Jenny Erpenbeck, Di passaggio

Anna Chiarloni

A oltre vent’anni dalla riunificazione continua ad emergere nella narrativa tedesca un tratto dominante: il confronto col passato. Per la terza generazione la ricerca passa attraverso gli archivi familiari: carte, lettere, fotografie vengono riesumate nel tentativo di ricomporre una (sofferta) identità nazionale. Quanto a memorie domestiche Jenny Erpenbeck, nata nel 1967, sa dove mettere le mani.

Il padre, John Erpenbeck, fisico di fama internazionale, è nato in Russia da  Hedda Zinner, scrittrice comunista emigrata a Mosca  durante il nazismo  e rientrata nella Ddr dopo la guerra. La madre Doris, ha vissuto bambina la fuga dalla regione dei Masuri – sarà  poi docente di letterature arabe alla Humboldt di Berlino Est. La stessa biografia della giovane scrittrice  è piuttosto movimentata: da guardarobiera a cercarobe e assistente teatrale fino a regista di opere musicali messe in scena sia in Germania che in Austria. L’esordio narrativo risale al 1999 con il pluripremiato racconto Geschichte eines alten Kindes. Tradotto in varie lingue, Di passaggio è il suo quarto testo.

Al centro del romanzo c’è una proprietà nel Brandeburgo orientale, ai confini con la Polonia, sullo sfondo di un paesaggio lacustre. Suddivisa in quattro  lotti diventa il cronotopo in cui scorre la storia tedesca dagli anni Trenta al presente.

Nello spazio e nel tempo  vibra il sentimento di fondo del titolo originale: Heimsuchung, ossia ricerca di dimora che è poi, lo sappiamo, nostalgia dell’infanzia, di un paesaggio, di un’appartenenza – anche nazionale. Case destinate ad essere “di passaggio”, sentimenti  che la storia tedesca ha compromesso ed è significativo che ancora oggi si ritorni a indagarne le ragioni.

Lo spazio agreste si fa linguaggio attraverso la figura del “giardiniere”, un essere innocente che ha il sapere della terra, abbarbicato “da sempre” alla sua Heimat di argilla azzurra, testimone nell’arco dei decenni di una devozione alla natura. E’ l’unico personaggio ricorrente in una partitura di 24 capitoletti intitolati a persone diverse, senza nome ma abilmente individuate nel tessuto di reciproche relazioni.

Nei primi anni Trenta il capanno sul lago è villeggiatura di una colta borghesia ebraica, ben insediata in società con la sua manifattura tessile. Frammenti di conversazione inglese alludono ad un legame con Città del capo, è il tempo intatto prima della “cacciata dal paradiso”. Ma già si medita una fuga in Brasile, mentre risuona sinistro il saluto nazista del vicino, l’architetto che collabora con Albert Speer al Germania Projekt. Sarà costui ad accaparrarsi a mezzo prezzo il terreno degli ebrei con la grigia naturalezza di chi pensa che in fondo ha solo aiutato le vittime a “finanziarsi l’espatrio”. Inserito dopo la guerra nel faticoso processo di costruzione della Ddr, costui passerà presto a ovest in cerca di una “terza pelle”.

La scrittura di Erpenbeck, ben resa nell’eccellente traduzione, è indiziaria, densa di analessi e prolessi che a una prima lettura possono disorientare il lettore. Ma si tratta di un procedimento dettato da una continua contrattazione col passato, alla ricerca di quelle esistenze strette nell’ombra di una dimora oggi scomparsa, di uno spazio tra Germania e Polonia in cui si stratificano le disposizioni legislative di esproprio e restituzione che hanno segnato quel pezzo di mondo tra nazismo e socialismo reale.

Sfilano negli anni hitleriani prigionieri polacchi ai lavori forzati, professionisti ebrei relegati nei cantieri autostradali, famiglie sterminate, figure di cenere come la piccola Doris, ingoiata nella fossa della storia. Poi l’arrivo dell’Armata Rossa a cavallo – un racconto che racchiude il  condensato di un  affresco storico: la fame dei russi stracciati, soldati contadini catapultati dalla guerra negli avanzi del benessere tedesco che si chiedono perché mai i nazi “non  siano rimasti lì dove, davvero, non mancava loro nulla”. Pagine di polso in cui campeggia il giovanissimo maggiore sovietico che s’introduce la notte tra sete e pellicce in un pertugio segreto, fino a possedere nel buio – e esserne posseduto – un corpo di donna tra bestemmie e carezze, ripulse e abbandoni  “nel fondo di un armadio tedesco”.

Il tempo di pace è quello del ritorno. S’intuiscono ricordi familiari di Erpenbeck nell’anziana coppia di scrittori che rientrano da Mosca. C’è in loro lo spaesamento di chi in esilio ha “imparato il silenzio per conservare un sogno” ma che ora nella Ddr vede avanzare un’arrogante nomenklatura, pronta a  favorire i raccomandati  di turno. La narrazione si frammenta in un precipitato di storie minori fino al declino della casa e  all’arrivo dell’agente immobiliare, segnacolo di una Germania riunificata in cerca di nuove speculazioni.  Sommersa dal flusso di norme giuridiche, vano argine alle contraddizioni della storia, è la figura femminile che ancora veglia nella casa in declino in attesa di demolizione. In forma di protesi narrativa, il corsivo dell’Epilogo, col suo secco linguaggio tecnico, già aziona le ruspe rimuovendo le mura dalle fondamenta. Ma sulle macerie resta sospesa una questione irrisolta, quella di un risarcimento alle vittime della Storia.

Anna Chiarloni

Jenny Erpenbeck, Di passaggio, ed. orig. 2008, trad. dal ted. di Ada Vigliani, Zandonai, Rovereto 2011, pp.157.

da: L’Indice dei libri del mese, 2012, n. 2.

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