convenzione si fa strumento pungente di riflessione sulla realtà, ma anche sul genere stesso, come nella raccolta Vom Himmel hoch oder Kosmisches Allzukosmisches (“Dall’alto dei cieli ovvero cosmico troppo cosmico”, 1974) o nel romanzo Der Sternenkavalier (“Il cavaliere delle stelle”, 1976), in cui due personaggi dagli emblematici nomi di Eto Schik e As Nap (letti a rovescio: [Don] Chisciotte e [Sancio] Panza) vagano – prima di Douglas Adams e più o meno in contemporanea con Venus on the Half-Shell di Farmer/Kilgore Trout – in un cosmo che sta per essere smantellato e quindi ricostruito in nome di superiori principi estetici, incontrando strani esseri e discettando di filosofia.

La strada di Branstner è ripercorsa da autori più giovani, con uno sguardo che non muove dall’esterno della fantascienza verso il suo interno, ma che è cresciuto con il genere stesso e lo usa ormai come uno strumento naturale. È il caso ad esempio del romanzo di Reinhard Heinrich e Erik Simon, Die ersten Zeitreisen (“I primi viaggi nel tempo”, 1977), in cui, sotto la forma di un serio trattato scientifico e in uno stile che risente non poco dell’influsso di Stanislaw Lem, il motivo del paradosso temporale è condotto ai suoi esiti più grotteschi, e temi usati e abusati da certa fantascienza archeologica, come il mito di Atlantide o la terrazza di Baalbek, vengono impietosamente sbeffeggiati. Il viaggio spaziale è invece al centro della parodia di Gottfried Herold Die Hunkus schrein am Raklohami. Tagebuch eines Weltraumabenteuers (“Gli Hunkus gridano sul Raklohami. Diario di un’avventura spaziale”, 1978): un comandante di astronave dai nervi d’acciaio (ripresa di tanta letteratura pulp), una medico di bordo affamata di sesso e un giornalista che è più affamato di lei (rovesciamento della castità forzata di tanta fantascienza) costituiscono l’equipaggio dell’astronave “Phänomen” diretta verso il pianeta Schluranka, dove faranno un pieno di avventure pazzesche che non strizzano l’occhio soltanto alla banalità di certe reiterate situazioni della SF occidentale, ma riprendono e stravolgono anche molti cliché‚ maturati nei paesi socialisti (quello, ad esempio, del bieco spione americano che più bieco non si può).

E così, se anche rispetto ad altri paesi del blocco dell’Est l’offerta fantascientifica in DDR resta ancora ridotta (scarse e largamente incomplete sono, come si è visto, le proposte di opere tradotte dai paesi occidentali, quasi nulla la penetrazione di testi originali), la crescente popolarità del genere e il suo inserimento nel panorama letterario del paese sono dimostrati da un sottofilone che, in generale, emerge quando il suo referente è un bersaglio chiaro e visibile: quale miglior attestato di esistenza e di buona salute?

Alessandro Fambrini

[1]Derivo questi dati da Horst Heidtmann, Utopisch-phantastische Literatur in der DDR, München 1982, p. 78.

[2]Steinberg, nato nel 1913, era già attivo sulla scena letteraria fin dagli anni cinquanta, quando erano usciti i suoi primi romanzi, in gran parte memorialistici, sulla Germania nazista e postbellica.

[3]Come già molta fantascienza occidentale: si pensi a I robinson del cosmo di Francis Carsac o a Prigioniero del silenzio di Rex Gordon.

[4]Horst Heidmann (in Utopisch-phantastische Literatur in der DDR, cit., p. 84) accusa il romanzo di non essere altro che un plagio malriuscito del film Doctor Cyclops.

[5]Erik Simon, Olaf Spitteler, Die Science-fiction der DDR. Autoren und Werke: Ein Lexikon, Berlin 1988, p. 114.

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