Davide non può decapitare Golia

[Osserviamo l’immagine: un uomo, un padre, chino ma non vinto su carte processuali che condannano, senz’appello, il figlio come terrorista. Un ex preside in pensione che conduce – con dignità e perseveranza – la propria battaglia (per molti oramai persa) per ristabilire la verità dei fatti e quello Stato di diritto in cui ha vissuto per decenni e per il quale ha giurato. Affiancato da un giovane avvocato e da una moglie solo in apparenza ombra il Professor Zureck rinfocola i propri dubbi e si chiede qual è, citando Montale, l’anello che non tiene in tutta l’intricata vicenda che ha portato alla morte del figlio? Su questo nucleo narrativo si sviluppano le pagine di In seiner frühen Kindheit ein Garten (Nella sua infanzia, un giardino, 2005) romanzo di Christoph Hein – traduzione italiana di Maria Anna Massimello presso le edizioni e/o – a cui la rivista Paginauno ha dedicato, nel numero 6, una approfondita lettura che volentieri ripropongo perché occasione per tornare a confrontarci su un tema, se vogliamo, ancora attuale: Davide VS Golia. C.M.]

Luciana Viarengo

L’indignazione e il senso di impotenza che ci colgono davanti ai cosiddetti ‘misteri’ nazionali, non possono essere neppure lontanamente paragonabili ai sentimenti, certamente ben più devastanti, che ciascuno di noi proverebbe se direttamente toccato dal dramma. Eppure Christoph Hein, uno fra gli scrittori più seguiti e apprezzati della ex DDR, non ne approfitta, smorza i toni, lasciando che sia l’accanimento dell’agire a dare enfasi al sentimento di impotenza del singolo di fronte al Sistema.

L’accusa più banale e inconsistente che si possa muovere a Nella sua infanzia, un giardino – ma alla sua uscita in Germania qualcuno ci ha provato – è quella di giustificazionismo. A prestare il fianco a questa accusa contribuisce soprattutto la vicenda reale al quale Hein si è ispirato: la morte mai chiarita di un membro della RAF, durante uno scontro a fuoco con la polizia tedesca nel 1993, uno fra gli ultimi episodi terroristici dell’organizzazione armata.

Oliver Zureck, come ricorda un personaggio minore del libro, nutre fin da bambino un grande amore per la verità e un irrinunciabile senso di giustizia, ma anche molta, troppa impazienza verso un mondo imperfetto. La scelta di cambiare ciò che non va non ha per lui altre possibilità di attuazione se non l’impegno politico sempre più estremo. Ma non a questo cammino si assiste, sebbene nel corso della storia risulti indispensabile ripercorrerlo per comprenderne le motivazioni.

I binomi giustizia/legge, cittadino/Stato, singolo/comunità che si intrecciano a costituire il ‘sovramondo’ di questa vicenda trattata da Hein da un punto di vista molto intimo e personale – quello del padre della vittima – mostrano chiaramente come l’intento dell’autore fosse ben altro.

Oliver è morto ormai da cinque anni e Richard Zureck, suo padre, stimatissimo ex preside di liceo in una cittadina dell’Assia, non si rassegna alla definizione di terrorista omicida/suicida che ha accompagnato il verdetto di colpevolezza per suo figlio. Nonostante non ne abbia mai condiviso l’orientamento politico e le scelte di vita che questo stesso orientamento ha comportato, Richard non può smettere di interrogarsi e interrogare, di analizzare incessantemente fatti, prove, testimonianze con le quali condurre le sue battaglie legali. È attraverso questa lotta quotidiana che la vicenda pubblica e familiare viene raccontata al lettore.

Hein non ci fa mancare nulla: l’accanimento feroce dei media, le prese di posizione dei politici, la reticenza delle istituzioni, la dissonanza fra la ricostruzione ufficiale degli eventi e la logica oggettiva e testimoniale, l’incoerenza delle dichiarazioni, la scomparsa delle prove, le dimissioni del ministro degli Interni e la sospensione del procuratore della Repubblica. In breve, il completo campionario che accompagna sempre gli eventi drammatici sui quali governa la ‘ragion di stato’.

Nell’andamento lento e pacato della narrazione, a tratti quasi meticolosa nel descrivere le azioni di Richard, il percorso psicologico e ideologico di questo uomo dai valori quasi ottocenteschi appare, per contrasto, ancora più eclatante. Come l’impercettibile rosicchiare di un tarlo, pagina dopo pagina, il lettore capta il lento ma inesorabile sgretolarsi di tutte le più ferme e fiduciose convinzioni nella giustizia, nella fedeltà allo Stato, nell’integrità delle istituzioni, che fino ad allora avevano costituito le basi della vita sociale di Richard Zureck, oltre che i fondamenti della sua opera didattica.

Ogni atto intrapreso da Richard per appropriarsi della verità come unico viatico per la giustizia, si traduce in un momento di rottura dei suoi equilibri e quindi in un passo che lo avvicina al cambiamento. “Ho vissuto per decenni in un paese di cui evidentemente non ho mai capito un bel niente. Per una vita intera ho insegnato ai miei studenti cose del tutto insensate. Cose che in questo paese non possono proprio servire a nulla. Li ho preparati a vivere in una società che esisteva solo nella mia testa. Non ho capito niente. Sono un idiota, Friedericke, un vero idiota” dichiara alla moglie quando lo scricchiolio comincia a farsi più forte.

Allo stesso modo, Richard muta lentamente il modo di vedere il proprio nucleo familiare, la moglie e gli altri suoi due figli, lo tormenta il dubbio di aver sbagliato qualcosa nei loro confronti, in particolare con Oliver. Ma sono proprio queste incertezze e il doloroso senso di impotenza che ne deriva ad alimentare la sua volontà di capire e di ricevere giustizia da una comunità che ha accettato e condiviso il verdetto nonostante le incongruenze, e da una Legge che sembra tutelare solo lo Stato.

Richard continua a lottare con gli unici mezzi che il sistema giudiziario gli mette a disposizione, ma nel frattempo la metamorfosi continua, fino al punto di interrogarsi su quale sarebbe stata la sua scelta se anziché settantadue anni ne avesse avuti ventidue, se anche lui non sarebbe potuto essere “uno di quegli stupidi giovani che nutrono la sciocca fiducia di poter combattere lo Stato”.

Di pari passo con il cambiamento ideologico cresce la noncuranza per le opinioni della gente, una volta tanto importanti per Richard, un cambiamento ben rappresentato dal delicato incontro con una ex amante e dalla frase finale del romanzo rivolta alla moglie Friederike, o più semplicemente Rike, figura solo in apparenza più evanescente, in realtà ben definita e distinta dal marito e costantemente presente al suo fianco, in un forte legame intimo e sodale immediatamente percepibile, e proprio per questo indispensabile alla realizzazione del suo percorso.

Il vero contraltare familiare è costituito dalla figlia e dal genero, rigidi, integrati, assolutamente irremovibili sulla distanza ideologica e persino affettiva che li separa dalla vicenda, senza che questo, tuttavia, possa far recedere il padre dalle proprie decisioni. La sua ricerca continuerà finché il cammino percorso da suo figlio non gli sarà chiaro e ancor più chiara la certezza che non sia stata resa giustizia.

Non nutre la sciocca fiducia di poter combattere lo Stato, Richard Zureck, ma una risposta allo Stato la dà comunque e proprio là dove per tanti anni ne è stato il fedele servitore. In uno Stato di diritto ogni cittadino – anche il terrorista Oliver, caduto sui binari della stazione durante la fuga e giustiziato su quegli stessi binari con un colpo di pistola alla testa – dovrebbe poter contare sulla garanzia di un’indagine veritiera e di un verdetto equo. Ma qualcuno è meno cittadino degli altri, e non c’è niente di peggio per un uomo che crede fermamente nelle istituzioni che divenire consapevole di questo tradimento. Richard decide, in un modo diverso da quello scelto da Oliver e da lui mai condiviso, di sciogliere un patto nel quale uno dei contraenti, il più forte e potente, non rispetta le regole.

È un modo per continuare a restare fedeli a se stessi, per non lasciarsi depredare dei valori più profondi e importanti che un uomo possiede. Una risposta a chi questi valori dovrebbe difendere, e non tradire.

Luciana Viarengo

La presente recensione è tratta – per gentile concessione della rivista – dal numero 6, anno II, 2008, di Paginauno, fruibile on line su www.rivistapaginauno.it. L’immagine, via www.kulturfreak.de, rappresenta una scena della rappresentazione teatrale, liberamente ispirata alle vicende di In seiner frühen Kindheit ein Garten, andata in scena nel 2006 allo Schauspielhaus di Francoforte con la regia di Armin Petras.

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