Heiner Müller, “Guerra senza battaglia”

Daniela Nelva

L’edizione italiana dell’autobiografia-intervista di Heiner Müller  è un evento significativo per diversi motivi. Innanzitutto perché contribuisce alla ricezione, nel nostro paese, di uno dei maggiori scrittori di teatro del secondo Novecento, erede e innovatore della drammaturgia brechtiana, nonché poeta. In secondo luogo, il testo di Müller è uno degli esempi più interessanti di quella scrittura dell’io praticata dopo il 1989 da molti autori provenienti dalla Repubblica democratica tedesca con l’intento di sondare la propria vicenda intellettuale, inscrivendola nell’orizzonte della naufragata utopia socialista. Queste le principali ragioni di lode per l’impresa editoriale di Zandonai, sorretta dalla vigile traduzione di Valentina Di Rosa, a cui si deve tra l’altro un’acuta introduzione.

(immagine di Harald Kretzschmar) Il percorso anamnestico di Müller, in parte orientato dalle domande della scrittrice Katja Lange-Müller e di tre altri intervistatori, in parte costruito sulle numerose divagazioni personali, muove da lontano, dai ricordi di un’infanzia – l’autore nasce in Sassonia nel 1929 – segnata dal nazismo, vivido nella memoria dell’arresto del padre, membro del Partito socialista dei lavoratori. Poi l’arruolamento negli ultimi mesi di guerra in una squadra operaia e la breve prigionia in un campo americano. «Non riesco a ricordare di aver avuto paura. È come essere sotto shock dopo un incidente» dichiara Müller a testimonianza della difficoltà di superare il cortocircuito del trauma, nonché di una certa resistenza alla narrazione di sé, di cui dice anche, nella sua struttura spezzata, l’epigrafe al testo: «Devo parlare di me Io di chi / si parla quando / si parla di me Io chi è costui».

Nell’immediato dopoguerra, nella zona d’occupazione sovietica, Müller lavora come impiegato presso l’ufficio preposto alla riforma agraria: da questa esperienza scaturisce nel 1961 la pièce La contadina sfollata, opera incentrata sul forzato processo di collettivizzazione delle campagne che varrà all’autore l’espulsione dall’Unione degli scrittori. Non è d’altronde un caso che Müller rimarchi più volte come molte sue opere siano nate da un materiale personale calato nel magma sociale del collettivo, secondo il principio di un’arte militante, partecipe in modo critico della costruzione di una società nuova. È questo anche il caso, tra gli altri, dell’opera Lo stakanovista, pièce che demistifica l’esaltazione della fabbrica altrimenti veicolata dal partito e smaschera le contraddizioni del socialismo reale. Trotzkismo, disfattismo, distorta rappresentazione del mondo operaio sono le accuse mosse dalle autorità a un autore che non si lascia addomesticare.

A modulare le pagine di Guerra senza Battaglia è un andamento drammatico, che stilizza la storia della Rdt in un serrato intreccio di forze contrastanti, in una costellazione di dinamiche politico-ideologiche. Ne deriva una rappresentazione viva, in cui accanto a una vasta galleria di figure si stagliano gli eventi chiave della storia del paese, dalla rivolta  operaia nel giugno 1953 alla costruzione del Muro, dal “caso Biermann” agli eventi del 1989, con cui il testo si chiude. Ma è anche una Rdt “dietro le quinte” quella che ci restituisce il racconto di Müller, laddove a essere radiografate sono le kafkiane strategie della cultura ufficiale e della censura – di cui l’autore è stato pesantemente vittima – non di rado modulate sulle scaramucce tra funzionari. Il tutto nutrito dall’accattivante inclinazione di Müller per l’aneddotica caustica e la provocazione ironica, scandite da uno stile ruvido, che la traduttrice giustamente mantiene anche nella resa italiana.

Guerra senza battaglia è la storia di una disillusione ideologica, come Müller ben evidenzia ripercorrendo i temi che caratterizzano la sua produzione a partire dalla metà degli anni Sessanta. Dalla consapevolezza del fallimento del socialismo scaturisce la necessità di guardare indietro e oltre i confini della Rdt, scandagliando i meccanismi del processo storico e i dispositivi dell’azione umana. L’interesse di Müller si rivolge allora alle radici della miseria tedesca, complice di una storia segnata dal reiterarsi della catastrofe, ai meccanismi della violenza contemporanea, al rapporto tra il singolo e il potere, indagato non da ultimo attraverso il mito. Al centro di opere quali La battaglia, Germania morte a Berlino, Filottete, Mauser, La missione vi è la rappresentazione di una realtà in frammenti che non ammette risposte o soluzioni, in cui il principio dialettico brechtiano è inceppato. Si comprende allora l’interesse, ripercorso nell’autobiografia, per gli abbozzi raccolti da Brecht sotto la figura dell’egoista Fatzer, che Müller rielabora in una versione drammaturgica. Qui le problematiche, attualissime,  sono declinate nella forma di un teatro aperto, che consegna al pubblico i fardelli e le antinomie della vicenda umana. Ancora una volta l’arte si fa voce della ricerca e dell’esperimento, messaggio che scuote dalla rassegnazione esortando a un’incessante ricognizione del mondo, come ci ricorda Durs Grünbein nell’intensa memoria collocata a postfazione di Guerra senza battaglia.

Daniela Nelva

Heiner Müller, Guerra senza battaglia. Una vita sotto due dittature, ed. orig. 1992, trad. dal ted. Valentina Di Rosa, Rovereto, Zandonai, 2010, 370 p.

da: L’INDICE, maggio 2011

     

     

     

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