Christa Wolf, La città degli angeli (II)

Christa-Wolf-Stadt-der-Engel[Ancora dal n. 65-66 di Allegoria. M.S.]

Michele Sisto

Poco, mi serve.
Una crosta di pane,
un ditale di latte,
e questo cielo
e queste nuvole.
Velimir Chlebnikov

Nonostante sia stato generalmente letto in chiave autobiografica, credo che La città degli angeli risulti meglio comprensibile se lo si considera un’opera di finzione a tutti gli effetti. L’avvertenza con cui si apre l’edizione tedesca (ma non quella italiana) non è di circostanza: «Tutti i personaggi di questo libro, a eccezione delle personalità storiche citate per nome, sono invenzioni della narratrice. Nessuno è identico a una persona vivente o morta. Tantomeno gli episodi descritti corrispondono a eventi realmente accaduti». Aggiungerei: tantomeno l’io narrante e l’io narrato, il personaggio Christa Wolf (di cui peraltro nel testo non compare mai il nome), sono identici alla scrittrice Christa Wolf. Piuttosto, ci troviamo di fronte, credo, a un personaggio “tipico” nel senso di Lukács, e in quanto tale rappresentativo («Mi chiamo Christa Wolf, come tutti», verrebbe da parafrasare). Interpretando il testo in questo modo, è più facile opporre resistenza all’illusione di realtà che esso genera, interrogarsi su com’è “costruito” e sulla scelta degli episodi narrati, del loro posizionamento e della modalità narrativa. Di più: sarei incline a leggere il libro come un romanzo tout court, sia nel senso dialettico di Lukács, vale a dire un’epopea che aspira a rappresentare la «totalità degli oggetti» di un determinato momento di sviluppo della società, sia in quello dialogico di Bachtin, per cui la pluralità dei punti di vista sociali sul mondo trova espressione nella pluridiscorsività, e la costruzione del personaggio avviene «in una zona di massimo contatto col presente (l’età contemporanea) nella sua incompiutezza». Continua a leggere in pdf

[Nella sua prima versione l’articolo si apriva con un preambolo che un po’ troppo concedeva al toujours haïssable Moi, e per questo non appare nella versione a stampa. Forse però non è inutile riproporlo qui, dal momento che in esso provavo a situare il romanzo non solo all’interno di un mio percorso personale, ma anche sull’orizzonte della letteratura contemporanea.

Forse l’unico modo di iniziare a scrivere di questo romanzo «inabbracciabile» è adottare il modo di Christa Wolf: chiedermi che cosa mi rende difficile farlo. Il forte coinvolgimento personale, in primo luogo: sono convinto che La città degli angeli sia un libro fondamentale in questo «tempo di gestazione e di transizione verso una nuova epoca» (l’espressione di Hegel non mi sembra inadeguata). Ma, ancor prima di questo, La città degli angeli è stato e continua a essere un libro importante per me. Leggendolo ho capito e continuo a capire alcune cose fondamentali sulla storia e sulla letteratura, ma anche sulla vita e su me stesso. Molte delle domande e delle persuasioni che mi hanno accompagnato negli ultimi anni sembrano trovarvi un punto di coagulo. Mi è tuttora difficile, dopo svariati mesi di letture e riletture, acquisire la distanza necessaria a oggettivare l’impressione soggettiva in un discorso critico. La sensazione che ho, di trovarmi di fronte a un classico del presente, più necessario di Franzen, Houllebecq, D. F. Wallace o Bolaño, potrebbe essere falsa. Forse è un buon libro, nulla di più. Ma il motivo principale della mia difficoltà è ancora un altro: se davvero ho intuito che cosa Christa Wolf si è proposta di fare con La città degli angeli, la sua ambizione e le sue acquisizioni sono tali che una loro adeguata comprensione potrebbe avere luogo soltanto in un auspicabile futuro, dall’interno di un orizzonte storico e discorsivo trasformato. Le pagine che seguono non sono altro che un tentativo di giustificare questa sensazione e di fissare alcuni appunti – stenografici, e dunque inevitabilmente apodittici – per ulteriori letture. (Berlino, 7 febbraio 2013)]

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