Passaggi di proprietà. Un caso goethiano

Anna Chiarloni

allo stesso modo che pietre lavorate e fregi
provenienti da fregi più antichi hanno potuto
essere impiegati come materiali da costruzione
o come elementi ornamentali in edifici posteriori.

I

DivanNelle Note e dissertazioni, redatte tra il 1816 e il 1819 per presentare al pubblico tedesco il Divan occidentale-orientale, Goethe si sofferma, con una sorta d’inciso rispetto al taglio prevalentemente informativo e storico della trattazione, sul carattere cifrato della poesia amorosa. L’argomento è introdotto dalla nota intitolata Scambio di fiori e di segni. Qui il poeta rammenta il significato simbolico dei fiori, offerti “in un mazzo come cifra segreta”, e annovera tra le qualità fondamentali della poesia orientale, la tendenza all’enigma. Il tono resta quello erudito dello studioso che indaga sulle forme della comunicazione e procede confrontando generi, corrispondenze e usanze di culture diverse; ecco quindi profilarsi possibili analogie tra l’indovinello orientale e la sciarada o il logogrifo, giochi linguistici in voga dal settecento nel bel mondo europeo, soprattutto francese. Si avverte tuttavia in queste pagine un’urgenza comunicativa diversa. Gran parte del Divan, si sa, raccoglie testi poetici nati dalla passione segreta del Goethe maturo per la giovane Marianne Willemer.

Stese negli anni successivi a quell’intensa esperienza, le Note e dissertazioni sembrano rivelare in questa sezione un itinerario sotterraneo, parallelo al dotto ragionare sulla poesia nella cultura d’oriente. Passiamo alla nota successiva. Anche qui il poeta torna, sempre col tono distaccato di chi conosce il mondo, sul linguaggio segreto degli amanti. Il titolo è, appunto, Cifra. Goethe richiama una convenzione erotica oggi in disuso, quella della citazione nascosta, ascrivendole un “senso estetico teneramente amoroso, che si uguaglia alla più alta poesia”. Ma di nuovo prima di giungere al “vero scopo” della nota, il poeta – quasi a mimetizzare una cifra interna alla nota stessa – fa delle considerazioni di carattere più ampio, vorrei dire universale, sottolineando come l’allusione a un testo costituisca un procedimento comunicativo che non può che attingere a una memoria, a un sapere comuni. Un richiamo che ha una doppia valenza, in quanto include anche l’esperienza di un’intima intesa sentimentale, sulla quale torneremo.

Nella parte introduttiva della nota, Goethe tiene tuttavia a mettere ancora in evidenza l’intesa tra i popoli della terra, a intravedere cioè nelle letterature storiche un profondo legame comune. D’altra parte, la stessa etimologia del titolo scelto non solo per la nota, ma anche per il Lied che la chiude – Chiffer, dall’arabo sifr – può essere letta come segno di congiunzione emblematica tra culture diverse. Si potrebbe quindi desumere che negli anni successivi al Divan il linguaggio della passione venga ricollocato in un orizzonte che trascende le singole peculiarità soggettive: un tratto peraltro coerente col sincretismo del tardo Goethe, che mirava a individuare nel vario agire umano delle analogie piuttosto che delle dissomiglianze. Tanto più che, pur argomentando d’amore, il poeta – con una forma plurale che accentua l’oggettività delle asserzioni – mette in primo piano corrispondenze tra culture lontane, tra oriente e occidente, come la lettura di testi sacri – il Corano e la Bibbia – con il relativo riflesso citazionale nella conversazione colta.

Tuttavia, venendo finalmente al cuore della nota, si osserva come lo stesso espediente adottato dal poeta nel 1815, l’anno della passione dirompente, per scambiare con Marianne messaggi cifrati, sia qui presentato come un colto gioco d’amore destinato a consolare fittizi amanti lontani. Goethe ripropone cioè ai suoi lettori, in forma anonima e mondana quel segreto dispositivo citazionale:

Ma per giungere ormai al nostro vero scopo, richiameremo una maniera, invero ben nota, ma pur sempre misteriosa, di comunicare per cifre: quando cioè due persone s’accordano su un libro e, collegando in una missiva i numeri di certe pagine e di certe righe, sono certi che il destinatario ne ricostruirà facilmente il senso.

Si osservi quella contrapposizione – “ben nota ma pur sempre misteriosa” che sembra ampliare le linee di destinazione della dissertazione.

Come la nota precedente, anche questa è corredata da un esempio, intitolato come s’è detto Chiffer. Goethe inserisce qui quattro strofe di sei versi dichiarandone la matrice originaria: gli ipotetici amanti si sarebbero infatti serviti delle poesie di Hafis come strumento per il loro scambio sentimentale.

Dir zu eröffnen
Mein Herz, verlangt mich;
Hört’ich von deinem,
Darnach verlangt mich;
Wie blickt so traurig
Die Welt mich an.
In meinen Sinne
Wohnet mein Freund nur,
Und sonsten keiner
Und keine Feindspur.
Wie Sonnenaufgang
Ward mir ein Vorsatz!
Mein Leben will ich
Nur zum Geschäfte
Von seiner Liebe
Von heut an machen.
Ich denke seiner,
Mir blutet’s Herz.
Kraft hab’ ich keine,
Als ihn zu lieben,
So recht im stillen.
Was soll das werden!
Will ihn umarmen
Und kann es nicht.

Nelle edizioni critiche recenti il testo è stato accolto a pieno titolo tra le poesie di Goethe. Sarebbe stata tuttavia impresa ardua per gli esegeti goethiani rintracciare con sicurezza i riferimenti – pur dichiarati – nell’opera di Hafis se dopo la morte del poeta non si fosse trovato, tra le carte di Goethe, un biglietto cifrato del 18 ottobre 1815. La calligrafia è quella di Marianne e la firma rimanda alla figura femminile cantata da Hafis: Suleika.

Facilmente decodificata , la missiva rivela una composizione poetica: è il testo – o dobbiamo chiamarla traccia? – utilizzata da Goethe. I versi sono effettivamente di Hafis, ripresi dalla traduzione allora disponibile di Joseph von Hammer, ma del tutto variati nella loro successione, come perle di una collana spezzata infilate in un ordine diverso.

II

È chiaro che siamo di fronte a una complessa fenomenologia della citazione. Come potremmo definire il testo goethiano, oggi che sulla parola d’altri disponiamo di raffinati strumenti della linguistica? Proviamo a verificare la definizione ripercorrendo le considerazioni di Bice Garavelli sul meccanismo citazionale. Piazzato com’è in appendice al Divan, un’opera notoriamente ispirata alla poesia persiana, non sbaglieremmo se ricorressimo in prima definizione alla categoria dell’intertestualità. Ma l’intenzione metacomunicativa di Goethe, quel suo ‘dico e non dico’ di un’esperienza realmente vissuta ci obbliga a parlare di un’ intertestualità espansiva, o addirittura duplice, dovuta non solo alla poesia di Hafis ma anche alla missiva cifrata di Marianne che ha fornito il materiale primario del testo in questione.

Difficile, forse impossibile, rintracciare in questo schema triangolare i confini discorsivi dei singoli soggetti – Hafis, Marianne e Goethe – che restano labili e sovrapposti, tanto che è opportuno chiedersi se, pur essendo in grado di coglierne la dialogicità interna, addirittura di certificarne filologicamente le fonti individuando i passaggi di proprietà, sia legittimo parlare di citazione e non invece di assimilazione, o addirittura di riuso. Ovvio, si dirà, visto che lo statuto del testo poetico, o più in generale dell’oggetto artistico, ha sue leggi proprie. Ma dove collocare i confini tra testo e matrice originaria, missiva e poesia, letteratura e esperienza?

Nel dubbio – e nel gioco dei riporti – m’inoltro con Bice nella tassonomia del meccanismo citazionale. Dalla sua analisi risulta sostanziale il prendere le distanze dall’oggetto di cui ci si appropria. Una distanza segnalata di solito dalle virgolette. Ora, nel nostro caso, la distanza è azzerata, nel senso che il testo goethiano coincide con la fonte, o meglio con pezzi tradotti da Hammer e variamente assemblati da Marianne, del testo di Hafis. Come dire – con Bice – che il meccanismo citazionale è parzialmente bloccato dall’integrazione dei frammenti alieni nel testo che lo riutilizza (lo ricicla) come materiale già elaborato e pronto per un riuso. Allo stesso modo che pietre lavorate e fregi provenienti da edifici più antichi sono stati tra-dotti, trasferiti e impiegati come materiali da costruzione in edifici posteriori.

L’immagine è illuminante, anche perché mette in evidenza come tre questioni restino nel nostro caso aperte, che potremmo definire della selezione dei materiali, dell’ordine architettonico e dello stile finale dell’edificio testuale. Vediamo più da vicino gli interventi attraverso i singoli passaggi di proprietà.

Con il suo biglietto d’amore Marianne aveva scelto una precisa sequenza citazionale, scompigliando la struttura originaria dei versi di Hafis che come si è detto risulta riordinata in un racconto autonomo:

Dir mein Herz zu eröfnen verlangt mich,
Und von deinem zu hören verlangt mich.
Traurig ist mein Herz über die Welt und was darinn ist,
Denn in meinem Sinn wohnet mein Freund und sonsten Keiner.
Wie der Glanz der Morgenkerze ist mir
Der Vorsatz klar geworden:
All mein Leben will ich nur zum Geschäft
Von seiner Liebe machen.
Immer dachte ich dein, und immer
Blutete tief das Herz.
Ich habe keine Kraft als die,
Im Stillen ihn zu lieben,
Wenn ich ihn nicht umarmen kann,
Was wird wohl aus mir werden?
Durch die Gespräche der Freunds
Ward ihm mein Herz so zugethan,
Dass ich die Anderen nun
Nicht hören und nicht sprechen mag.
Ich weiss, dass Niemand meinem Freund
An Treu und Anmuth gleich kommt,
Wer? wer bleibt mir treu, von eigener Milde beweget?
Alles was in meiner Brust
Ausser deinen Leiden liegt,
Alles, alles geht hinaus,
Dieses eine will nicht gehen.
Deine Liebe hat sich fest
In mein Innres eingenistet,
Und verlier ich auch den Kopf,
Wird die Liebe nicht ausgehen.
O Trennungsgluth
So viel hab ich von dir schon vernommen,
Dass Kerzen gleich
Mir nichts, als selbst zu vergehen, erübrigt.
Immer sehnt sich mein Herz nach deinen Lippen.

Il linguaggio intessuto da Marianne è esplicito: il cuore pretende la resa del corpo, anela all’amplesso. Paradossalmente, noto per inciso, è l’ anonimo gioco dei rimandi, è l’innocenza dei numeri che consente alla giovane donna l’accesso al linguaggio erotico: attraverso la grata cifrata Marianne simula un’assenza, svela il suo amore usando la parola d’altri. E fugge in un’altra biografia, in un altro alfabeto, firmando in lettere arabe, col nome della donna cantata da Hafis: Suleika. Se il bricolage col testo persiano rivela un intento ludico, un guizzo sbarazzino – “Du Schelm, Du” apostrofava Goethe in quegli anni la giovane moglie del banchiere Willemer – esso funge anche da maschera aggirando l’interdetto matrimoniale. E libera un suono di gola, un desiderio che organizza il nuovo testo declinando ad altri la responsabilità, ossia la la firma, dell’interrogazione d’amore.

Osserviamo ora l’architettura mimetica del testo goethiano.

Strutturati in quattro strofe di sei versi ritroviamo una selezione dei passaggi proposti da Marianne. Salvo alcune elisioni e la variazione finale su cui torneremo, la sequenza narrativa resta immutata, fedele alla prima parte (versi 1-14) del testo cifrato. Non si tratta tuttavia di una trascrizione, bensì di una stilizzazione lungo una curva melodica. Breve il verso, non rimato, quasi un “parlando”che assottiglia e riprende il mormorio originario. Goethe, pur modificando lo status dei materiali attraverso un diverso ritmo, non li codifica in uno schema metrico rigoroso. Li allinea piuttosto in un’inflessione sintattica elegante e spedita che rischiara la matrice sciogliendo i frammenti in un armonico andamento strofico.

Ma non è tanto la valutazione estetica che qui ci interessa, quanto l’intenzione metacomunicativa di Goethe.

Il testo, ripreso da quello di Marianne, si configura infatti come una risposta mimetica, un’eco che determina fin dall’ingresso vocale – quasi identico – un duetto. Nell’incipit una voce rincorre l’altra, la rinserra, la duplica variandola in una sorta di passo doppio, sostenuto dalla musicalità del verso adonio della prima strofa, che per sette volte risuona anche nelle strofe successive.

Se quel Dir iniziale, in forte scatto trocaico, teso verso l’amante come un invito alla danza è identico a quello di Marianne, in Goethe lo stesso pronome acquista il senso di una replica diversamente cifrata, e differita nel tempo, ri-volta all’amante lontana. La geheime Doppelschrift altrove evocata da Goethe acquista qui il sapore di un segreto contrappunto dialogico. Un testo evoca l’altro, fino al prius contestuale – Hafis – in un gioco reversibile di interferenze continue.

L’intenzione comunicativa, ossia il movimento di risposta, risulta chiaro se riletto nella sua cornice contestuale: i versi di Goethe, ricordiamolo, compaiono nella dotta appendice al Divan, pubblicato nella forma provvisoria di un Manuskript für Freunde, come ribadisce lo stesso autore nella nota successiva. Varie sono le linee di destinazione: gli amici, i poeti, i lettori. E nell’entourage dei lettori più vicini Goethe sapeva esserci anche Marianne. Il testo/messaggio rivela ora il suo doppio percorso: da Marianne – via Hafis – a Goethe; con replica diversamente cifrata, a “Suleika”, la sola in grado di riconoscersi nel codice originario ma anche d’individuarne le simmetrie, le varianti e i silenzi, ossia il messaggio segreto incastonato nella poesia di ritorno. Ecco che anche il “modo ben noto ma pur sempre misterioso” acquista il sapore di un ammiccamento. È Goethe – il locutore – che si rivolge a Marianne, sua segreta allocutaria. Infatti, se buona parte del Divan, in particolare il Buch der Liebe e il Buch Suleika, è la messa in scena di una passione in vesti persiane, la pubblicazione della raccolta nel suo insieme, corredata dall’appendice, diventa per Marianne uno spettacolo multiplo: solo lei vede dietro le quinte del testo, sa coglierne gli echi e le interferenze nascoste.

Torniamo al confronto tra i due testi. Si diceva della duplicazione goethiana di un disegno di danza. Non si può tuttavia ignorare che l’assunzione della voce di Marianne determina un’ambivalenza metonimica. Marcato al femminile il testo goethiano propone ora un nuovo gioco di codici . Chi parla in questo testo? I centri discorsivi si duplicano nel gesto d’intesa, nello sdoppiamento della marca di seconda persona – Dir, deinem – mentre dalla seconda strofa il sostantivo Freund rimanda inequivocabilmente a un’asse biologico, a una voce (femminile) che traccia la figura dell’amato. Si tratta di un Rollengedicht nella versione – frequente nella poesia tedesca – della Mädchenrolle? Troppo incandescente, troppo intimo ci pare il gesto lirico per poterlo ascrivere a un convenzionale, spesso normativo, scambio dei ruoli. D’altra parte, non si può escludere che come Marianne aveva usato la cifra quale alibi, il poeta si celi a sua volta dietro la maschera femminile per dire lo strazio della lontananza senza esporsi in prima persona. Ma è un’interpretazione riduttiva, che mira a sorprendere il poeta dietro la voce di Marianne, pur essendone lui titolare. Si ha invece la sensazione che il poeta riscrivendo il testo si metta in posizione d’ascolto identificandosi con quella voce. Certo è che l’enunciato migra da un punto di vista all’altro e la nostra lettura si afferma e procede attraverso una continua instabilità del punto di vista.

La geometria del doppio rivela così, accanto a una profonda intenzione affettiva, una pluralità di significati. Nelle prime tre strofe Goethe fa sua quella voce, se ne appropria con-fondendosi nel testo in una volontà di contaminazione reciproca. Si riconosce qui una consonanza altrove magistralmente descritta dall’autore: nelle Affinità elettive Ottilia s’innamora di Eduard fino a imitarne la calligrafia. È lo stesso impulso che spinge ora Goethe a questa sorta di danza mimetica?

Es ist mit den Geschäften wie mit dem Tanze: Personen, die gleichen Schritt halten, müssen sich unentbehrlich werden, ein wechselseitiges Wohlwollen muß notwendig daraus entspringen,

si legge nel romanzo. Ora, attraverso la corrispondenza segreta, la fusione si verifica nella sintonia dei segni. E tuttavia si nota una discordanza. In questa sorta di trasfusione goethiana, infatti, la voce femminile viene progressivamente plasmata e alcuni frammenti cadono fuori dal reticolo poetico. Il procedimento si annuncia fin dalla seconda strofa con la sostituzione – attraverso il Sonnenaufgang – di un’immagine ricorrente nel dialogo segreto del 1815, quella più intima e languida della candela, che nel biglietto di Marianne ardeva nella versione da camera di Morgenkerze. Ma il processo di elisione e di spostamento riguarda soprattutto la seconda parte del testo di Marianne. Cade l’ampio blocco di versi a partire dal quindicesimo. Non si tratta solo dell’elogio, invero assai di maniera, dell’amato. Scompare anche la resa del corpo femminile, il suo dichiararsi nido e dimora di un’amore che travolge ogni ragione. Dalla quarta strofa Goethe si avvia verso una nuova base armonica, posando gli accenti su onde diverse. Alla sensualità di Marianne si sostituisce il dettato di un silenzioso struggimento. Attraverso lo spostamento dei versi 13-14 in posizione finale l’architettura goethiana converge verso un altro punto di fuga, verso una migrazione di senso che modifica la tonalità di fondo. Il verso pentasillabo dell’ultima strofa si fa ora tutore dell’incandescente materiale profferto dalla giovane donna spegnendone la tensione erotica. Dal diesis a un doppio bemolle, si potrebbe dire. Ovvero dai timpani orientali alla sordina tedesca. “Quando la cosa si faceva seria il romanzo finiva con la rinuncia”, osserva ironico Thomas Mann nella sua diagnosi degli amori goethiani, inquadrando poi “l’ethos del diniego” in una “vocazione nazionale”. Ma qui è piuttosto il dato biografico, con la sua ragion pratica, ad avere una sua rilevanza. Ripercorriamo la cronologia degli eventi.

Goethe incontra Marianne, terza moglie dell’attempato banchiere Willemer, nell’autunno del 1814 a Francoforte. È amore a prima vista. Lei appena trentenne viene dal teatro, scrive versi conviviali, canta e suona con grazia seducente. E conosce bene i testi di Goethe che volentieri recita per gli amici, accompagnandosi con la chitarra. Il marito, uomo colto e garbato, è lusingato di avere un ospite così eccellente e dalla sua tenuta sul Meno manda in omaggio a Weimar una cassa di vini pregiati.Che lei accompagna con quattro suadenti strofe in rima baciata, pregando il poeta di qualche verso di ritorno per il libro degli ospiti .

L’anno successivo, tra l’agosto e il settembre, Goethe è ospite dei Willemer nella loro casa di campagna. Come omaggio alla padrona di casa il poeta porta una copia del Divan di Hafis. Si verifica così la situazione allusa nella nota: il riferimento a un testo necessita di un sapere, di una memoria comuni. Hafis diventa il loro trait d’union. Inizia infatti il carteggio cifrato di Marianne, l’intesa profonda, l’inoltrarsi insieme in un mondo esotico, fino a parlarsi attraverso le figure del poeta persiano – Hatem e Suleika – cercandosi negli arabeschi della scrittura. Per Goethe è il periodo più produttivo. Nell’estate del 1815 nasce quasi di getto il Buch Suleika, che accoglie anche strofe, risonanze della stessa Marianne. Sulla terrazza di casa, nelle miti serate di settembre Goethe, declama agli amici – e a Marianne agghindata alla turca – i nuovi versi del Divan.

Ma l’autunno incalza imponendo la separazione. Il 19 settembre Goethe parte improvvisamente. A Weimar lo aspetta la moglie Christiane, indebolita da una grave malattia. I Willemer lo raggiungono a Heidelberg, nel castello dei fratelli Boisserée e ancora una volta Goethe e Marianne – Hatem e Suleika – si scambiano versi. Ma il poeta, inquieto, si mette in cammino per Karlsruhe. Le testimonianze dei contemporanei mettono in luce una crisi profonda, con quel riemergere affannato – ed enigmatico per agli astanti – di un tema soprattutto, quello delle affinità elettive, di Ottilie, dell’amore e della rinuncia. Il 6 ottobre Goethe riparte per Weimar. Il commiato è definitivo. Seguono i giorni e i versi del compianto, in cui la figura dell’amata svanisce come un’eco: Nachklang s’intitola una delle ultime poesie dedicate a Marianne. Poi la vena poetica inaridisce. Tra il 1816 e il 1819 Goethe lavora alla strutturazione del Divan e lo completa con le “Note e dissertazioni”, dove appunto troviamo Cifra.

Il nostro testo si colloca dunque rispetto alla missiva di Marianne a una certa distanza cronologica, in posizione di rétroviseur, direbbe Barthes. La riposta del poeta, differita nel tempo, al biglietto cifrato del 1815 segnala una significativa variante, quella della rinuncia definitiva. Osserviamo il finale. Al grido teso verso il contatto carnale, all’asserzione perentoria e atemporale che dai frammenti di Marianne sale e canta chiudendo sospesa sulla nota argentina, vibrata a fior di labbro – Immer sehnt sich mein Herz nach deinen Lippen – Goethe risponde con la sconfitta del desiderio, sigillando i suoi versi nel segno fondo e battente della negazione: Will ihn umarmen / Und kann es nicht. I due testi si fronteggiano ora così come noi oggi li leggiamo: due corpi aggettanti l’uno verso l’altro, sospesi nel tempo.

Resta l’urgenza della comunicazione. Il Divan tarda a comparire. Nel maggio del 1819 Goethe, settantenne, lamenta “l’irresponsabile” lentezza della tipografia, in luglio si reca egli stesso a Jena per accelerare i tempi della pubblicazione, dandone notizia a casa Willemer. L’etichetta vuole che la posta sia indirizzata al consorte di Marianne. È a lui che il 22 agosto 1819 il poeta manda un esemplare del Divan fresco di stampa, non ancora rilegato. La corrispondenza segreta con Marianne si chiude così indirettamente, nella cifra del malinconico rimando a Hafis – sorgente di questo complessa tessitura citazionale – che Goethe antepone ai versi qui presi in esame: “Gli amanti separati trovano una consolante rassegnazione nell’ornare la loro tristezza con le perle delle sue parole”.

Anna Chiarloni

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