Christa Wolf

Christa Wolf sull’Alexanderplatz dopo il suo discorso del 4 novembre 1989 (via taz)

[Con questo articolo di Paola Quadrelli apparso su PulpLibri nel settembre 2009 inauguriamo una serie di post dedicati a Christa Wolf, scomparsa il 1 dicembre scorso. Attraverso saggi, recensioni e ricordi editi e inediti ne ripercorreremo l’opera dal Cielo diviso alla Città degli angeli. M.S.]

Paola Quadrelli

Non vi è nulla di più desiderabile
che partecipare alle vere gioie
e alle vere sofferenze del proprio tempo
(Christa Wolf, Riflessioni su Christa T.)

In Leggere e scrivere (1968), un saggio centrale nel percorso poetico di Christa Wolf, l’autrice difende con parole intense e partecipi l’importanza della parola scritta e il ruolo decisivo che la lettura svolge per la formazione della soggettività e della coscienza individuale. La letteratura ci aiuta a confrontare, capire e giudicare, ci guida nel processo di conoscenza della realtà esterna e degli altri, ci insegna a prendere le misure, a delimitare i confini del nostro Io, ad acuire il senso del tempo, a incanalare le emozioni e ad affinare i sensi. Immaginiamo, scrive l’autrice, che “una forza, non meglio definibile, estingua con un colpo di bacchetta magica ogni traccia impressasi, mediante la lettura di libri di prosa, nel mio cervello”. Un mondo di non-lettori, prospettiva spaventosa e certo assurda (benché illuminante sotto il profilo teorico), equivarrebbe a dire un mondo di esseri rozzi e imbarbariti: dalla psiche individuale scomparirebbe la percezione della profondità storica, i sensi diverrebbero opachi, la coscienza sfocata, “perché io, senza libri, non sono io”, afferma perentoria la Wolf.

In questa accorata difesa della parola scritta si riconosce l’impronta umanistica e l’impegno etico che hanno segnato l’intera carriera letteraria della scrittrice tedesca (nata nel 1929) e che hanno contribuito a determinare il largo successo dei suoi libri presso una vasta schiera di lettori di tutto il mondo. Se la lettura è un’esperienza determinante per il rafforzamento dell’autocoscienza individuale, la scrittura mira a cogliere l’unicità dell’esperienza, a tener desta la memoria: scrivere, sostiene la Wolf nel saggio citato, è “nuotare contro corrente – contro la corrente apparentemente naturale dell’oblio”. Scrivere significa innanzitutto lavorare contro l’oblio che avvolge la memoria collettiva, ma significa pure disinnescare quei dispositivi autoassolutori, più o meno consci e attivi nella psiche di ciascuno, che opacizzano e distorcono le motivazioni profonde dell’agire individuale. Nel suo lavoro letterario e intellettuale, intrecciato a doppio filo con gli eventi della storia tedesca del Novecento, Christa Wolf ha indagato e rintracciato, anche sulla propria pelle e sempre con lucidità e franchezza, i meccanismi psicologici che operano nel rapporto tra la coscienza dell’individuo e le minacce o le lusinghe del potere, tra le aspirazioni di felicità e autorealizzazione del singolo e la necessità di adeguarsi alle aspettative sociali.

A vent’anni dal crollo del muro di Berlino, una rinnovata lettura dei libri di Christa Wolf (tutti disponibili in italiano presso e/o nelle ottime traduzioni di Anita Raja), può rivelarsi dunque istruttiva anche per delineare un quadro sfumato e differenziato del rapporto dei tedeschi con la colpa collettiva del nazismo, indagato esemplarmente dalla Wolf nel suo Trama d’infanzia (1976), e per affrontare con riacquisita serenità il legame, certo non privo di ambiguità e reticenze, eppure complesso e sottile, che ha legato gli intellettuali tedesco-orientali allo Stato socialista per più di quarant’anni. La permanenza nella DDR e il ruolo di intellettuale socialista e di massima scrittrice tedesco-orientale furono le armi brandite da una certa stampa tedesco-occidentale nei primi anni della riunificazione (1991-1992) per intentare una campagna diffamatoria contro la Wolf – cui fu ingiustamente e sommariamente affibbiato l’epiteto di “scrittrice di regime” – e, in generale, contro gli scrittori tedesco-orientali che avevano commesso la “colpa” di restare nel proprio Paese e di non emigrare nell’Occidente capitalista. Eppure, come ha osservato Anna Chiarloni, la massima studiosa italiana della Wolf, furono proprio gli scrittori che per molti anni si accollarono il compito difficile e ingrato di articolare la protesta nella DDR, di formare un’opinione pubblica in un paese in cui la stampa era controllata dal regime, di dare corpo a critiche, aspettative, speranze e frustrazioni di un popolo che non aveva modo di far sentire la propria voce.

La Wolf, pur non essendo certo mai stata una scrittrice “dissidente”, ha tuttavia seguito con spirito critico, sofferta partecipazione e crescente disillusione, l’evoluzione della società socialista nella Germania orientale e il decorso storico della DDR. Nella sua opera si colgono, infatti, riverberi più o meno diretti di tutti i grandi eventi storici, sociali e culturali che hanno segnato la storia della Germania socialista. I moti operai a Berlino est nel giugno 1953 e la sollevazione ungherese, ricordati in Riflessioni su Christa T., il Bitterfelder Weg, inaugurato nel 1959, che invitava gli scrittori a prender parte direttamente alla vita della “produzione” e sollecitava un legame più stretto tra intellighenzia e masse operaie, la costruzione del muro di Berlino, che fa da sfondo al celebre romanzo d’esordio, Il cielo diviso, la partecipazione della scrittrice al Plenum del comitato centrale del Partito nel 1965, che segna un primo scontro della Wolf con l’apparato burocratico e dà il via a una fase di irrigidimento e di repressione culturale, l’invasione dei carri armati a Praga nel 1968, l’espulsione del cantautore Wolf Biermann (1976), che marcò il punto di non ritorno nel rapporto tra intellettuali e potere, i moti dell’autunno 1989, il crollo del muro e la conseguente riunificazione delle Germanie: non vi è episodio nella storia della DDR cui la Wolf non abbia partecipato con coinvolgimento intellettuale e tensione emotiva.

Già ne Il cielo diviso (1963, pubblicato da e/o nel 1983 nella traduzione di Maria Teresa Mandalari), l’autrice, nonostante l’intento didascalico e certi schematismi ideologici, indicava le difficoltà e le contraddizioni in cui si dibatteva la giovane repubblica socialista ed additava la dissonanza tra gli slogan del regime e l’alienante realtà lavorativa delle fabbriche. Nella giovane Rita Seidel si preannunciava il modello della protagonista femminile di tutti i romanzi successivi: una donna sensibile e inquieta, intelligente e tenace, che affronta il mondo “a visiera alzata” (per usare un’espressione adottata a proposito di Vera, la protagonista del primo racconto della Wolf, Novella moscovita), mentre nella compresenza di due piani narrativi – il presente di Rita, che giace in un letto d’ospedale dopo il tentato suicidio, e i flash-back sull’infelice storia d’amore con Manfred, il chimico emigrato a Ovest – si profila l’abilità stilistica della Wolf, destinata ad affinarsi nei romanzi successivi.

La rinuncia a una trama narrativa lineare (“Una storia? Qualcosa di saldo e impugnabile come un vaso a due manici, da afferrare per bere?”, si chiedeva la scrittrice a metà degli anni sessanta con piglio ironico e provocatorio nelle prime righe di Pomeriggio di giugno), il rifiuto della fabula, il distacco dalla teoria del “rispecchiamento” adottata nel realismo socialista, sono gli elementi letterari che permettono di inserire a pieno titolo la Wolf nel novero degli scrittori che hanno fatto proprie le acquisizioni stilistiche della grande prosa novecentesca, da Musil a Proust a Joyce. La tormentata vicenda editoriale di Riflessioni su Christa T. (pubblicato in una prima tiratura ridotta nel 1968, fu poi riedito e reso di fatto accessibile solo nel 1974, mentre in Italia era uscito nel ’73 nella traduzione di Amina Pandolfi) riflette le perplessità e le resistenze ideologiche opposte dal regime a un romanzo assai innovativo sotto il profilo formale e tematico. Con la figura di Christa T., amica della narratrice, morta in giovane età di leucemia, la Wolf propone un personaggio non omologato e non omologabile ai modelli pedagogici della narrativa socialista e tratteggia al contempo, con tonalità dimessa e disincantata, gli anni di fondazione della DDR, gli slanci degli inizi, le speranze frustrate, le utopie disilluse.

Il confronto critico della Wolf con i miti fondatori della DDR prosegue nell’ampio romanzo autobiografico Kindheitsmuster (1976), in cui, attraverso la figura della bambina e poi adolescente Nelly, la Wolf traccia un profilo della propria infanzia durante gli anni del Nazionalsocialismo. Se il regime della Germania orientale aveva di fatto occultato e rimosso il tema del passato nazista, arrogandosi il ruolo di Paese denazificato e antifascista e delegando ogni continuità con il passato alla Germania federale, la Wolf mostra la complicità con il nazismo del tedesco comune, la sua naturale acquiescenza all’autorità, il servilismo e il desiderio di conformismo che conducono spontaneamente ad adeguarsi ai modelli prestabiliti dal potere. Il titolo Kindheitsmuster (tradotto in italiano con Trama d’infanzia) rimanda alla parola “Muster”, equivalente sotto il profilo semantico all’inglese pattern, ossia “modello”, “esempio”, “schema”. La Wolf, all’insegna della domanda “Come siamo diventati quello che oggi siamo?”, indaga dunque i modelli comportamentali acquisiti nell’infanzia che danno l’impronta al presente. Il veleno dell’odio e dell’intolleranza ideologica, l’educazione al conformismo e all’accettazione passiva dell’autorità sono i modelli educativi impartiti a ogni giovane tedesco durante gli anni del Nazismo: ricordare gli errori del passato, operare su di sé un’indagine spietata e dolorosa alla ricerca delle tracce incancellabili di quell’educazione distorta sono, secondo la Wolf, gli unici metodi per rendere il singolo individuo consapevole delle motivazioni che guidano le azioni quotidiane. Come sempre accade nella narrativa della Wolf, al piano del ricordo si intercalano i riferimenti al presente, ossia le riflessioni dell’autrice che nell’estate 1971, insieme alla figlia, al marito e al fratello Horst, compie un viaggio nella città natale, Landsberg an der Warthe (passata dopo la guerra in territorio polacco) e da qui trae idee e suggestioni per il romanzo nascente.

La seconda metà degli anni settanta, che coincide peraltro con gli anni più fecondi e creativi della carriera della Wolf, vede un’involuzione del rapporto tra intellettuali e sfera pubblica: gli scrittori percepiscono un senso opprimente di inutilità e frustrazione, che si acuisce in occasione della fallita protesta all’espulsione di Wolf Biermann (autunno 1976) e sfocia nell’ondata di emigrazioni all’Ovest che contrassegna il biennio 1976-1977. L’impossibilità di interloquire con un potere politico sempre più rigido e intollerante conduce molti intellettuali a rifugiarsi in una “microsfera sociale”, in una cerchia di amici e sodali con cui sperimentare, in forma più ristretta, quella condivisione di esperienze umane e intellettuali per le quali il regime si mostra ormai indifferente, quando non, addirittura, biecamente repressivo. Un gruppo di amici che trascorrono l’estate nelle case di campagna del Meclemburgo, tra gite, conversazioni, balli e feste, è appunto lo sfondo di Recita estiva, la cui gestazione si protrasse dal 1976 al 1988. Il romanzo, forse il capolavoro della scrittrice, fu pubblicato nell’1989 ed ebbe grande successo pure presso i lettori italiani: il tono elegiaco, di dolente commiato dalle grandi utopie del Novecento che connota Recita estiva ben si adattava anche al pubblico italiano di comunisti e rivoluzionari delusi del post-Ottantanove.

Speculare al circolo di intellettuali berlinesi, rifugiatisi nelle case di campagna del Meclemburgo, è il piccolo consesso di scrittori riuniti nella casa sul Reno del commerciante Merten attorno a cui ruota Nessun luogo. Da nessuna parte, il racconto incentrato sull’immaginario, benché non inverosimile, incontro tra Heinrich von Kleist e la scrittrice Karoline von Günderrode nel giugno 1804 e che si inserisce in una fase di recupero dell’eredità romantica condotta dalla Wolf e da altri scrittori tedesco-orientali negli anni settanta.

L’analogia tra il gruppo di amici presentati in Recita estiva e il sodalizio di Nessun luogo. Da nessuna parte è evidente: in entrambi i casi, si tratta di una generazione relegata dalla Storia e dal potere politico ai margini della società e condannata all’impotenza e all’inazione. Come precisa del resto l’autrice nella postilla a Recita estiva, le prime fasi redazionali del romanzo coincisero proprio con gli anni del lavoro al racconto di ambientazione primo-ottocentesca. A tal proposito è peraltro interessante rilevare che uno degli aspetti su cui si appuntò l’attenzione della Wolf nella sua ricerca sul Romanticismo, fu il versante sociale, l’esperimento esistenziale condotto da alcuni giovani intellettuali che in una situazione politicamente repressiva optarono per l’unica alternativa possibile: la riunione in piccoli gruppi ai margini della società borghese.

La Wolf, che concepisce la ricerca storica come continua interlocuzione con il tempo presente, individua nei giovani romantici una delle prime generazioni che visse in maniera lacerante l’impossibilità di trasporre concretamente sul piano dell’azione sociale e politica le progettualità elaborate a livello teorico: “Karoline [von Günderrode, NdR], Bettine [Brentano, sorella del poeta Clemens, NdR], discendenti come noi di una rivoluzione fallita”, osserva ancora la Wolf in un appunto del 1993. Le cause di questa impotenza ed emarginazione sono individuate non soltanto in un particolare contesto storico – la fase di restaurazione successiva al Congresso di Vienna – ma in una più ampia evoluzione economica che avvia le società occidentali su quel percorso di tecnocrazia, industrializzazione, divisione del lavoro e specializzazione che conduce inesorabilmente lo scrittore dinanzi a un’alternativa fatale: la scelta di adeguarsi alla società borghese, stigmatizzata nella figura tipicamente romantica del “filisteo”, o il ripiegamento in un’esistenza da outsider, che relega la letteratura al rango di attività ininfluente sulla politica e la società. L’interesse per la generazione romantica si traduce per la Wolf in una serie di lavori (racconti, saggi, edizioni) incentrati sulle donne del romanticismo: in esse la scrittrice riconosce le antesignane del lavoro intellettuale femminile e intravede la possibilità di un’intelligenza altra, di una naturalezza, di un’autenticità, di un sapere ancestrale del corpo e dei sentimenti che le rende istintivamente estranee ai meccanismi della violenza e del potere tipici delle società patriarcali e agli imperativi della produttività che soffocano le società occidentali.

Non è dunque un caso che la Wolf sia diventata una scrittrice di culto per i movimenti femministi europei e americani, almeno a partire dal racconto Cassandra (1983) che ha per protagonista “la prima figura femminile che entra nella storia svincolata da un rapporto di relazione con un uomo” (Wolf). In questo racconto, complesso e ambizioso, in cui la sacerdotessa di Apollo, giunta come schiava alle porte di Micene e prossima alla morte, rievoca la propria giovinezza e le vicende della guerra di Troia, la Wolf va alle ricerca di quell’“etica della violenza che si è insediata alle radici della coscienza occidentale” (Anna Chiarloni). Contestualmente al racconto la Wolf, sempre generosa con il pubblico dei lettori e prodiga di indicazioni preziose circa il suo lavoro narrativo, ha pubblicato le Premesse a Cassandra, il testo che trascrive le quattro, fortunate e affollatissime lezioni di poetica tenute a Francoforte nell’estate del 1982. Le lezioni ci raccontano anche del modo di lavorare della Wolf, del processo di formazione delle idee nella mente della scrittrice: in questo processo di nascita del pensiero, la consultazione di testi specialistici o la lettura di una poesia di Ingeborg Bachmann non sembrano essere meno importanti delle umili e banali azioni quotidiane (preparare un torta, raccogliere la frutta in giardino, ascoltare le notizie trasmesse dal telegiornale), a riprova di una concezione dell’uomo come essere “unitario”, in cui la sfera intellettuale e quella manuale, il pensiero e la sensibilità si compenetrano reciprocamente e concorrono a un unico fine.

La Wolf ha sempre prestato attenzione alla “consistenza reale della vita vissuta” e ha pertanto attribuito un grande ruolo alla scrittura diaristica: accanto a Un giorno all’anno. 1960-2000 (2003), che raccoglie le annotazioni diaristiche dedicate annualmente dalla Wolf alla giornata del 27 settembre, sono assimilabili alla scrittura diaristica anche Guasto (1987), cronaca della giornata dello scoppio della centrale nucleare di Cernobyl, e Che cosa resta (pubblicato nel 1990), un racconto che descrive una giornata dell’autunno del 1979, trascorsa dalla scrittrice tra incombenze quotidiane, un incontro con una giovane scrittrice perseguitata dal regime e una conferenza pubblica, sempre sotto l’occhiuta sorveglianza dei poliziotti della Stasi.

Ancora grande successo ottiene la scrittrice nel 1996 con la pubblicazione di Medea. Voci, un romanzo polifonico in cui la Wolf rigetta, su basi documentarie, la leggenda tramandataci da Euripide che vuole Medea assassina dei propri figli. Anche qui, come in Cassandra, la Wolf ritorna ai primordi della società occidentale, a quel grumo di violenza irrazionale e di odio per il diverso che insanguina la Storia. A tutt’oggi, l’ultimo romanzo della Wolf – che ha compiuto ottant’anni lo scorso mese di marzo – è In carne e ossa (2002), un resoconto della propria degenza in ospedale nel 1989 a seguito di un grave intervento chirurgico. La sofferenza fisica, la paura della morte, i pensieri che si affastellano confusi nel sonno e al risveglio dall’anestesia, le riflessioni su Urban, un amico di giovinezza della scrittrice, fidato funzionario del partito, di cui la Wolf apprende la notizia del suicidio proprio durante il ricovero in ospedale, il ricordo doloroso di un passato che appare ormai sfumare in lontananze mitiche: anche in questa ultima opera, la storia individuale e la Storia ufficiale, il presente e la memoria, la speranza e lo struggimento si intersecano in un flusso narrativo di grande abilità stilistica.

In una scena artistica e letteraria come quella attuale, contrassegnata da romanzi “furbetti”, opere scritte a tavolino, provocazioni ciniche e sciocche, “ibridazioni post-moderne” e stramberie velleitarie, l’appello wolfiano alla “fiducia nella ragione terrena” e la ricchezza umana ed etica della sua opera appaiono quanto mai necessari.

Paola Quadrelli

da PulpLibri, settembre-ottobre 2009, pp. 21-25

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