Lo scandalo della verità: la Medea di Christa Wolf

Maria Callas nel film Medea di Pasolini – Immagine via: pasolini.net

Sabrina Campolongo

Christa Wolf inizia a scrivere i primi appunti su Medea nel 1990, all’indomani della caduta del muro di Berlino, e nel momento in cui si rende conto che il suo Paese, la DDR, “stava sparendo dalla Storia”. Non si può immaginare forma più totale di sconfitta, per uno Stato, della sua ‘sparizione’: la cancellazione non solo del suo nome, delle sue strutture politiche e amministrative a ogni livello, ma anche la negazione della sua storia, del suo percorso, delle sue forme di espressione artistica, intellettuale, scientifica. Niente di più lontano dal concetto di unificazione.

Nel matrimonio tra RFT e DDR è accaduto che, subito dopo il banchetto, la sposa dell’Est sia stata spogliata della dote, le sia stato intimato di rinnegare i genitori, di dimenticare la sua infanzia, scordare tutti i libri letti e gli amici, bruciare i vecchi abiti e indossarne di diversi, mangiare cose nuove, frequentare una nuova chiesa e il tutto cercando di dare il meno fastidio possibile. I vincitori hanno preteso che l’identità dei vinti venisse da loro stessi negata come una buccia vuota, spazzata via, distrutta, cancellata se possibile, altrimenti occultata – per sostituirla con una nuova pelle modellata sui valori occidentali del profitto e del consumo. Un atto non dissimile dalle vecchie dinamiche della colonizzazione.

La Wolf, in quanto intellettuale, subisce in prima persona questo trattamento. Già precedentemente biasimata in patria, da quanti la consideravano troppo critica verso la politica di regime, si ritrova a esserlo anche nella nuova patria, questa volta per non essere abbastanza critica verso il passato. Da sovversiva diventa reazionaria, una spia, addirittura (“hanno fatto di noi quello di cui avevano bisogno”, dirà la sua Medea) e gli effetti sulla sua vita restano gli stessi: diffidenza, isolamento, accuse. Non migliore sorte tocca a molti altri cittadini e intellettuali dell’ex DDR, dopo l’ubriacatura collettiva della caduta del Muro: profughi a casa loro, diventano tedeschi di serie B, privati della voce, negati e dimenticati, quando non diffamati, nella Germania unita; a eccezione di quelli che si sono affrettati a rifarsi una verginità ideologica, rinnegando ogni riflessione e produzione autonoma precedente all’annessione, contribuendo così in modo attivo alla scomparsa politica, economica, culturale e simbolica della Germania dell’Est.

Dalle retrovie in cui si trova relegata, la Wolf si interroga sui corsi e ricorsi della Storia. La cancellazione della cultura dei vinti e la riscrittura della loro esistenza da parte dei vincitori non è un’invenzione recente, ma un’operazione sistematica, che molto spesso ha avuto bisogno della creazione o della rielaborazione di un Mito. Se un modo per arrestare, o almeno denunciare questo processo, esiste, deve riconoscere la forza vitale della narrazione mitica, la sua necessità che non conosce declino, e cercare di decifrare i rapporti tra vero e falso all’interno del Mito; indagare sui bisogni e sugli interessi che hanno portato alla sua fabbricazione. Per chi vede nella scrittura un’arma, la ricerca non può che avvenire scrivendone.

Dal fondo di questo fiume sotterraneo, che continua a scorrere al di sotto di passato e presente, avvicinandoli, Christa Wolf sceglie di riportare alla luce il personaggio di Medea, protagonista e testimone scomodo di un’altra ‘sparizione dalla Storia’. L’attualità della figura è evidente: difficile immaginare scontro più impari di quello di una donna, disarmata e appartenente a una civiltà ‘barbara’ legata ai riti della madre terra, contro la ben organizzata, ricca, razionale e patriarcale società greca; e nell’antitesi esistente tra l’origine etimologica del nome, Medea, e l’omonimo personaggio descritto da Euripide nella sua famosa tragedia, la Wolf scorge la conferma della dolosa costruzione di una solenne impostura. “Fin dall’inizio pensavo che Medea fosse troppo legata alla vita per aver voluto uccidere i propri figli. Non potevo credere che una guaritrice, un’esperta di magia, originata da antichissimi strati del mito, dai tempi in cui i figli erano il bene supremo di una tribù, doveva uccidere i propri figli” (1).

Medea (cioè ‘colei che prepara un progetto’, che i latini sentivano però assonante con la parola medicus, ‘colei che guarisce’), principessa di Colchide, nella versione di Euripide si innamora così follemente dell’argonauta Giasone che lo aiuta a rubare il vello d’oro al proprio padre, ingannandolo e arrivando a fare a pezzi il giovane fratello per garantirsi la fuga. Trapiantata nella ricca Corinto, dove ha seguito il suo amato, a cui ha dato due figli, la barbara di Colchide viene messa da parte dall’ambizioso Giasone, che accetta di ripudiarla per sposare la figlia del re Creonte. Medea, furiosa, non solo uccide la rivale attraverso un maleficio, ma, intollerabile orrore, ammazza i suoi stessi figli, pur di fare terra bruciata attorno all’uomo che l’ha abbandonata e oltraggiata. Grazie a Euripide, Medea è stata così, per secoli, l’incarnazione della vendetta, dell’irrazionalità, dell’istinto ferino della donna tradita. Eppure, questo lascia una prima questione irrisolta: come si concilia la figura della donna dai saggi pensieri, che prevede e provvede, con l’infanticida?

La conferma della bontà della propria intuizione arriva alla Wolf dai risultati di ricerche condotte da alcune studiose sulle fonti del mito antecedenti la tragedia di Euripide, secondo cui non solo Medea non avrebbe ucciso i propri figli, ma avrebbe tentato di salvarli, portandoli al santuario di Era, prima di essere costretta all’esilio. “Infatti, che Euripide avesse manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto – colpevoli di aver massacrato i figli di Medea – emerge anche dalla storiografia antica, onorario compreso: quindici talenti d’argento, ricorda Robert Graves, sarebbero stati versati al drammaturgo per questa storia di disinvolta cosmesi di Stato, utile per presentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dioniso” (2).

Quindici talenti, dunque, per riscrivere il Mito, per assolvere i Corinzi e giustificare la montagna di odio e di orrore destinati a rimanere legati al nome di Medea per secoli e secoli. Eppure, aprendo una breve parentesi, si deve dire che, da questo punto di vista, Euripide non si guadagnò fino in fondo l’onorario. Nonostante l’enormità dei crimini ascritti a Medea, il suo mito continua ad affascinare per l’orgoglio, per il suo essere indomita, e a sorprendere per la modernità delle istanze femministe di cui si fa portatrice. Come se, nonostante i migliori intenti di dipingerla come un essere in balia dell’istinto e dell’irrazionalità, Euripide abbia alla fine ceduto al suo fascino, tanto da lasciarsi ‘sfuggire’ riflessioni che assomigliano pericolosamente a una denuncia dello stato di soggezione della donna: “Di quanti esseri al mondo hanno anima e mente, noi donne siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro, comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due mali il peggiore. […] Quando poi l’uomo di stare coi suoi di casa si annoia, allora va fuori e le noie se le fa passare; ma noi donne a quella sola persona dobbiamo guardare. Dicono anche che noi donne vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della guerra. Ragionamento insensato. Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché partorire una sola” (3).

Ma questo non può bastare a un’intellettuale come Christa Wolf. Non le bastano le pur sacrosante lamentele della Medea euripidea per accettare che passi alla coscienza letteraria come un’infanticida. Il bisogno di fare giustizia la spinge a cercare una risposta alla questione fondamentale: perché tanto odio? La risposta non può essere univoca, non ci può essere una e una sola ragione per cui un popolo identifichi il suo capro espiatorio in una donna. La paura, innanzitutto. Paura di Medea per quello che rappresenta solo andandosene in giro a testa alta, rifiutando di legarsi i capelli, continuando caparbiamente a opporre il suo sapere antico e magico alla presunta razionalità di Stato, ribellandosi a ogni tentativo di domarla: “Le donne dei Corinzi mi sembrano animali addomesticati, resi con cura mansueti.”

Ma Medea, oltre a rappresentare la donna selvaggia, consapevole del proprio potere, orgogliosa delle proprie abilità, decisa a guardare gli uomini negli occhi anche nei momenti in cui sono più fragili, è anche, indissolubilmente, portatrice dei valori della sua terra, la Colchide. La sua libertà intellettuale è anche il frutto di quella civiltà che i Corinzi vogliono continuare a chiamare ‘barbara’, una civiltà in cui le donne non si sognerebbero mai di far parlare gli uomini al posto loro, in cui il culto dei morti si applica alle anime e non ai cadaveri, in cui l’oro è solo un materiale adatto a confezionare ornamenti, e nessuno si sognerebbe mai di pensare che possa determinare il valore di un uomo. Medea non ha alcuna intenzione di spogliarsi di questi valori per indossare quelli della terra che l’ha accolta e non si preoccupa di mostrare nemmeno una sottomissione di facciata.

I Corinzi (ossessionati dalla brama dell’oro, con le loro donne mansuete a capo chino, i loro palazzi sontuosi e la loro ostentata felicità), sono disposti ad accettare i Colchi come profughi, sono disposti anche a trovarli affascinanti, purché non escano dai limiti loro assegnati, purché continuino a comportarsi da ‘annessi’. Nella loro magnanimità offrono ai nuovi venuti ben due strade: quella di preservare le loro superstizioni al chiuso, nell’invisibilità delle loro casupole di fango a ridosso delle mura, oppure quella di abbracciare totalmente la gloriosa cultura greca. Gli uomini di potere di Corinto sanno bene che qualunque atto di ribellione a questa resa rischierebbe di turbare il nuovo ordine imposto ai Colchi, nonché scuotere le coscienze addormentate dei Corinzi, concentrati nell’accumulare abbastanza oro per arrivare – o per mantenersi – tra i privilegiati che possono approfittare dell’abbondanza. Ecco perché il rifiuto di piegare il capo, opposto da Medea, deve essere solennemente punito.

Una paura, quella del confronto tra i due popoli, che rivela la consapevolezza della fragilità strutturale del Sistema. Nonostante la tronfia sicurezza di sé, la corte di Corinto sa che anche la più piccola fessura, anche il corpo fragile di una donna, può far crollare il palazzo, con tutti i suoi marmi e i suoi stucchi. “Si scandalizzavano [i Colchi] per la cocciutaggine di Eete, per l’inutile pompa della corte… Ah Aspirto, che cosa noi ignari consideravamo pompa! Da quando sto a Corinto so che cos’è la pompa, per la quale però qui nessuno sembra turbarsi, perfino i poveri che vivono nei villaggi e ai margini della città fanno un’espressione rapita quando parlano delle grandi feste a palazzo, per le quali sono costretti a fornire bestiame e cereali, e senza che di quelle feste riescano a carpire mai nemmeno il riflesso. Noi in Colchide eravamo vivificati dalle antichissime leggende secondo le quali il nostro paese era governato da regine e re giusti, abitato da persone che vivevano in armonia e tra le quali la proprietà era distribuita così equamente che nessuno invidiava l’altro… quell’ideale stava così tangibilmente davanti agli occhi che lo prendevamo a misura della nostra vita”.

Il rifiuto a piegare la testa di Medea (il rifiuto di Christa Wolf di ritrattare il suo impegno e le sue convinzioni, la sua volontà di ricordare e di interrogarsi sul passato, sul valore dell’ideologia comunista e sugli errori politici che hanno provocato la sua caduta, il suo rifiuto di gettarsi, come in molti avevano fatto, tra le braccia dell’Occidente salvatore) è uno dei motivi che la identificano come perfetto capro espiatorio per i Corinzi, mentre il suo altrettanto ostinato rifiuto di seppellirsi nella dimensione nostalgica, nella celebrazione acritica della sua Colchide (come Christa Wolf, che aveva ‘osato’, in passato, puntare il dito verso gli errori del governo della DDR, tanto da rendersi persona sospetta), la rendono nemica agli occhi di gran parte degli altri esuli.

Ma, a condannare definitivamente Medea, non è tanto la sua estraneità ammantata di mistero e di potenziali oscuri pericoli, quanto il suo bisogno di chiarezza e di verità. A Corinto, infatti, Medea percepisce la stonatura, si rende conto che un sistema totalmente impostato sull’apparenza non può che reggersi su un terribile segreto. E, seppure consapevole del fatto che il percorso di verità è sempre un viaggio in territori bui e franosi, seppure sappia che laggiù l’attendono dolore e rischio per se stessa, Medea non si può fermare. Non desidera conoscere la verità per farne uno strumento di potere personale, per ricattare o per intimidire, come teme Acamante (l’uomo di corte, il funzionario dello Stato), ma, al contrario, per contribuire alla formazione della coscienza, perché “ciò che non è stato elaborato, pensato, espresso, espiato e capito genera continuamente il male” (4).

Scopre così, guidata dall’istinto, dalla sua seconda vista, che “il magnifico luminoso palazzo del re Creonte [è] edificato ancora una volta specularmente sopra l’abisso”, che “la città ha fondamento sopra un misfatto” (l’omicidio della giovane Ifinoe, figlia di re Creonte, per ordine dello stesso re). Allo stesso tempo, la drammatica scoperta riapre la ferita mai rimarginata della vera ragione che l’ha indotta ad abbandonare la Colchide. Non l’innamoramento per Giasone, bensì la rabbia e il dolore per il barbaro assassinio del fratello Aspirto, perpetrato per decisione del re padre, simile negli intenti all’assassinio di Ifinoe: un sacrificio umano, necessario per la conservazione del potere, messo a rischio dalla stessa Medea (che aveva sposato la causa dei giovani, aiutandoli, con la collaborazione della madre-regina). Un dolore reso più amaro dal senso di colpa per non aver capito in tempo, per avere sottovalutato il pericolo di dare lo scacco al re, per non aver immaginato quanto sarebbe stata violenta la sua reazione. “[…] Se la tua morte terribile mi ha insegnato qualcosa, fratello, questa è che noi non possiamo procedere a nostro piacimento con i frammenti del passato, comporli o separarli con violenza a seconda della convenienza. Per non aver impedito questo, per averlo anzi favorito, ho contribuito alla tua morte”. Questa consapevolezza, ribadita ancor più duramente, in un altro momento, con l’affermazione amara: “Anche colui che schernisce il grande ingranaggio ha in esso la sua parte”, impedisce a Medea di assolversi.

È evidente che, in una società che si fonda sull’ipocrisia, la sua lucidità e la sua onestà intellettuale non possono che nuocerle. In una tribù in cui tutti vanno fieri della loro arrogante innocenza, riconoscersi una parte di responsabilità equivale a salire spontaneamente sull’altare sacrificale. Ed è questo il destino che – forse non del tutto consape volmente, forse coltivando ancora, fino alla fine, qualche illusione – Medea disegna per sé e per i suoi figli. I Corinzi non permettono che si metta in dubbio il loro diritto alla felicità, la loro innocenza. Medea diventa vistoso monito del grande rimosso collettivo, un marchio da cancellare, un ostacolo da eliminare, per poter continuare a vivere nel gioioso oblio. Ma la cacciata di Medea e l’omicidio dei suoi figli non risolvono. Sono, anzi, altre colpe sulla coscienza collettiva, altri delitti che bisogna cancellare, per tornare ad andare fieri della propria legittima felicità. A questo provvedono gli abili truccatori di Stato come Euripide, pronti a riconfezionare vecchi miti, per quindici talenti.

Ma non c’è solo questo, nell’amarissimo finale. “In quale luogo, io? È pensabile un mondo, un tempo in cui io possa stare bene? Qui non c’è nessuno a cui lo possa chiedere. E questa è la risposta”. La risposta è solitudine. Nessun Dio, nessun uomo, nessun ideale a cui fare appello. Chi “rivendica lo scandalo della ragione” (5) non trova posto, non ha un tempo, chi non si piega al compromesso, chi non si copre gli occhi, chi non si morde la lingua non viene ammesso in nessun rango, non è funzionale a nessun modello. La solitudine di Medea è la vittoria della menzogna. Ed è a questo che si ribella l’intellettuale Wolf. Prima che portatrice di istanze femministe, la sua Medea è portatrice di verità. E l’epilogo del romanzo si salda al prologo, come un’esortazione, come una necessità: “[…] Dobbiamo arrischiarci a penetrare nel cuore del nostro misconoscerla e misconoscerci, andare e basta, insieme, l’uno dietro l’altra, nell’orecchio il fragore delle pareti che crollano. […] Pronunciamo un nome e, poiché le pareti sono porose, entriamo nel tempo di lei”.

Sabrina Campolongo

(1) Anna Chiarloni in Postfazione di Medea. Voci, Christa Wolf, Roma, Edizioni e/o 1996.
(2) ivi
(3) Medea, Euripide, traduz. di M. Valgimigli, Bur, 1982, vv. 230-251
(4) Un giorno all’anno. 1960-2000, Christa Wolf, Edizioni e/o
(5) Anna Chiarloni in Postfazione, op. cit.

Tratto da Paginauno, n. 18, giugno-settembre 2010

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