Hans Christian Andersen, L’improvvisatore

ImprovvisatoreCamilla Miglio

Siamo abituati a pensare il Viaggio in Italia nei termini fissati da Goethe: un viaggio avventuroso, segreto, improvviso, di un quarantenne inquieto e già ‘formato’, che non riesce a mettere la parola fine al suo Faust, che parte con in tasca un dramma su Ifigenia in Tauride da mettere tutto in versi, che fugge dalla sua immagine pubblica, e cerca l’Antico, la Natura, la Cultura alle fonti, il ringiovanimento e la rinascita. La sua è la penna sicura di chi non si è mai sentito un “brutto anatroccolo”. Scrive “3 settembre 1786 – Alle tre del mattino partii di nascosto da Karlsbad, ché altrimenti non m’avrebbero lasciato andar via. […] Da solo, avendo per tutto bagaglio una sacca da viaggio e uno zaino di pelo di tasso, mi infilai in una vettura di posta”. A partire da quel momento Goethe si mescola – spesso in incognito – con la gente di Roma e d’Italia, dal popolo agli artigiani, dai nobili ai mercanti agli stranieri delle varie colonie artistiche romane. Così prosegue il suo viaggio verso sud, da Napoli alla Sicilia, e ritorno. Osserva con occhio d’artista, antropologo ante litteram, scienziato e ‘pittore’, appropriandosi della materia viva che incontra, incorporandola con la memoria dei luoghi dell’antico che egli stesso contribuisce a creare, trasformando l’Italia in un grande “luogo della memoria occidentale”. Nasce con lui il viaggio a sud come approdo di ogni Grand Tour per la formazione umana e umanistica dell’uomo di cultura europeo fino al XX secolo.

Ma non è Goethe il punto di riferimento di Hans Christian Andersen, che esattamente centottanta anni fa, nell’ottobre del 1833, un anno dopo la morte di Goethe, approda a Roma. Andersen nella più romantica vena della Corinne di Madame de Staël cerca  un’ispirazione più feconda. Come la scrittrice francese, trasgredisce la regola del diario di viaggio, e si proietta in un personaggio d’invenzione, realizzando L’improvvisatore, il romanzo che gli diede la notorietà già prima del grande successo delle Fiabe. Chi ama i racconti di viaggio, e di viaggio a sud, non ne sarà deluso, forse preso dalla nostalgia di luoghi descritti con una precisione incantatoria. Il lettore incallito di fiabe ne sarà rapito. Il cuore sentimentale in cerca di storie melò troverà almeno tre storie del valore di un’opera e un paio di scene da operetta. Il pittore di genere in cerca d’ispirazione troverà materia tale che gli basterà mettere su tavolozza i colori e i paesaggi evocati con potenza di fantasia dalla penna dello scrittore viaggiatore. Persino il lettore di professione troverà sorprese interessanti dal punto di vista narratologico.

Andersen riscrive la sua vicenda personale di figlio emarginato di un calzolaio amante della poesia e del teatro e di una illetterata quanto angelica mamma lavandaia. Brutto, troppo alto, goffo, ambiguo nelle sue pulsioni sessuali, tardivo negli studi, sospetto di dislessia e stupidità, ma intimamente certo della sua stella luminosa grazie alla profezia di una maga. Lo seguiamo fuggire dal paesello di pescatori alla capitale Copenaghen, protetto per casi fortuiti da re in persona e importanti personalità della cultura danese, sempre segnato dalla consapevolezza della propria diversità, ma deciso a spiegare le ali di cigno liberandosi dell’infanzia da anatroccolo. Questa “fiaba della sua vita” Andersen la proietta in Antonio, un giovane orfano romano cresciuto in stamberghe nei pressi di Piazza Barberini. Scrive a un’amica di essersi “fatto” romano nella “novella” appena iniziata. A differenza di Goethe che scende a Sud per possederlo (“Roma è mia”), Andersen si fa possedere non solo dal genius loci ma anche dai personaggi incontrati nel suo viaggiare. La trama è nello stesso tempo quella di un “Romanzo dell’artista” che – va detto – trae a piene mani ispirazione proprio da Goethe e dal suo Wilhelm Meister: la fuga con la compagnia di attori, gli amori per donne misteriose e ambigue, ora sensuali ora “anime belle”, la trasgressione dell’autorità famigliare – in questo caso adottiva – che lo vorrebbe impegnato in professioni utili, il tentativo di vivere in libertà infine ricondotto a un disegno deciso da altri, al di sopra della sua testa, e persino la figura di una fanciulla cieca e struggente nella sua malinconia e bellezza che ricorda tanto la Mignon goethiana, ma riserva sorprese nel finale fiabesco del romanzo, che qui non riveleremo.

Al di là dei modelli, la vena originale di Andersen si ritrova proprio nel gioco di specchi che organizza per proiettare se stesso. È lui il giovane talento illetterato e ambizioso, Antonio, che dopo essere stato adottato da un “Sua Eccellenza” della famiglia Borghese (colpevole di omicidio colposo, si direbbe oggi, investe sua madre sotto le ruote della sua carrozza), non senza un certo sussiego viene introdotto alla cultura e alla società. Il giovane fugge di nascosto e il suo viaggio a Sud non è dalla Germania all’Italia, bensì da Roma a Napoli, traendo ispirazione da altri personaggi che rifrangono parti dell’Andersen adulto mescolate con tratti di Thorvaldsen e di altri artisti romani. La  sua “nascita a sud” avviene a Napoli, quando decide di calcare le scene del San Carlo e di entrare nei salotti-bene come “improvvisatore”. Scrive nella postfazione Riccardo Reim: “quello dell’improvvisazione poetica è un curioso fenomeno letterario italiano che coinvolge in un unicum gesto, espressione, parola, tono e timbro della voce. L’uditorio proponeva uno o più temi su cui il poeta avrebbe dovuto sviluppare la sua improvvisazione, e subito veniva letteralmente ‘catturato’ e chiamato a testimone di una vera e propria epifania della poesia”.

L’intero romanzo è, in questo senso, “improvvisazione”. Lo scrittore danese, “fattosi romano”, e assunto un ruolo teatrale tipicamente “italiano” (della famiglia dei diversi, dei precari, dei saltimbanchi) usa le trame dei suoi incontri sentimentali, delle frizioni sociali, del viaggio reale (preziose le descrizioni di Formia e Itri, delle campagne intorno a Napoli, dell’eruzione del Vesuvio, delle rocce tra Salerno e Capri, degli scavi di Pompei ed Ercolano). A ogni descrizione nella quale si riconosce la traccia dell’esperienza Andersen sovrappone un sapere botanico, a volte antiquario o di costume, che gli viene dalle stampe e dai quadri, ma anche dal suo album di schizzi tratto dall’archivio Andersen di Odense (sua città natale) ed elegantemente riportato nella nuova edizione italiana. Ma, ecco, in ogni luogo si apre una visione fiabesca. Nelle sue “improvvisazioni fiabesche”, storie nelle storie, non è mai chiaro se si tratti di sogno o realtà. Spesso le visioni hanno una spiegazione atmosferica o naturale, ma il dubbio che si tratti di magia non è mai fugato.

È un libro tutto da leggere, e non si sveleranno qui tutti gli arcani. Si rimanda solo, a titolo d’esempio, a uno strano naufragio, che salva il nostro protagonista da una sfida a duello a prezzo della morte dello sfidante, e della sua  morte apparente, e risurrezione miracolosa in una grotta magica che non è altro che la Grotta Azzurra. L’autore tiene a specificare che quella grotta – prima nota come inavvicinabile “Buca delle Streghe”, sarebbe stata scoperta solo “un anno dopo” la sua avventura. Salutiamo quindi il felice ritorno in libreria di questa sorprendente opera prima di Hans Christian Andersen, per i tipi di “elliot edizioni”, (già introvabile nell’edizione Bompiani del 1974), recuperata dal curatore Bruno Berni che rivede e aggiorna la traduzione di Alda Castagnoli Manghi (1917-2005), recando così anche un omaggio a una maestra della traduzione letteraria dal danese.

Camilla Miglio

Hans Christian Andersen, L’improvvisatore, a cura di Bruno Berni, traduzione e introduzione di Alda Castagnoli Manghi, postfazione di Riccardo Reim, Elliot edizioni, Roma 2013

dal “manifesto” e dal Porto di Toledo

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