Sibylle Lewitscharoff, Blumenberg

Nadia Centorbi

Già insignita di ragguardevoli premi letterari, Sibylle Lewitscharoff ha ottenuto nel 2013 il prestigioso Premio Büchner. L’autrice si segnala per la maliosa baldanza di un ductus narrativo che, pur schiettamente propenso al fantasioso, al paradossale e all’inverosimile, non intacca il reale, restituendone al lettore un’immagine potenziata dal filtro dell’immaginazione. Legittimo è pertanto l’accostamento tra la poetica dell’autrice e la tradizione del “realismo magico” di ascendenza romantica e neoromantica. Il funambolico processo che aveva impegnato l’autore romantico a decrittare ogni manifestazione della realtà fisica, onde restituire a essa un senso tanto più arcano quanto più religiosamente vicino al vero, sembra infatti trovare piena rispondenza nelle considerazioni di Lewitscharoff circa le possibilità ‘altre’ del labor scrittorio, che nella fantasia, nel mito, nella favola, troverebbe la sua più autentica dimensione. Corroborata da una solida cultura letteraria, filosofica e teologica (alle scienze religiose dedica gli anni dello studio universitario a Berlino), Lewitscharoff, nata a Stoccarda nel 1954, si affaccia al panorama letterario tedesco sul finire degli anni ’90. Se la prosa rappresenta il genere prediletto dell’autrice, che conta al suo attivo sette romanzi, anche sul versante della saggistica si è dimostrata non meno produttiva; da non sottovalutare, inoltre, la sua apertura al genere drammatico, inaugurato con la messa in scena di Vor dem Gericht (Davanti alla legge), un dramma di ispirazione kafkiana, andato in scena nel 2012. Dopo Apostoloff (Roma 2012), Del Vecchio pubblica ora l’ultimo romanzo di Lewitscharoff, nella splendida traduzione di Paola Del Zoppo.

Che cosa sarebbe successo se Hans Blumenberg (1920-1996), il sopraffino interprete di miti e allegorie, il sostenitore di quella dimensione della filosofia, la metaforologia, in cui il non-concettuale convive fianco a fianco con il concettuale, si fosse imbattuto in una sconcertante materializzazione dell’allegorico? Il leone che scorta Blumenberg dall’inizio alla fine del romanzo altro non è, infatti, che una grandiosa allegoria agganciata ad una tradizione millenaria. Non a caso, il romanzo è posteriore alla pubblicazione in Germania di un volumetto (Hans Blumenberg, Löwen, Suhrkamp 2001) con alcune carte inedite dal lascito del filosofo incentrate sulla simbologia del leone nella cultura occidentale. Dalla predilezione di Blumenberg per l’allegoria leonina e dal paradossale incontro ravvicinato con la sua materializzazione prende l’abbrivio il romanzo di Lewitscharoff, che si rivela non già una rivisitazione degli ultimi anni della biografia del filosofo, bensì uno straordinario intarsio di realtà e allucinazione, elezione e demonismo, contingenza e sublimazione. A dettare il movimento del tessuto narrativo non sono solo le speculazioni filosofiche e religiose innescate dall’epifania leonina, e forse neppure le tormentate vicende che scandiscono il destino dei quattro studenti del professore, bensì la prorompente energia consolatoria emanata dall’allegoria stessa.

Lewitscharoff ha sovente sottolineato l’importanza per la sua scrittura di un motivo propulsore che metta in moto la narrazione. Con Blumenberg si ha presto agio di appurare che il motivo catalizzatore stia tutto nell’incipit. È notte fonda quando il filosofo, intento ai suoi studi, alza gli occhi dalla scrivania e scopre disteso sul tappeto del suo studio un maestoso leone: «Blumenberg aveva appena preso in mano un nuovo nastro per inserirlo nel registratore, quand’ecco che alzò lo sguardo e lo vide – grande, giallo, e respirava; non sussisteva alcun dubbio: un leone». L’esperienza innesca l’intero impianto narrativo, stimolando il filosofo a intense speculazioni sul valore simbolico dell’animale e sul ruolo consolatorio del mito, intrecciandosi oscuramente con il destino di altri cinque personaggi (quattro studenti del filosofo e una suora) che in vario modo sembrano subire la potente energia indotta dall’irrompere del leone nella vita del professore.

Perché un leone che nella tradizione biblica scorta santi e asceti dovrebbe ora apparire sul tappeto dello studio di un professore universitario? Blumenberg non ha alcun dubbio sulla contingenza del leone, ravvisando nella sua comparsa il manifestarsi di una longa manus che ha voluto accordargli un segno d’elezione. Benché agnostico, Blumenberg è profondamente affascinato dall’arsenale delle metafore bibliche e non tarda a rinvenire nella teologia cristiana i precedenti al suo caso. Si potrebbe pensare alla scena in cui lo spirito della terra si presentava a Faust nello studiolo notturno disilludendolo sulle possibilità di accedere al senso più profondo delle cose, ma incerto è per Lewitscharoff il demonismo del leone, che si rivela ma non svela, limitandosi ad ammiccare ambiguamente, digrignando i denti in un ghigno beffardo. Più consistente invece risulta il richiamo a San Girolamo, immortalato da Dürer e Antonello da Messina nell’atto di tradurre la Bibbia con un leone ai piedi che ne scorta il lavoro. Se la secolarizzazione moderna ha allontanato l’uomo copernicano dal mito prefilosofico e dal mondo dell’intuizione piena, il leone e la sua indiscutibile contingenza acquista un potente valore consolatorio, l’unico in grado di riscattare non solo il destino individuale del filosofo Blumenberg (segnato dall’orrore dell’olocausto), ma anche quello dell’umanità allontanatasi dal senso allegorico delle cose.

Nadia Centorbi

 Sibylle Lewitscharoff, Blumenberg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2011, trad. it. di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Roma 2013, pp. 240.

da: L’Indice dei libri del mese, novembre 2013.

This entry was posted in Recensioni and tagged , , , , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *