Für Liebende ist Bagdad nicht weit

Su di un prestito persiano nel Divan di Goethe

Anna Chiarloni

….quando – lo voler è tanto
ch’oltra misura – di natura – torna,
poi non s’adorna – di riposo mai.
Guido Cavalcanti

Vollmondnacht
Marianne von Willemer
Herrin, sag’ was heißt das Flüstern?
Was bewegt dir leis die Lippen?
Lispelt immer vor dich hin,
Lieblicher als Weines Nippen!
Denkst du deinen Mundgeschwistern
Noch ein Pärchen herzuziehn?
“Ich will küssen! Küssen! sagt’ ich.”

 

Schau’! Im zweifelhaften Dunkel
Glühen blühend alle Zweige,
Nieder spielet Stern auf Stern;
Und Smaragden, durch’s Gesträuche
Tausendfältiger Carfunkel:
Doch dein Geist ist allem fern.
“Ich will küssen! Küssen! sagt’ ich.”
Dein Geliebter, fern, erprobet
Gleicherweis’ im Sauersüßen,
Fühlt ein unglücksel’ges Glück
Euch im Vollmond zu begrüssen
Habt ihr heilig angelobet,
Dieses ist der Augenblick.
“Ich will küssen! Küssen! sag’ ich.”

I

Sarebbe arduo esaurire in queste poche pagine la lettura di un testo che si presenta denso di tensioni sospese, aperto sull’orizzonte della modernità. La nostra analisi seguirà un itinerario selettivo. Proponiamo una disamina della struttura correlata con la genesi del prestito esotico, colto nella dinamica biografica del tardo Goethe.

Pur riconoscendo immediatamente il genere – quello classico del Rollengedicht – ciò che a una prima lettura sorprende è la struttura del testo. Colpisce cioè il contrasto tra le due voci, diverse per peso, tonalità, direzione. Due voci che s’intersecano restando monologanti, tra di loro divergenti. Chi parla in questa notte di plenilunio?

Se si astrae dalla cornice esotica che caratterizza il Divan, e in particolare il Buch Suleika in cui Goethe ha inserito il testo, l’incipit – Herrin! –, sostenuto dal verso trocaico a quattro arsi tipico della romanza, potrebbe richiamare una situazione ricorrente nella poesia cortese, e successivamente romantica: quella del fidato dialogo notturno tra una nutrice e una giovane castellana. Il contesto orientaleggiante del Divan legittima tuttavia l’annotazione, frequente in molte edizioni, che identifica la prima voce con una “schiava” di Suleika. Di più. Da un punto di vista filologico è il 7. verso a consegnarci la cifra esotica. La risposta passionale della Herrin, ripresa al verso 14. e 21. deriva infatti da un verso di Hafis, il poeta persiano dal quale Goethe mutuò – com’è noto – gran parte dell’apparato scenico del Divan. Ma a questo “passaggio di proprietà” torneremo in seguito, osserviamo ora la scena del testo.

La prima voce si articola in tre sestine rimate, o assonanti, secondo lo schema abcbac. Grazie alla costante trocaica che marca tutte le strofe, il tono risulta affettuosamente incalzante, ma la frequente allitterazione e la rima incatenata conferiscono all’enunciato una curva melodica e suadente. Vediamo la prima strofa.

Nella notte lunare la schiava ha avvertito un sussurro. Il suo interrogare è inizialmente vezzeggiativo e giocoso, mosso dall’ondeggiare delle liquide allitteranti dei versi 2.-5., che fluiscono nell’immagine scherzosa del sorseggiare il vino. Si noti la strategia retorica del poeta nel far affiorare dal buio, nel gioco delle labiali, il volto di Suleika. La rima Lippen / Nippen ne disegna le labbra socchiuse, lo sguardo volto fuori scena (hin, v. 3); e se anche quella metafora vezzeggiativa del 5. verso – Mundgeschwister – ancora le trattiene il volto in un lessico da nursery (anacreontico), il trepido e insinuante diminutivo che la schiava pronuncia al 6. verso – Pärchen –, apre a un contatto erotico, già divinandone la provenienza esterna: herzuziehen.

La netta predominanza della cadenza femminile (ffmffm) e della vocale i nella rima (versi 2.-6.) imprime alla voce della donna uno spiccato andamento musicale. Tanto più irrelato risulta quindi il verso di replica che – incastonato tra le virgolette – s’insedia nel testo come un grafema. Al centro un’epanalessi perentoriamente esclamativa – küssen! Küssen! –, affiancata dai due robusti spondei che ne ribadiscono la simmetria fonica, conchiusa nella duplice affermazione dell’Io: Ich-ich. Un grido di desiderio, battente e volitivo, sospeso nel vuoto dell’intervallo strofico, in collisione col mondo intero. Anomalo nella sua deliberata, bizzosa iterazione. Moderno nel suo stato disarmonico e frammentario, che ostinatamente si ripropone alla fine di ogni strofa.

Horst-Günter Scholz lo definisce un refrain. Ma nella tradizione europea il termine indica una ripresa tematica, o un legame con le strofe seguenti. Un elemento di coesione, dunque, che in origine aveva un esito corale. Qui invece il gesto lirico è opposto: l’io reclama la sua individualità, la incide sibilando come un dardo obliquo nella tessitura ritmica del testo. Il collegamento, semmai, è gestuale. Infatti il verso 7., con un geniale effetto di ritorno acustico, richiama la mimica del 1. verso. Perché il sussurro – Flüstern, dice la schiava già segnala l’incresparsi delle labbra, e nello stesso tempo anticipa la traccia fonica successiva, quel küssen! Küssen! che ora svela e amplifica la segreta intenzione, la trasgressiva verità di Suleika.

Con la seconda strofa la visione si dilata. L’incipit – Schau! – invita Suleika alla contemplazione della notte orientale. Cullante nell’allitterazione ( v.10-11.) e nella fonda assonanza interna – Glühen blühend – ritroviamo qui un notturno mutuato dalla poesia persiana, cara al tardo Goethe. Nel buio lunare fiorisce ardente la natura, dal cielo cadono in gioco le stelle copiose – Stern auf Stern –, confondendosi con le lucciole tra i rami. Un cosmo figurale frequente nel Divan: l’esotico colorismo di smeraldi e rubini segnala l’amplesso tra cielo e terra, in una fantasmagoria astrale che illumina la sestina.

Ma ben sa, la schiava, che lo spirito – Sinn si legge nella prima redazione – di Suleika è lontano: Doch dein Geist ist allem fern. Persa nella memoria dei sensi, essa replica, attonita, il suo desiderio (v. 14).

La terza sestina sposta la prospettiva introducendo l’analogia delle pene d’amore: anche l’amato, lontano, soffre della separazione. Procedendo per ossimori – Sauersüßen, unglücksel’ges Glück – la schiava tenta analogie che mitighino la solitudine della sua signora, persino azzarda un plurale – Euch – che a lui, assente, l’abbina. E le rammenta, saldando passato e presente (vv.19-20), il sacro voto: guardare ora, come l’amante lontano, la luna piena. È l’ultimo tentativo della schiava per orientare lo sguardo di Suleika, sospingendolo verso le sfere celesti: Dieses ist der Augenblick, un verso che incalza e implora per indurla nell’orbita della consonanza sentimentale, di un’attesa mite e ubbidiente.

Si noti per contro lo scarto temporale della terza replica: anche Suleika balza nel presente, ma nel hic et nunc di un desiderio prorompente: “Ich will küssen! Küssen! sag’ ich”.

Essa mantiene la promessa, annota stranamente Scholz. Una fiaba a lieto fine? A noi pare che la struttura del testo detti un’interpretazione diversa. E non solo perché tra uno sguardo alla luna e l’imperativa richiesta – tutta terrestre – di contatto carnale ce ne corre. Troppo marcata – anche graficamente – ci sembra la distanza tra le due voci, tale che nemmeno consente di evocare un contrappunto. Alla prima, rimata e melodica fa infatti riscontro il grido anaforico. Alla tutela della convenzione poetica, si contrappone una triplice scheggia in rivolta. Certo, la notte di plenilunio instaura fin dal titolo una mediazione romantica. Ma qui lo scatto di Suleika sembra piuttosto echeggiare antichi miti lunari di origine babilonese, memorie dionisiache di seduzione e panica ebrezza. Qual è la matrice di questo appetitus cordis? Reminiscenze di una Selene baccante sedotta da Giove, l’Olimpico?

Per afferrare almeno in parte l’opera d’arte, così come quella della natura, non serve osservarla quando è compiuta, bisogna coglierla nella sua genesi, osserva Goethe.  Proviamo anche noi a fare questo percorso a ritroso nel tempo.

II

Siamo nel 1815. L’affinità elettiva del poeta con Marianne, giovane sposa, colta e appassionata, del maturo banchiere Willemer, è all’apice. Un’intesa profonda, fatta di musica e letture comuni, di fuga nel mondo esotico della poesia orientale, cosmica e sensuale al tempo stesso. Hafis, soprattutto. Scaturisce di getto, nella dolce estate trascorsa lungo i vigneti del Meno, alla Gerbermühle – la tenuta dei Willemer -, quella sorta di carteggio sentimentale, di scambio di versi anelanti, gioiosi e solari – spesso mutuati dal modello persiano – che confluirà nel Divan. Svelato nel secondo Ottocento, il gioco delle maschere poetiche è noto: Marianne prende il nome di Suleika, figura di donna passionale, moglie dell’eunuco egiziano Putifar, che nella Genesi tenta di sedurre il giovane Giuseppe, ma anche protagonista di un romanzo d’amore del poeta persiano Dschami. A se stesso Goethe assegna invece il nome di Hatem, colui che riceve e dispensa doni. Osserva Mittner che l’anziano poeta ringiovanisce così per successivi e complessi rispecchiamenti: egli ama la donna innamoratasi dell’immagine efebica di lui, dell’immagine di quel Jussuph, che gli si era presentata alla fantasia della prima puerizia come eroe di un poema biblico. Un gioco di rifrazioni che lo conduce a uno straordinario virtuosismo poetico, come rivela il ghasel che celebra il suo nuovo nome, teso nelle ripetute pulsazioni esistenziali del verbo sein, che dal primo distico marca e rincorre lungo la rima tutto il testo .

Mentre Marianne è la donna bruna ed esotica che – con evidenti prestiti poetici da Hafis – lo avvince nella sua rete di ambrati ricci serpentini, sovrapponendosi alla Suleika dalle ciglia dardeggianti e la bocca di rubino.

Alla Gerbermühle, il 28 agosto, Goethe festeggia il suo 66. compleanno, Marianne lo agghinda con un turbante di mussolina, Willemer stappa una bottiglia di vino renano, annata 1749. La giovane padrona di casa trasmette calore vitale, ma non solo: è una donna dai gusti raffinati, che sa di musica – Clemens Brentano le ha insegnato a suonare la chitarra, dedicandole poi versi adoranti – e ha il brio creativo di chi viene dalle scene teatrali. Tenera e struggente, con le sue origini Marianne è anche un po’ Mignon. Una Mignon che non solo danza ma sa anche cantare, e diletta gli ospiti producendosi da comprimaria nei testi goethiani, Der Gott und die Bajadere, oppure Kennst du das Land, come ricorda Sulpiz Boisserée. Ricambia, il poeta, leggendo i suoi versi di recente fattura. E coglie subito un accordo di fondo, quell’affinità che si legge nella perfetta simmetria figurale e ritmica di Gingo biloba.

C’è, anche, un crescendo di passione e segretezza. Goethe e Marianne si scambiano messaggi cifrati, versi che rivelano un’ intima sintonia, dichiarazioni d’amore. Scrive Hatem, il 12 settembre:

Nicht Gelegenheit macht Diebe,
Sie ist selbst der größte Dieb;
Denn sie stahl den Rest der Liebe,
Die mir noch im Herzen blieb.

Gli risponde Suleika che ladra d’amore si dichiara, e arditamente lo incalza:

Und wozu denn auch berauben?
Gib dich mir aus freien Wahl;
Gar zu gerne möcht’ ich glauben –
Ja, ich bin’s, die dich bestahl.

Le testimonianze del tempo ci consentono di osservare la scena più da vicino. Goethe in flanella bianca, la mattina nel bosco attorno alla villa, col suo inseparabile calice d’argento sorseggia vino, passeggiando meditabondo. La sera, sulla terrazza, legge agli amici i testi che saranno del Divan. Suleika lo ascolta velata all’orientale, le spalle avvolte nello scialle di seta, un dono del poeta. E ancora. Concerto al chiaro di luna, una notte di settembre. Marianne canta Mozart – “Gib mir die Hand, mein Leben” – col suo brio irresistibile: “piccolo Don Giovanni” la chiama Goethe, mentre Willemer si addormenta in poltrona. Come Albert, ha notato Thomas Mann .

Con la confidenza, le immagini poetiche si fanno più esplicite. Lo scrittore di Lubecca commenta, virilmente ammirato, quella Maske des Unreims, dietro la quale Goethe ammicca all’amata. E Suleika lo invita, con due quartine di splendida fattura, a inoltrarsi in un onirico paesaggio orientale, lungo le rive dell’Eufrate, per divinare il senso di un anello smarrito nei flutti. Un esotismo che subito viene ricondotto da Goethe alla dimensione vissuta, quasi diaristica di quei giorni. Si veda la risposta di Hatem, che dall’Eufrate risale fino a Damasco, con sempre nuove carovane fino al Mar Rosso, per approdare alla Gerbermühle, sciogliendo infine l’enigma in un connubio fluviale con Suleika:

Mich vermählst du deinem Flusse
Der Terrasse, diesem Hain,
Hier soll bis zum letzten Kusse
Dir mein Geist gewidmet sein.

Questo non significa, sia chiaro, che l’interesse di Goethe per il modo orientale, in particolare per Hafis, fosse solo di comodo, assunto cioè come maschera esotica di un’esplorazione sentimentale. Tanto più che lo studio delle fonti, storiche e letterarie, si estese com’è noto per anni. Significa piuttosto che la poesia d’amore persiana costituì per Goethe e Marianne, nell’estate del 1815, il luogo della mente, l’humus prodigioso che consentì loro un dialogo poetico altrimenti interdetto. Un dialogo in parte segreto. Nelle ultime settimane del soggiorno del poeta alla Gerbermühle, infatti, ha inizio – o forse s’intensifica – lo scambio di lettere cifrate. In tutto se ne sono conservate sette, tre di “Hatem” e quattro di “Suleika”. Il testo di riferimento è costituito dalle poesie di Hafis: collegando i numeri di certe pagine e di certi versi, Goethe e Marianne potevano comunicare indisturbati le loro pene d’amore. Immagini, metafore, frammenti di poesia persiana venivano poi rielaborati in un nuovo testo, entrando così a far parte di un fitto carteggio lirico.

Ora, è proprio in una missiva firmata in lettere arabe da “Suleika” che compaiono i versi utili a chiarire il contesto di Vollmondnacht. Ma la cronologia ha qui un suo peso, dunque andiamo con ordine.

Finora abbiamo parlato di passione. Tuttavia, sul finire dell’estate, è l’inquietudine a prendere il sopravvento. Goethe sente l’incalzare del tempo. L’autunno avanza con i suoi doveri, con altre passioni, civili, intellettuali. Anche domestiche. Giungono missive della moglie Christiane, che chiede notizie. Superata la crisi renale che l’aveva afflitta fin dalla primavera, lei lo aspetta a Weimar. E nel frattempo è tornato dal Congresso di Vienna il duca Carlo Augusto: Weimar è ora un granducato e le sue dimensioni si sono ingrandite, adesso sono necessari nuovi progetti, nuove misure amministrative.

Il 19 settembre Goethe parte precipitosamente per Heidelberg. Marianne lo raggiunge al castello dei fratelli Boisserée: è l’ultimo incontro, con copioso scambio di versi. Seine Liebe sei mein Leben, scrive Suleika, in un testo di umida fragranza. Il controcanto di Goethe, Wiederfinden, è un inno solenne all’armonia cosmica, un inno in cui gioie e pene si sciolgono in una cosmogonia che annuncia l’inesauribile ricchezza del creato. Si avverte qui un gesto lirico ascensionale, che guarda a un orizzonte sconfinato, in cui la coppia degli amanti appare come un platonico specimen di Freud’ und Qual. Prodigiosamente ricca è la produzione di Goethe in queste ultime giornate di Heidelberg. Poi il poeta incontra il “Serenissimo” ed è con lui a Mannheim. Successivamente – su ordine del duca – si mette in cammino per Karlsruhe.

Alla tormentosa incertezza seguono i giorni del distacco. Entschluß zur Abreise, scrive Goethe nel diario. Le testimonianze dei contemporanei mettono in luce una crisi profonda, con quel riemergere affannato – ed enigmatico per agli astanti – di un tema soprattutto, quello delle affinità elettive, di Ottilie, dell’amore e della rinuncia. Il 6 ottobre Goethe riparte per Weimar. Preoccupato dalla prostrazione del poeta, Sulpiz Boisserée lo accompagna in carrozza fino a Würzburg. A lui dobbiamo la descrizione minuziosa dello stato d’animo di quelle giornate. La prima sera, in una gelida locanda sul Neckar, Goethe si rianima leggendo all’amico “le sue poesie orientali d’amore”. Nasce in questi giorni Abglanz, commosso riflesso – im stillen Witwerhaus dello sguardo dell’amata. Il giorno successivo, raggiunto di nuovo il Meno a Würzburg, Goethe lancia nel fiume “i più amabili dolcetti” perché approdino rapidi “alla nota, cara terrazza”….

Lento e difficoltoso è il viaggio di ritorno. La Germania è ancora attraversata da frange sparse di truppe antinapoleoniche, lungo il Meno il cammino è sbarrato da una colonna di cosacchi del Don. Si riparte dopo una lunga attesa ma nei pressi di Meiningen la carrozza si rovescia e Goethe deve raggiungere la città a piedi. Dal “Gasthof Hirsch” scrive a Rosine Städel, accludendo un biglietto in codice per Marianne: Vom Freunde ferne trink ich Blut am Tisch der Trennung. Il giorno 11 ottobre Goethe arriva a Weimar. Qui lo raggiunge un messaggio, anch’esso cifrato, di Suleika che, intrecciando versi di Hafis scrive:

Deine Liebe hat sich fest
In mein Innres eingenistet,
Und verlier ich auch den Kopf,
Wird die Liebe nicht ausgehen.
O Trennungsgluth
So viel hab ich von dir schon vernommen,
Dass Kerzen gleich
Mir nichts, als selbst zu vergehen, erübrigt.
Immer sehnt sich mein Herz nach deinen Lippen.

È l’espressione di un erotismo acceso, che non teme di esporre la resa del corpo femminile, dichiarandolo nido e dimora di un amore che travolge ogni ragione. Se l’immagine della candela, frequente in Hafis, segnala un’estenuazione indotta dalla passione, l’ultimo frammento guizza incandescente riproponendo l’innocente baldanza del desiderio. In calce al biglietto cifrato si legge “18 8br 1815”: data di plenilunio, che rimanda al mese precedente, all’ultima sera vissuta insieme alla Gerbermühle .

In Vollmondnacht, la poesia di pochi giorni successiva, Goethe trasfonde l’urgenza passionale di Marianne. E la incastona in quel triplice verso battente, che a sua volta riecheggia, l’abbiamo detto, un frammento di Hafis .

Ma il testo rivela anche una cesura. Hatem tace fuori scena e scomparsa è la sintonia che fondeva Hauch um Hauch e Blick um Blick nell’alternanza delle voci nei versi precedenti. Se già in Abglanz l’immagine di Marianne appariva lontana, inquadrata tra i tralci di rose dorate in una cornice di smalto azzurro – In goldnen Rosenranken / Und Rähmchen von Lasur – ora è la sua voce a presentarsi conchiusa nel segno grafico. Eccentrico rispetto alla limpida misura delle sestine rimate, resta il suo un suono di gola, un grido iconico che attenta alla forma classica prorompendo nel silenzio della notte lunare. La grandezza del poeta sta appunto nell’aver dato fiato, grazie a un verso ladro, esotico e dissonante, a quel clamore sensuale, a quell’ultima eco di un’intensa stagione d’amore.

Ma al di là del dato biografico, Vollmondnacht si legge oggi come un palinsesto che segnala nell’aritmia della composizione un congedo dall’armoniosa norma metrica, come un testo che già annuncia l’inoltrarsi della poesia verso gli oscuri, frammentati sentieri della letteratura moderna.

Anna Chiarloni

Bibliografia

  • Goethe, Werke, Weimarer Ausgabe, Hermann Böhlau, Weimar 1888, Bd. 6.
  • Goethe, West-östlicher Divan, hrsg. von K.Richter, Hanser, München 1998; traduzioni: Giorgio Cusatelli, Einaudi, Torino1990; Ida Porena, Rizzoli, Milano 1997.
  • Goethes Leben von Tag zu Tag, hrsg. von R. Steiger und A. Kaufmann, Artemis, Zürich 1993. 

  • Said H. Abdel-Rahim, Goethe und der Islam, Diss., Augsburg 1969
  • Giuseppe Bevilacqua, Goethe, Rückert e le rose d’oriente, in: I mille volti di Suleika. Orientalismo ed esotismo nella cultura europea tra ‘700 e ‘800, a cura di Elena Agazzi, Artemide Edizioni, 1999
  • Sigrid Damm, Christiane und Goethe. Eine Recherche, Insel, Frankfurt/M, 1998.
  • Robert Graves, The greek Myths, vol. 2, pp. 106-109.
  • Max Kommerell, Goethes Divan, Klostermann, Frankfurt 1956.
  • Horst-Günther Scholz, Spielformen in Goethes Altersdichtung, Bd. II, Herchen Verlag, Frankfurt/M 1990.
  • Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal pietismo al romanticismo, Einaudi, Torino 1964, p. 967 sgg.
  • Luciano Zagari, Der Lyriker Goethe, “GJb”, 1991, Bd. 108.
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