Brigitte Reimann, Fratelli

Paola Quadrelli

L’editore Voland, a cui si deve la traduzione nel 2005 di Franziska Linkerhand, prosegue nella riscoperta dell’opera di Brigitte Reimann (1933-1973), scrittrice di prestigio nella DDR degli anni Sessanta, e propone al lettore italiano il breve romanzo Die Geschwister (Fratelli, trad. di Monica Pesetti, pp. 154). Come il coevo Cielo diviso dell’amica Christa Wolf, anche questo testo della Reimann, pubblicato nel 1963, è incentrato sulla divisione delle due Germanie, illustrata e riassunta attraverso un conflitto potentemente simbolico e di antica tradizione letteraria, ovvero il dissidio tra due fratelli. Il contrasto, peraltro di matrice autobiografica (il fratello dell’autrice, Lutz, si era trasferito nella Germania Ovest nel 1960), vede contrapposti la ventiquattrenne Elisabeth Arendt, che dirige un circolo di operai pittori in un kombinat della DDR, e il fratello Uli, ingegnere navale deluso dalla rigidità dottrinaria dello Stato socialista e deciso a scappare all’Ovest. L’antefatto del racconto è rappresentato appunto dalla confessione di Uli che confida alla sorella l’intenzione di fuggire ad Amburgo di lì a due giorni. Elisabeth si rivolge quindi al fidanzato Joachim, direttore di un laminatoio e membro del partito, affinché dissuada Uli dal progetto di fuga. Il racconto si apre proprio nel momento in cui Elisabeth attende fuori dalla porta l’esito del colloquio tra i due. Tale colloquio, che si svolge la mattina del martedì di Pasqua, il giorno precedente la decisione di Uli, costituisce il racconto cornice, scandito da incalzanti indicazioni temporali a sottolineare l’ansiosa attesa di Elisabeth; all’interno di esso prendono vita, tramite flash-back, tanto il passato recente, ovvero le conversazioni tra Elisabeth e Uli nei giorni immediatamente precedenti, quanto il passato remoto, ossia l’infanzia e l’adolescenza dei due fratelli lungo un arco temporale che va dalla seconda guerra mondiale al momento presente (siamo nell’aprile 1961, dunque pochi mesi prima della costruzione del muro di Berlino). L’Io narrante è Elisabeth e la narrazione è connotata pertanto dalla prospettiva fortemente emotiva della giovane, di cui il lettore apprende timori, speranze, perplessità e aspettative.

La non banale impostazione narrativa di Fratelli, articolato appunto su tre piani temporali, e gli accenni di „nuova soggettività“ costituiscono alcuni degli elementi di originalità del romanzo, lontano dai canoni convenzionali del realismo socialista anche per la raffigurazione lucida e non mistificante dei problemi e delle contraddizioni entro cui si dibatteva la DDR e per il tono problematico e non trionfalistico con cui si conclude il racconto. Le argomentazioni addotte da Joachim sembrano infatti persuadere Uli della necessità di restare nel proprio Paese per contribuire alla crescita economica e all’evoluzione politica dello Stato socialista, ma tale decisione non si esprime in forma di dichiarazione esplicita a favore della DDR, né comporta una ritrattazione delle critiche in precedenza avanzate. Vi è piuttosto una serie di allusioni che indicano nel finale la propensione del giovane a non abbandonare il suo Paese; „Voi avete bisogno di noi…“ è il commento sommesso di Uli alle argomentazioni di Joachim e indicativa di una mutata valutazione finale nei confronti dei fautori del socialismo nella DDR è pure la tonalità di ammirazione che traspare nella battuta conclusiva del racconto, „Was seid ihr bloß für Menschen“ („Ma che razza di persone siete?“), un interrogativo già espresso in precedenza da Uli con tono, però, sprezzante, laddove serviva a rimarcare la sicumera e l’intransigenza dei sostenitori del socialismo, e in altra occasione, a commentare la decisione della sorella di „denunciarlo“ a Joachim, membro del Partito.

Quale elemento di conciliazione emerge nel finale del colloquio tra i due uomini il comune interesse per la „cibernetica“, disciplina in auge nella DDR di allora e da cui ci si attendevano risultati salvifici nella impari competizione produttiva con l’Occidente capitalista. Proprio il 1961, ovvero l’anno in cui si svolge la vicenda di Fratelli, segna l’accettazione ufficiale nella DDR di una scienza importata dagli Stati Uniti e tacciata sino a quel momento di „oscurantismo borghese“[1]. La narratrice qualifica la cibernetica con l’epiteto vagamente ironico di „formula magica“ e non nasconde il suo scetticismo dinanzi alle prospettive produttive e lavorative dischiuse dalla nuova scienza: „macabre visioni di robot e automi che fabbricano tutto, anche la poesia“ (p. 150). Prendono corpo qui i timori dell’autrice dinanzi al prospettarsi di una società tecnocratica, votata ciecamente al principio della produzione. Perplessità di fronte a un sistema produttivo che ignora i bisogni profondi dell’uomo emergono anche in Franziska Linkerhand, laddove la giovane architetto contesta la pianificazione edilizia statale che impone la costruzione in serie di grigi casermoni ed entra così in contrasto con il suo capo Schafheutlin, pedante e opaco „ragioniere dell’architettura“, rappresentante di un’edilizia che non conosce fantasia ed emozioni. Del resto, Franziska ed Elisabeth mostrano analogie caratteriali e sociali; entrambe provengono da famiglie borghesi (il nonno di Elisabeth è un vecchio capitalista cui lo Stato ha espropriato la fabbrica di scarpe) ma hanno aderito alla causa socialista, entrambe sono giovani appassionate del proprio lavoro, animate da alti ideali e pronte a difendere coraggiosamente la propria posizione in un ambiente lavorativo in larga parte gretto e maschilista. Significativo al riguardo è il conflitto vissuto da Elisabeth nel kombinat con l’anziano pittore Ohm Heiners, il cui decorso viene raccontato dalla giovane al fratello a riprova dell’intelligenza e dell’assennatezza dei dirigenti del Partito: è infatti il segretario del Partito all’interno del kombinat, Bergemann, a imporre a Ohm Heiners una ritrattazione pubblica delle calunnie da lui diffuse in fabbrica contro Elisabeth.

Il contrasto tra Elisabeth e Ohm Heiners è di natura generazionale; la giovane contesta all’anziano pittore, sempre incline a sottolineare con compiacimento la propria antica militanza antinazista, di essersi adagiato tra i privilegi concessi alla dirigenza del partito e di aver smarrito in tal modo il contatto con la base e la classe operaia. Commentando un quadro di Ohm Heiners, che troneggia in sala mensa – il ritratto di un operaio socialista modello – Elisabeth rimprovera all’autore di non aver saputo cogliere l’evoluzione dell’operaio socialista: „Conosco alcuni tuoi dipinti del 1930. Ne conosco alcuni del 1960. Hai dato alla gente vestiti diversi, ma non un volto nuovo. Lo sai che il tuo modello va all’università? Quell’uomo tra due anni sarà un ingegnere minerario. […] Non riesci a stare al passo con la tua classe. Che ne sai della base, tu che la guardi dall’auto del segretario del partito?“ (p. 100-101). D’altro canto Heiners non apprezza la pittura della giovane collega, evidentemente influenzata dall’esperienza degli espressionisti: „Che colori assurdi. Non sono realistici“ (p. 105), esclama dinanzi a un quadro di Elisabeth che ritrae un saldatore al lavoro. Elisabeth rivendica la soggettività dell’esperienza estetica e contesta implicitamente i criteri del realismo socialista: „il tuo genere di realismo potrei ottenerlo con una buona pellicola a colori. Il mio occhio però non è un obiettivo e io non sono una macchina fotografica, io sono un essere umano con delle sensazioni e con un rapporto ben preciso nei confronti dell’essere umano che dipingo […]“ (p. 106). Si percepisce nel dissidio tra i due pittori l’eco della campagna contro il formalismo avviata dalla SED negli anni Cinquanta, tesa a combattere le evoluzioni artistiche più recenti, dall’espressionismo all’astrattismo, accusate di praticare un’arte lontana dalla realtà. Con i suoi quadri Elisabeth rivendica un’arte realista, in cui, però, la realtà sia filtrata dalla sensibilità del pittore, che deve saper cogliere con perspicacia i mutamenti dell’uomo nel socialismo. Servizio alla causa socialista e attenzione alle tendenze più recenti dell’arte contemporanea non sembrano dunque essere inconciliabili né per Elisabeth, né per il Partito, che tramite il suo segretario Bergemann esprime apprezzamento per le opere della giovane, erette a modello di quel genere di „opere d’arte che la nostra gente si aspetta da noi“ (p. 107).

Nella reazione vendicativa di Heiners si percepiscono, però, più risentimento e rancore personale che non dissensi di natura teorica. Le dicerie che egli sparge sul conto di Elisabeth, a cui attribuisce comportamenti sessuali disinvolti oltre che origini borghesi (vere) e simpatie familiari per il nazismo (false), attirano sulla giovane persino le attenzioni della polizia per la sicurezza di Stato. La comparsa di un uomo della Stasi, che si presenta nello studio di Elisabeth in seguito a una „segnalazione“ (la presunta formazione di „una piattaforma borghese“ all’interno del circolo degli operai pittori), rappresenta probabilmente un unicum nella letteratura dell’epoca e la stessa Reimann, a cui l’editore aveva inizialmente proposto l’eliminazione della scena della Stasi, poteva annotare soddisfatta nei suoi diari (14.9.1962) che l’intero libro, scena della Stasi compresa, era stato infine accettato dall’editore.

L’esplicito riferimento alla presenza di una occhiuta polizia di Stato, le critiche alle direttive artistiche ufficiali e la fondatezza delle denunce di Uli nei confronti della rigidità burocratica e ideologica dello Stato non inficiano tuttavia la fede convintamente socialista che anima il romanzo e di cui danno prova, tra l’altro, la risoluzione del conflitto tra Elisabeth e Ohm Heiners propiziata dal Partito e la raffigurazione negativa della Germania federale. Oggetto di dettagliata rievocazione da parte di Elisabeth è infatti l’incontro in un caffé a Berlino Ovest con il fratello maggiore, Konrad, emigrato ad Amburgo con la moglie. Le scintillanti vetrine del Kurfürstendamm e le luccicanti insegne pubblicitarie, evidente allusione a una società biecamente consumista e individualista, non possono tuttavia ingannare sulla natura antidemocratica della Germania federale, che favorisce la permanenza al potere di rappresentanti della vecchia dittatura. Nel ritratto della Germania federale di quegli anni abbozzato da Elisabeth compare infatti, quasi con una pennellata à la Grosz, „das feiste Lachen des Rassengesetzkommentators“, ovvero la „grassa risata“ di Hans Globke, fedele collaboratore di Adenauer, già funzionario al Ministero di giustizia ai tempi del nazismo e autore di un commento alle leggi razziali. Globke era un personaggio politico notissimo  nella DDR degli anni Sessanta, dove veniva citato polemicamente come esempio clamoroso di persistenza al potere nella Bundesrepublik di rappresentanti del regime nazista; il passo in questione non andava dunque tradotto, come fraintende Monica Pesetti, con „la grassa risata del giornalista che commenta le leggi razziali“ (p. 151), ma semmai, alla lettera, come „la grassa risata del commentatore delle leggi razziali“.

L’ambientazione della vicenda in un contesto storico, politico e culturale lontano ed estraneo al lettore odierno rappresenta di fatto la maggior insidia per il traduttore e la maggiore difficoltà per il lettore. A parte una nota della traduttrice a proposito del termine „Zone“ (ovvero la „Zona di occupazione sovietica“), mancano nel romanzo note e commenti che spieghino al lettore ignaro termini specifici (ad es., kombinat, „attivista“, „Libera Gioventù tedesca“), riferimenti a canzoni dell’epoca e a testi poetici divenuti proverbiali (la ballata di Uhland del padre che taglia la tovaglia tra sé e il figlio, citata a pag. 50), nonché fatti e circostanze cui si allude nel romanzo, come il successo della cibernetica, l’impegno degli artisti nel mondo della produzione promosso dalla Conferenza di Bitterfeld o la campagna contro il formalismo. Alcuni riferimenti risultano poi difficilmente comprensibili a causa di una traduzione errata; così, dinanzi al passo in cui Gregory, l’ex-compagno di scuola di Elisabeth che frequenta l’Università a Berlino Ovest, dichiara di non aver voluto proseguire gli studi in uno Stato „dove camicie blu e padri lavoratori decidono i voti d’esame“ (p. 38), il lettore non può capire che la provenienza sociale era uno degli elementi decisivi in base ai quali nella DDR, almeno fino a tutti gli anni Cinquanta, si selezionavano i giovani per l’accesso agli studi superiori, così che nello „Stato degli operai e dei contadini“ avere un padre operaio (non genericamente „lavoratore“) costituiva un vantaggio. È la stessa Franziska Linkerhand nell’omonimo romanzo a ricordare come la provenienza sociale costituisse un elemento fortissimo e dolorosamente vincolante di identificazione e classificazione dello studente. All’esame di maturità, ricorda Franziska, gli studenti dovevano compliare un modulo in cui alla voce „Appartenenza alla classe sociale“ erano indicate tre opzioni: A (Arbeiter, operai); B (Bauern, contadini) e S (Sonstige, ovvero „Altro“): „Noi appartenevamo alla categoria denominata altro. […] Nel Calvinismo esiste il concetto di predestinazione […]. Proprio così ci sentivamo etichettati. Una volta che sei nato borghese, lo rimani per sempre. Non ti posso dire quanto tutto ciò ci abbia fatto soffrire…“.[2]

Altro termine fortemente connotato sotto il profilo storico-politico è „Norm“, da intendersi non, genericamente, come „regola“ (cfr. „Ogni operaio che distorce la regola, è un truffatore“, p. 138), bensì come „norma lavorativa“. „Arbeitsnorm“ è un termine specifico del sistema lavorativo della DDR, dove gli operai erano pagati in base ai risultati ottenuti, non in base alle ore di lavoro svolte: le „Arbeitsnormen“ erano dunque parametri fissati per legge dallo Stato e indicavano la quantità di lavoro da svolgere in un dato lasso di tempo. Costituiva un reato la pratica, invalsa presso i capibrigata, di „fare la cresta“ sulla norma (Normenschaukelei) allo scopo di camuffare la discrepanza tra piano lavorativo e adempimento del piano. Inoltre, gli operai che innalzavano la norma lavorativa erano evidentemente invisi ai colleghi che temevano in tal modo di dover lavorare di più per ottenere lo stesso salario (vedi, appunto, la pièce Der Lohndrücker di Heiner Müller).

Pure il termine „nepotismo“ (p. 108), scelto dalla traduttrice per rendere „Protektionswirtschaft“, è una scelta infelice, perché allude a un favoritismo in ambito familiare che è estraneo al contesto in questione.

Altrove non è stata colta la citazione letteraria (che pure avrebbe necessitato di una nota per il lettore italiano): Elisabeth si rivolge al fidanzato Joachim, suo vicino di casa, con l’appellativo „mein wunderliches Nachbarskind“, che è una citazione da una novella di Goethe contenuta nelle Affinità elettive e resa in tutte le traduzioni del capolavoro goethiano con „Gli strani figli dei vicini“. L’epiteto andava dunque tradotto „il mio strano figlio dei vicini“ e non „lo strambo figlio dei vicini“ (p. 58).

La traduzione presenta poi evidenti sviste, che modificano però, talora in modo significativo, il senso del testo; ad esempio, a pag 29 si legge „la nostra DDR“, laddove Konrad e la moglie parlano invece, polemicamente e sprezzantemente, di „eurer DDR“; a p. 60 Elisabeth ammira la stanza dell’autodidatta Steinbrink, zeppa di libri sino al soffitto, sicché l’indicazione di „duecento libri“ sembra riduttiva (il testo originale parla infatti di „zweitausend“); a p. 105, commentando il suo ritratto di un saldatore, Elisabeth constata che nella saldatura a elettrodi „l’arco è più caldo e più pallido“, laddove invece è „più freddo e più pallido“ („kälter“ nell’originale).

A proposito del giudizio di „inaffidabilità politica“ pronunciato dal Partito su Joachim in quanto ex-assistente universitario di un professore scappato all’Ovest, Elisabeth riflette che probabilmente tale verdetto era stato emesso da quattro o cinque compagni di partito, „giovani e zelanti“, anche sulla base di qualche discussione in cui „lo studente Arendt non aveva espresso il suo parere“ (p. 86), mentre nel testo tedesco si allude al fatto che Uli non avesse condiviso il parere dei compagni: „wegen einer Diskussion, vielleicht, bei der der Student Arendt ihre Meinung nicht geteilt hatte“.

Come si diceva sopra, la narrazione è costruita su tre piani temporali: il presente (racconto cornice, contrassegnato da una precisa indicazione temporale: „Heute ist der Dienstag nach Ostern“), il passato recente (i giorni delle vacanze pasquali immediatamente antecedenti) e il passato remoto (l’infanzia dei due fratelli, la partenza di Konrad per l’Ovest, l’incontro con Konrad a Berlino Ovest). Il racconto cornice è narrato all’imperfetto epico (se si eccettua la frase sopra citata „Heute ist der Dienstag nach Ostern“), ma è costellato di indicazioni temporali legate al presente, quali „jetzt“, „heute“, „gestern“, „vorgestern“, „morgen“, che andavano mantenute nella traduzione, sia per ragioni di fedeltà al testo e di chiarezza narrativa, sia perché tali avverbi temporali si rivelano funzionali a rendere la concitazione del momento presente, segnato dalla spasmodica attesa di Elisabeth per la imminente risoluzione del fratello. La prospettiva del momento presente è invece cancellata nella traduzione, ove si sposta l’atto narrativo a un momento successivo agli eventi del racconto cornice: così „Jetzt“ è tradotto con „in quel preciso momento“ (all’inizio del cap. 3 è addirittura omesso), „vorgestern“ con „due giorni prima“, „gestern früh“ con „la mattina prima“, „gestern“ con „il giorno prima“ e conseguentemente „morgen“ con „il giorno dopo“.

È chiaro che tale scelta deriva dalla volontà di rendere più fluida la narrazione e di evitare frasi stranianti in cui un avverbio deittico del presente si accompagna a un tempo verbale al passato, come „Adesso erano le nove meno un quarto“, o frasi quali „Domani Uli sarebbe partito“ („Morgen wäre Uli abgereist“) o „Accadeva l’altroieri“. Si tratta di frasi apparentemente paradossali che, tuttavia, conosciamo dal saggio di Käthe Hamburger sulla finzione narrativa, in cui la studiosa distingue tra enunciati di realtà ed enunciati romanzeschi e cita a tal proposito frasi, tratte da romanzi dell’Otto- e del Novecento, in cui le convenzioni logico-grammaticali degli enunciati di realtà sono saltate: „Si riunivano, e tutti erano di malumore per la festa di ieri“ (Goethe), „Ma la mattina doveva sistemare l’albero. Domani era Natale“ (Alice Brend), „…e certo lui veniva alla sua festa stasera“ (V. Woolf).[3]

Nonostante questi rilievi critici, la scrittura della Reimann mantiene, tuttavia, anche nella presente traduzione la sua intensità e ricchezza emotiva e all’editore romano va riconosciuto il merito di aver fatto conoscere al lettore italiano un romanzo che rende con vivida concretezza il dramma della Germania divisa. Mirabili per forza evocativa sono le pagine in cui la narratrice ricrea dinanzi al lettore l’atmosfera desolante di miseria e promiscuità che regnava nel campo profughi berlinese di Marienfelde e la descrizione, intrisa di malinconia, della camminata di Elisabeth attraverso le strade afose e polverose di Berlino ovest dopo l’improvviso litigio con Konrad. Il senso di smarrimento in una Berlino ormai estranea e il dolore per il fratello irrimediabilmente perduto si intrecciano nell’animo di Elisabeth, che solo in quel momento arriva davvero a cogliere in profondità il senso della tragedia tedesca.

Paola Quadrelli


[1]    Cfr. Stefan Wolle: Aufbruch in die Stagnation. Die DDR in den Sechzigerjahren, Bundeszentrale für politische Bildung, Bonn 2005, p. 76.

[2]    B. Reimann: Franziska Linkerhand, trad. di Antonella Cerminara, Voland 2005, p. 59.

[3]    Cfr. Käte Hamburger, La finzione narrativa, trad. di Alessio Baldini, in „allegoria“ n. 60, luglio-dicembre 2009, pp. 13-41.

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