Umanesimo militante

Thomas Mann (da Die Zeit)

Massimo Raffaeli

Thomas Mann scelse l’esilio il 27 febbraio del 1933, giorno dell’incendio appiccato al Reichstag dalle camicie brune, però mantenne un atteggiamento di riserbo o meglio di dissimulazione nei riguardi del regime nazista fino al ’36 (lui che aveva bollato dieci anni prima i Protocolli dei savi di Sion come “un parto delirante dell’odio contro gli ebrei”), quando infine fu privato della cittadinanza tedesca. La leggenda che fosse un ebreo, peggio ancora un halbjude e infido sangue misto, era parte cospicua della taccia di letterato decadente, anzi criptobolscevico e antinazionale, con cui prima i militaristi dell’età guglielmina e poi i nazionalsocialisti ai tempi della Repubblica di Weimar avevano a cadenza tentato di sfregiarlo; un Lexicon antisemita già nel 1913 riporta quanto segue: “Il ritratto in acquaforte di Thomas Mann, opera di Max Oppenheimer per la casa editrice Cassirer, dice tutto: vi si individuano molto bene i tratti ebraici nel viso da meticcio.” Mann non era ebreo ma è vero che era ebrea la madre dei suoi figli, Katye Pringsheim, ebreo il suo editore e i suoi più prestigiosi estimatori, come è vero altrettanto che nell’ebraismo egli aveva sempre visto la quintessenza, la casella più mobile e viva della cultura europea, persino il suggello di ciò che avrebbe più tardi definito il proprio “umanesimo militante”. Ne è conferma ulteriore il volume Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica (a cura di Anna Ruchat, traduzione di Cristina Lombardo e Chiara Origlio, Mondadori) che riunisce e annota con puntualità una ventina di testi fra lettere, appelli, interventi giornalistici e saggistici, i quali doppiano, fra il 1893 e il 1948, praticamente tutta la parabola del grande maestro di Lubecca.

È semmai la mostruosa rivelazione della Shoah a dividerli in due, e a mutarne dopo il ’39 il senso e la destinazione. Quanto a questo, la posizione filosemita del primo Thomas Mann è quasi un’indiretta dichiarazione di poetica. Se infatti l’ultimo rampollo dei Buddenbrook, Tonio Kröger, e l’ambiguo valetudinario che abita La montagna incantata dicono la verità più spietata sulla borghesia, costoro la dicono in quanto borghesi traviati e dunque assimilabili ogni volta all’ex lege o comunque all’individuo non-conforme (cioè l’artista, il malato, il criminale, il pazzo, il rivoluzionario); ai suoi occhi essi sono tutti, almeno virtualmente, reincarnazioni dell’ Ebreo anche perché così ne scrive nel 1907: “Tutti i contrasti e le complessità della sua natura, pensiero libero e tendenze rivoluzionarie da una parte e perverso snobismo dall’altra, struggente desiderio di ‘assimilarsi’ a chi segue le regole e fierezza dell’emarginato, tenace senso di appartenenza e individualismo del rinnegato, impertinenza e insicurezza, cinismo e sentimentalismo, asprezza e malinconia e altro ancora, sono il risultato della sua eccezionalità; non ultima, la sua superiorità, tanto frequente da risultare irritante, nella competizione all’interno delle professioni a lui accessibili.”

Una riprova, giusto nella Montagna incantata, la fornisce il personaggio di Naphta, ex ebreo e rinnegato (fatalmente suicida), colui che abiura tanto dalla sua origine quanto dal suo destino divenendo un fanatico gesuita e un gelido fascista. (Al riguardo, è possibile rileggere la classica diagnosi di György Lukács in un libro eclissato da decenni ma di nuovo disponibile, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna – a cura di Andrea Casalegno, traduzione di Giorgio Dolfini, SE – specie nel primo dei tre saggi che vi si contengono, datato 1948 e intitolato, alla maniera di un emblema, proprio Alla ricerca del borghese: “Nella sua perfezione intellettuale, artistica e morale, continuamente compromessa ma sempre riscattata, Thomas Mann rappresenta l’incarnazione più alta delle forze progressive della borghesia tedesca […]; mentre la borghesia tedesca cadeva nell’estrema bassezza e guazzava nella sanguinosa palude della barbarie, quest’opera configurava l’immagine delle sue più alte possibilità, di un umanesimo tedesco radicalmente problematico ma profondamente vero e proteso verso l’avvenire”).

È perciò con l’esilio e con il profilarsi di quella che appunto Lukács definisce la sanguinosa palude della barbarie che Mann muta d’accento i suoi scritti sulla questione ebraica; si tratta di pagine più occasionali, spesso di pronto intervento alla BBC o sui fogli dell’emigrazione, animate da un senso di allarme e di sdegno che volentieri assume i tratti della requisitoria. Torna di continuo al tema prediletto dell’Ebreo quale fermento vitale della comunità, coscienza ironica di una borghesia che non sa né vuole riconoscerlo in sé stessa e per questo lo annienta; ma nel saggio Fratello Hitler (1939, titolo ora come allora temerario, fa qualcosa di più e infatti redige una psicoantropologia del carnefice, nella fattispecie un artista fallito (si direbbe qui un borghese non traviato ma del tutto adulterato, sordidamente abortito), come fosse il protagonista di un breve romanzo pedagogico dove un sinistro Incantatore, depositario della più ignobile magia, si trovi a rianimare e mortalmente sedurre una Bella Addormentata, la Germania. Qui Mann deve riconoscere ciò che mai avrebbe immaginato tanti anni prima scrivendo le Considerazioni di un impolitico, perché deve registrare gli effetti della “civilizzazione” finalmente deprivata di ogni “cultura”, constatare l’orrendo portato di una borghesia ridotta a plebe sanguinaria in quanto rigetta il suo medesimo alimento spirituale e cancella le sue uniche figure di legittimazione sociale sterminando senza mercè il non-conforme (l’ebreo, l’artista, il rivoluzionario). Scrive, accorato: “Voglio credere, anzi ne sono certo, che arriverà un tempo in cui l’arte incontrollata, l’arte come magìa nera e parto irresponsabile e stolto dell’istinto sarà altrettanto disprezzata, quanto in tempi umanamente miserabili come i nostri è oggetto di profonda ammirazione. L’arte se non è solo luce e spirito, non è neppure solo una brodaglia scura o cieco parto degli inferi tellurici, non è solo vita.”

Sappiamo dai diari e dalla corrispondenza che questi sono i giorni in cui Mann, accusando l’abbaglio dell’Incantatore, legge a contravveleno gli scritti del grande Disincantatore, Sigmund Freud, per cui Hitler gli appare ormai solo un Dioniso da mattatoio e da latrina, lo sconcio fratricida di Apollo; ma sono anche i giorni in cui lo scrittore guarda con dubbio e sgomento al suo stesso percorso, tanto che persino l’amatissimo Aschenbach della Morte a Venezia gli sembra deturpato “dall’indecente psicologismo del secolo”, quasi fosse la spia di “un nazionalsocialismo anticipato di vent’anni”. Distratto all’apparenza dalla faticosa redazione delle Storie di Giuseppe, nel verde claustrale di Princeton e a migliaia di chilometri dalle fosse di Buchenwald, lo spettro di Hitler gli si impone tuttavia con disgustosa intimità. È insieme un assillo, la prova del disonore, la paura di una eventuale complicità: ma è anche il punto d’avvio di Doktor Faustus, il suo ultimo grande romanzo.

Massimo Raffaeli

Thomas Mann, Fratello Hitler e altri scritti sulla questione ebraica, a cura di A. Ruchat, trad. C. Lombardo e C. Origlio, Mondadori, 2006

da: Alias, 4/III/2006, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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