Man for a Day – Perspektive 4

Man for a day – Perspektive 4                                                                             Matteo Galli

Frequentando i cinema berlinesi nel mese di agosto si ha l’impressione che la quota di mercato dei documentari in Germania sia enorme. Un’impressione giusta e sbagliata al tempo stesso. Giusta perché a Berlino si possono davvero vedere moltissimi documentari durante tutto l’anno, e perché ci sono cinema off che hanno in programmazione quasi esclusivamente documentari. Sbagliata perché è agosto; e anche in Germania, seppur in misura inferiore rispetto all’Italia, siamo in bassa stagione, escono poche cose, alcuni, diciamo così, fondi di magazzino delle case di produzione, pensando che gli spettatori – come succede in Italia – privilegino le arene estive dove andarsi a rivedere classici oppure i film della passata stagione, sempre che il clima lo consenta, evidentemente, e a Berlino non lo consente spesso. E l’impressione è sbagliata o quanto meno strabica anche perché la varietà dell’offerta cinematografica e, segnatamente, la cospicua quota di mercato riservata al documentario è un fenomeno tipico delle grandi metropoli Parigi, Londra, New York. E appunto Berlino. Uno dei cinema off più importanti specializzati (non solo) in documentari si chiama “Eiszeit”, si trova a Kreuzberg, ed è uno di quei tipici cinema berlinesi che si aprono sul secondo o addirittura sul terzo “Hinterhof” e sono al primo, al secondo, al terzo piano. Originariamente collocato in una casa occupata di Schöneberg lo “Eiszeit”, fondato negli anni ’80, è una meravigliosa “time capsule”, mantiene invariata tutta l’allure della Kreuzberg alternativa e multietnica. Da oggi e per una settimana allo “Eiszeit” avrà luogo un festival del cinema documentario.

Qualcuno di voi conosce Diane Torr? Io non la conoscevo. E’ una famosa e controversa performer, attivista del movimento femminista newyorkese, ormai ultra-sessantenne, specializzata in memorabili azioni sceniche, workshop incentrati sul tema dell’identità sessuale, su YouTube è possibile farsene un’idea. Nel settore è una figura di culto, anche in Italia, come ho appreso leggendo qua e là. Nel 2010 ha tenuto uno dei suoi workshop itineranti a Berlino e la regista Katharina Peters lo ha ripreso lavorando a stretto contatto con alcune delle partecipanti al progetto, seguendole anche nella vita privata e nel periodo successivo alla conclusione del workshop. Non proprio quella che in gergo si chiama una “Langzeitstudie” ma comunque un progetto di gittata maggiore rispetto a quella della semplice durata dello workshop. La regista peraltro non è nuova ad esperimenti del genere: il suo film precedente intitolato Am seidenen Faden racconta lungo un arco di sei anni la convivenza con il proprio compagno colpito da un ictus.

Come recita anche il titolo del documentario (Man for a day), lo workshop di Diane Torr consiste nel “trasformare” le donne che vi partecipano in uomini, sia pure solo per un giorno o comunque per la durata dello workshop Una trasformazione che parte dalla scelta di un abbigliamento maschile, dal “trucco” (barba, baffi, imbottiture inguinali) che prosegue con i gesti, il linguaggio del corpo, situandosi poi e agendosi – quanto meno nei giorni dell’esperimento – anche nella vita privata (in famiglia, per strada etc.), con le partecipanti che provano a mantenere anche al di fuori del setting la propria “nuova” identità di genere. Il film documenta in modo piuttosto meccanico queste varie fasi con selezionati affondi nelle biografie di alcune partecipanti: giovani proletarie della banlieue berlinese, un’addetta all’ufficio stampa dei “Grünen”, una lavoratrice extra-comunitaria, una madre di famiglia, una donna di origine israeliana. Il tutto intervallato da storico materiale, filmico e fotografico, prelevato dall’archivio artistico della performer ma anche da quello privato (home movies che la riprendono incinta oppure giovane madre) e dalle dichiarazioni, dalle riflessioni della Torr su questo complesso problematico che fungono da guida alle varie fasi del progetto. Dichiarazioni e riflessioni che mi sono parse clamorosamente datate oltreché pesantemente arbitrarie. In sostanza il gioco con l’identità e la trasformazione avvengono sulla base di un’idea pregiudiziale del maschile talmente elementare, talmente rozza che forse può funzionare nella provincia americana, presso certo sottoproletariato tedesco ovvero presso frange di estremismo vetero-femminista ma che non appena ci si muove in ambienti non dico particolarmente colti e raffinati ma dotati di un minimo di capacità autoriflessive appare semplicemente ridicolo, primitivo. E il limite dell’operazione cinematografica compiuta dalla Peters consiste proprio in questa supina accettazione delle premesse ideologiche da cui parte la Torr. Fra l’altro, ancora una volta, siamo in presenza di una documentarista innamorata del proprio oggetto che in fase di montaggio ha dimenticato le forbici: 96 minuti, ma ne sarebbero bastati la metà.

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