Gelobtes Land: Lutz Seiler

Matteo Galli

Due raccolte e mezzo in quindici anni, una produzione saggistica discreta, laconica e occasionale, il tardivo approdo alla letteratura, la scelta di vivere alla periferia della capitale (a Wilhelmshorst, nella casa dove per anni aveva abitato Peter Huchel), niente di più antipodico rispetto a Grünbein, con cui ha in comune forse soltanto l’editore – eppure Lutz Seiler, nato a Culmitzsch nei pressi di Gera, in Turingia, nel 1963, sta, soprattutto negli ultimi anni, non soltanto imponendosi come una delle voci più solide e originali della poesia della post-DDR, ma lentamente cimentandosi, con qualità e successo, anche nella narrativa breve, come dimostrano l’originalissimo Turksib, il testo che nel 2007 ha vinto il Premio Bachmann, e la sua prima, notevole, raccolta di racconti, intitolata Die Zeitwaage (La bilancia del tempo, 2009).

Se in Grünbein si era assistito ad un progressivo processo di de-territorializzazione e di emancipazione dal cronotopo DDR, anche funzionale al ruolo assegnatogli dall’industria culturale, Seiler mantiene invece una immutata fedeltà al paesaggio storico, iconico e simbolico dal quale proviene, ciò che rende la sua poesia aspra, stratificata, priva di ancoraggi e consolazioni mitologiche, e alla fine assai meno prevedibile di quella del più noto collega. Una fedeltà che ha ben poco a vedere, per esempio, col nobile e pronunciato provincialismo di Thomas Rosenlöcher, la cui produzione lirica, negli ultimi anni, ha preso una chiara piega idilico-escapistica. Nel caso di Seiler, fin dalla prima raccolta (in realtà la seconda: la prima aveva avuto una circolazione poco più che clandestina) risalente al 2000, la radicazione nel territorio è aliena da qualsivoglia vezzo nostalgico e localistico bensì condizione imprescindibile per compiere una ricognizione storica sulle macerie e sulle scorie del recente passato.

Macerie e scorie: già il titolo, intraducibile in italiano, pech & blende – “Pech”, nel senso di “pece” ma anche di “sfortuna”, “Blende” che sta per “blenda” ma anche per “diaframma” e per “finestra cieca” oltre ad evocare l’idea di “Blendung”, abbaglio – allude prima di ogni altra cosa alla “pechblenda”, il minerale radioattivo ad alto contenuto di uranio che, dal 1946 al 1990, venne estratto per conto della società per azioni Wismut (a capitale misto tedesco-orientale e sovietico), la terza azienda produttrice di uranio al mondo. È da questa zona – oggi discarica radioattiva a cielo aperto – che proviene Seiler, e la cittadina dov’è nato, dal 1968 non esiste più, smantellata per lasciare spazio alle miniere. È questo il paesaggio della sua infanzia, è da qui che trae non solo immagini, ricordi, odori, sapori, «assiomi pre-poetologici» li ha chiamati l’autore, una Heimat che condiziona agogica e sintassi, un «modo di incedere, anche nel verso […] verso le sostanze grezze, i metalli, le ossa della terra». Già presente nella poesia di Wolfgang Hilbig, questo paesaggio spettrale interagisce e confligge qui con il campionario oggettuale, botanico e floreale, tipico della Naturlyrik (di recente Seiler ha tributato un omaggio a uno dei maestri del genere – e di Peter Huchel – Oskar Loerke), con il lessico famigliare e con brandelli di lessico DDR – tutte scorie che danno vita a composizioni laconiche e, solo ad una prima lettura, ermetiche.

Caratteristiche, queste, tutte confermate e portate a perfezione dalla seconda (terza) raccolta di Seiler, intitolata vierzig kilometer nacht (quaranta chilometri di notte), uscita nel 2003 e che è valsa allo scrittore una quantità impressionante di lodi e riconoscimenti; il titolo allude all’attraversamento spaziale della distanza che separa Wilhelmshorst da Berlino, ma al contempo a quello temporale dei quarant’anni di DDR, il «gelobtes land» che dà il titolo al primo ciclo del volume, che si apre con due poesie dove ritorna martellante il ricordo della formula «ich gelobe» («lo giuro»), pronunciato durante la Jugendweihe e all’inizio del servizio militare nella NVA, e si conclude con la poesia eponima:

auf augenhöhe hatte man
die böschung frisch bepflanzt.
du hattest deinen patenbusch.
da war auch noch
ein eisenpilz & ein
geschweisster elefant.
& du tief nachts mit
ohne mund
gepresst an eine wand

ad altezza occhi avevano
appena piantato la scarpata,
avevi il tuo cespuglio eletto
e c’era anche
un fungo di ferro & un
elefante saldato.
& tu nel profondo della notte con
senza bocca
premuta a una parete

Matteo Galli

da: 1989-2009: Cronache di Atlantide, in L’invenzione del futuro. Breve storia letteraria della DDR dal dopoguerra a oggi, a cura di Michele Sisto, Milano, Libri Scheiwiller, 2009, pp. 308-310

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