Micene: Porta dei leoni
Daniela Nelva
A costituire le Premesse a Cassandra sono quattro “lezioni di poetica” tenute da Christa Wolf nell’estate del 1982 presso l’Università di Francoforte. Proseguendo una consuetudine inaugurata nel 1959 da Ingeborg Bachmann e consistente nell’esposizione, da parte di un autore, del proprio modo di fare poesia, la Wolf illustra al suo pubblico, nella fattispecie, la genesi del racconto Cassandra, focalizzando le origini dell’interesse che l’ha condotta a confrontarsi con la tragica figura della sacerdotessa di Apollo nonché il significato che tale figura ha assunto per lei. Lungo una scrittura che alterna in successione impianto saggistico vero e proprio (prima e seconda lezione), forma diaristica (terza lezione) e struttura epistolare (ultima lezione), la Wolf rievoca i momenti, accompagnati dalla lettura dell’Orestea di Eschilo, di un viaggio in Grecia intrapreso due anni prima col marito Gerhard e ripercorre le fasi delle ricerche che hanno preceduto la stesura del racconto. Esse si erano indirizzate in particolare alla ricostruzione, per quanto possibile suffragata da fonti archeologiche e letterarie, del personaggio di Cassandra, nella sua fisionomia di donna e di veggente all’interno della società patrilineare troiana. Prezioso pendant a Cassandra, le Premesse illuminano la fucina creativa dell’autrice, ne individuano temi e motivi, residui non elaborati, ne ripercorrono il graduale plasmarsi dalla grezza materia magmatica delle impressioni e delle intuizioni.
A punteggiare l’esplicazione degli studi compiuti e delle riflessioni da essi suscitate sono sin da subito considerazioni che, stimolate dal lavoro in corso, si estendono alla realtà storica attuale, agli aspetti e ai modi della moderna civiltà occidentale, palesando come il mito possa funzionare a più livelli da chiave di lettura del presente. Così, se da un lato la vicenda di Cassandra è la traccia lungo la quale la Wolf dibatte nelle Premesse un certo modus operandi maschile fondato sull’emarginazione della donna, sulla sua esclusione dalla sfera della cultura e dell’agire pubblico, dall’altro il contesto storico in cui tale vicenda si inscrive, ovvero la guerra di Troia con la sua barbarie, diventa la filigrana attraverso la quale l’autrice discute le storture del mondo odierno. Siamo appunto nei primi anni Ottanta e a dominare la scena internazionale, nonostante la proclamata “distensione” tra i due blocchi, sono gli antagonismi della guerra fredda con la sua folle corsa agli armamenti nucleari, frutto aberrante di un mal compreso senso del progresso.
Quella della Wolf è una scrittura che si radica nella contemporaneità, e di tale radicamento sono emblema anche i risvolti editoriali dell’opera. La pubblicazione delle lezioni avviene quasi contemporaneamente – è il 1983 – nella Repubblica federale, dove esse hanno avuto luogo, e nella Repubblica democratica, dove la scrittrice vive. Il testo attraversa però, a est e a ovest, destini diversi. Nell’edizione apparsa nella Rdt presso Aufbau, le lezioni sono riunite, come d’altronde vuole il progetto originario concepito dall’autrice, in un unico volume insieme al racconto: Kassandra. Vier Vorlesungen. Eine Erzählung (Cassandra. Quattro lezioni. Un racconto). A ovest, Luchterhand, che pubblica l’opera, prevede invece, nonostante le riserve della Wolf, due edizioni distinte: Kassandra e Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra. Lo stesso assetto viene ripreso l’anno successivo dall’edizione italiana, con la traduzione e la cura di Anita Raja. Inoltre: nel volume apparso nella Rdt la terza lezione presenta in calce la dicitura «versione ridotta» e risulta priva di sessantacinque righe a stampa, ritenute dagli organi di censura troppo scottanti. Nei passi in questione, come vedremo, l’autrice equipara la politica degli armamenti perseguita dall’Unione Sovietica a quella condotta dagli Stati Uniti. Si tratta di «una vicenda editoriale paradigmatica» – scrive a tale proposito Anna Chiarloni nel suo volume Christa Wolf – in quanto «la parola viene condizionata a est da dispositivi ideologici, a ovest dalla legge di mercato» (Chiarloni, Christa Wolf, p. 119).
Proviamo a questo punto ad addentrarci nel testo delle Premesse. Casuale apparizione e progressiva costruzione di una figura letteraria: questo il titolo, significativo, della prima lezione (Premesse, p. 11). Sono infatti Tyche, ovvero il “caso”, e Moira, il “destino” a presiedere all’inaspettato incontro della Wolf con la figura di Cassandra. In attesa di un volo ritardato per Atene, meta quasi fortuita di un soggiorno turistico presso una coppia di amici, l’autrice inizia a leggere la tragedia di Eschilo. La storia della figlia di Priamo, re di Troia, è nota. Cassandra, veggente per dono di Apollo e da questi condannata, per averlo respinto, a non essere mai creduta, tenta invano di mettere in guardia il suo popolo circa il nefasto esito del conflitto con i greci, ammonendolo, in ultimo, a non introdurre all’interno delle mura il cavallo offerto, con astuto inganno, dagli achei in segno di resa. Caduta la città, sterminata la sua famiglia, Cassandra viene condotta da Agamennone, come bottino di guerra, alla reggia degli Atridi. Qui Eschilo la mostra, avvolta nel manto profetico, su un carro del vincitore.
L’adesione della Wolf a questa figura femminile apparentemente così lontana è immediata, “empatica” prima che “critica”: «La vidi subito. Lei, la prigioniera, mi imprigionò […] si impadronì di me. Credetti a ogni sua parola. […]. Tremila anni – dissolti» (p. 12). Seguendo le prime impressioni, l’autrice si inoltra nel testo dell’Orestea, ripercorrendone alcune battute: l’invocazione di Cassandra ad Apollo e la diffidenza degli anziani notabili del coro di fronte a quella supplica che suona loro tanto inopportuna; l’ultimo vaticinio circa l’assassinio di Agamennone per mano di Clitennestra, sotto la cui scure presto cadrà lei stessa, e la conseguente vendetta di Oreste. Tacitata dai vegliardi del coro, Cassandra si spoglia infine, forse con sollievo, della veste sacerdotale. Sono i tratti della consapevolezza di chi sa di non avere più alternative, di chi accetta, dolente ma dignitosa, la propria morte, che la Wolf scorge in lei. Libera dalla vocazione alla veggenza, che in passato l’ha esposta all’irrisione e all’isolamento, seppur non esonerata dalla capacità di “vedere” il futuro, ovvero di comprendere appieno il presente e la realtà che la circonda, Cassandra «deve ancora qualcosa a se stessa» (p. 16). Si tratta del dovere e del diritto alla testimonianza della propria esistenza e di quella altrui, alla narrazione di sé e del proprio vissuto, narrazione che costituisce il tessuto del racconto Cassandra, lungo e intenso monologo in cui si intrecciano, indissolubili, ricordo e riflessione. Perché, come si legge nelle Premesse, «raccontare è umano e dà luogo all’umano, alla memoria, alla partecipazione, alla comprensione» mentre «il dimenticato è senza consolazione» (pp. 43-44).
Insieme alle prime impressioni, emergono le prime domande: Chi era Cassandra prima che si scrivesse di lei, prima che la sua vicenda fosse ghermita nella griglia dell’epos classico? Per quale ragione ella ha scelto, diventando veggente, una professione maschile? E inoltre: la veggenza fu sempre appannaggio degli uomini? Seguendo l’incalzare degli interrogativi, la Wolf indaga nel mito e oltre il mito, tentando di restituire la storia della sacerdotessa di Apollo alle sue originarie, in parte certo “immaginarie”, coordinate sociali. All’interno di un mondo tutto al maschile, in cui le donne sono relegate accanto al focolare, Cassandra, vivace e ricca di interessi, si ribella e insiste per «imparare a fare qualcosa» (p. 113). Il ruolo di veggente che le viene concesso ne fa una delle prime donne di cui racconta la letteratura che svolge una professione. Ci si aspetta però che tale ruolo lei lo esplichi secondo le “consuetudini”, ovvero con oracoli di rito al servizio di Priamo. Ma è proprio questo che ella rifiuta, la supina acquiescenza al palazzo. Invece di pronunciare vaticini che incoraggino il suo popolo alla guerra contro i greci, Cassandra, pensando così di servire meglio i suoi, si oppone al conflitto e denuncia la menzogna che ne sta alla base: esso non si è originato in conseguenza del ratto della bella Elena da parte di Paride, quanto piuttosto per i prosaici interessi economici legati al controllo dell’accesso all’Ellesponto, la via del commercio per mare verso l’Oriente al tempo in mano ai troiani. In questa «lotta per l’autonomia» (p. 141) che vede una donna contrapposta al potere, Cassandra si estranea a poco a poco dagli affetti familiari e si trova più volte vittima della brutalità maschile: prima la reclusione, ordinata dal padre per farla tacere, in una torre della cittadella; poi l’unione, impostale per motivi strategici, con un uomo da lei non voluto; infine la violenza sessuale subita nel corso della conquista di Troia a opera del Piccolo Aiace.
«Ipotesi: con Cassandra ci viene tramandata una delle prime figure femminili il cui destino prefigura ciò che, per tremila anni, accadrà alle donne: essere ridotte a oggetto» (pp. 101-102), oggetto di una prassi maschile che si è affermata attraverso l’esclusione della componente femminile – questa la conclusione a cui perviene la Wolf. Una prassi che ella scorge ancora nella sorte delle silenziose contadine della provincia greca, strette nella morsa di una cultura dominata dall’onnipresenza degli uomini. «In questo posto noi altre non avremmo, non abbiamo alcuna chance» (p. 64), annota l’autrice, osservando la mascolinità arrogante e aggressiva dei giovani cretesi al passeggio serale.
I luoghi archeologici – Atene, Creta, Micene – divengono a questo punto lo scenario di una minuziosa ricerca a ritroso nel tempo, volta al recupero di una tradizione femminile progressivamente rimossa e occultata. Ne sono testimonianza le prosperose figurine in terracotta dai fianchi accentuati, così lontane dai modelli ideali dell’arte classica, le raffigurazioni nel Palazzo di Cnosso delle corna del toro, animale un tempo legato al culto mediterraneo della luna, o dell’ascia bipenne, reminiscenza della pratica del taglio della legna affidata alle donne. Sono tracce, queste, che rievocano l’antica organizzazione sociale di tipo matriarcale e matrilineare, all’interno della quale le donne detenevano l’arte della veggenza, determinavano la successione al trono, guidavano i clan dediti all’agricoltura, «erano libere e pari agli uomini» (p. 73). Dalle oscure fondamenta dell’Olimpo greco con le sue dee guerriere e senza madre – come Pallade Atena, generata con scudo e giavellotto dalla testa di Zeus – riemergono le antiche Madri, dee della terra, dell’aria e degli inferi, divinità che nella loro natura triforme attestano «la prima trinità in assoluto, da cui sono derivate tutte le successive» (p. 157). Anche i rituali della Pasqua ortodossa, a cui la Wolf assiste in un paese della Tessaglia, rivelano il loro sostrato originario: il culto della dea Demetra, dispensatrice di fertilità, un tempo celebrato in primavera con le processioni attraverso i campi.
Nel risalire la corrente del tempo, l’autrice svela in controluce la profondità e la stratificazione delle culture che albergano sul suolo greco: «Dal culto odierno ne traspare uno più antico e da questo uno più antico ancora. […]. Prima del racconto secolarizzato la leggenda di santi, prima di questa l’epos eroico, prima di questo il mito» (p. 80). Un mito che oggi convive con la più sfrenata modernità. Accanto alla Grecia arcaica si staglia quella ipermoderna, cartina di tornasole dei parossismi della civiltà contemporanea. Atene, col suo dedalo di viuzze occhieggiate da antiche botteghe, si mostra al contempo eruttante vulcano di nubi tossiche, schizofrenico agglomerato solcato da un’arteria di bolidi in corsa. Prossime alla devastazione totale le korai dell’Acropoli piangono, il viso solcato dalle piogge acide. E sotto scintillanti falci di luna meridionale, in prossimità di un mare calmo e intenso, le raffinerie di petrolio appestano Eleusi e i mostri industriali profanano l’Aulide. «È esistita, esiste un’alternativa a questa barbarie?» chiede la Wolf. A risuonare nella sua domanda è il timore dell’essere arrivati al capolinea di una civiltà ormai priva di alternative: «Nelle nostre macerie di pietra, di acciaio e di cemento quale sorta di fede potranno leggere i posteri […]? Come si spiegheranno la tracotanza delle metropoli immense dove gli uomini non possono vivere senza danno?» (p. 88).
La terza lezione, un «diario di lavoro», come segnala il titolo, costituito da una serie di annotazioni che vanno dalla metà maggio 1980 alla fine agosto dell’anno successivo, si apre con l’immagine dei funghi atomici di Sarah Kirsch (Fine dell’anno) e reca, poco oltre, la data dell’anniversario della bomba su Hiroshima. Dalla casa di campagna nel Meclemburgo, la Wolf guarda con preoccupazione al vortice bellico che risucchia l’Europa. La «pace armata» perseguita in parallelo dalla Nato e dal Patto di Varsavia in nome di un perverso «equilibrio del terrore» (p. 104) ha trasformato il vecchio continente nello scacchiere di un conflitto che, qualora si verificasse, condurrebbe all’annientamento di tutte le parti coinvolte. Né a est né a ovest sembra esserci spazio per la trasformazione, a dominare è l’insensato. E questo significa per la Wolf interrogarsi anche sul proprio ruolo di scrittrice e di intellettuale, vagliare lo spazio d’azione dell’espressione letteraria. Di fronte al cieco procedere dell’uomo verso l’autodistruzione, cresce la coscienza dell’inadeguatezza delle parole e la letteratura diviene più che mai sforzo coraggioso contro l’adattamento, la rassegnazione, l’impotenza. A tenere ancora in vita la speranza sono le manifestazioni contro lo stato delle cose: le marce di protesta, le iniziative dei movimenti pacifisti, le voci del dissenso. Ne scaturisce un appello che travalica ogni posizione ideologica; armata di nient’altro che del desiderio che i figli e i nipoti vivano, all’autrice «appare ragionevole ciò che forse è completamente privo di prospettive»: optare per il «disarmo unilaterale» del blocco orientale (p. 104). In questo contesto, la figura di Cassandra e, con essa, la lunga testimonianza che le viene affidata nel racconto, diventa opposizione a quella pratica della violenza che si è «insediata alle radici della coscienza occidentale» (Chiarloni, Christa Wolf, p. 129).
Esiste un cammino alternativo a quello imboccato dall’Occidente? Percorrendo la via che indaga la relazione tra «la corsa sfrenata agli armamenti» e le «strutture patriarcali del pensiero e del governo» (Premesse, p. 145), la Wolf contrappone alla «razionalità astratta» e al «pensiero strumentale», colpevoli di aver esasperato tutti i contrasti «fino a condurli al massimo grado di negatività» (p. 120), il recupero dell’antico sapere femminile ormai sepolto, di quell’esperienza viva che è spontanea adesione alla vita dei sensi e dei sentimenti. Si tratta di innestare sulla pratica della codificazione intellettuale una componente che riattivi la comprensione emozionale, che riaccenda il sopito mondo istintuale, a lungo percepito come conturbante e pericoloso: «Saggezza contro voglia. Cultura conquistata smarrendo la natura. Progresso attraverso il soffrire: queste le formule, indicate quattrocento anni prima di Cristo, e che sono alla base della cultura occidentale» (p. 90). È tempo di sperimentare una strada alternativa all’uso della forza, ma anche agli automatismi della civiltà della macchina e all’alienazione che questa provoca.
Il superamento del razionalismo inaridito passa attraverso la necessità di riannodare una scrittura che abroghi il «principio di realtà gerarchico-maschile», che travalichi l’epos omerico dell’eroe, delle figure ideali e delle grandi gesta costruite intorno a «storie ben connesse grazie alla guerra e all’assassinio» (p. 133). «Non ho una poetica da offrirvi» ha d’altronde dichiarato provocatoriamente la Wolf in apertura alle Premesse, rovesciando così i contenuti dell’incontro francofortese ed esplicitando il proprio scetticismo nei confronti della pretesa ampia validità di quella “norma estetica” di cui la Poetica aristotelica costituisce il manuale di riferimento. Ciò a cui guarda l’autrice è la debole traccia della scrittura femminile (Saffo, Virginia Woolf, Marie-Luise Fleisser, Ingeborg Bachmann), una scrittura praticata, come fu la veggenza per Cassandra, come momento di autoaffermazione, una scrittura che parla, ancora una volta, di repressione e vessazione, ma che al contempo attesta l’esistenza di «una realtà diversa da quella degli uomini» o, meglio, di «una realtà percepita in modo diverso dagli uomini». Quest’ultima si fonda su un mondo interiore germinato a margine delle strutture del potere, svincolato dall’«aberrazione dei sistemi dominanti» (p. 136) e dunque sdoganato dalle forme letterarie istituzionali che ne sono il prodotto. Sono riflessioni, queste, che se contestualizzate all’interno delle coordinate della politica culturale della Rdt, dove la norma «fatalmente slitta in imposizione», non possono che vibrare di «accenti polemici» (Chiarloni, Christa Wolf, p. 121).
A tessere il reticolo narrativo della parola femminile non è la linearità univoca dell’epica ma la pluralità di senso che la Wolf scorge nella poesia della Bachmann – una «grammatica delle relazioni multiple e simultanee» (Premesse, p. 153) – e che ella stessa pratica, col suo progetto su Cassandra, nella contiguità di racconto e saggio e, all’interno di quest’ultimo, mediante l’accostamento di generi letterari diversi: saggio vero e proprio, lettera, diario. Tale molteplicità rivela la tensione «tra le forme dentro cui ci muoviamo per convenzione» e il «materiale vivo che i sensi, l’apparato psichico, il pensiero» trasmettono e che a queste forme si sottrae (p. 10). Di questa pluralità parla d’altronde il mito stesso, con le sue ramificazioni. Affrancata dall’ufficiale cultura storiografica “al maschile” la storia di Cassandra palesa «lo strato più antico della tradizione» (p. 132): quello che fa risalire il dono della divinazione non al giovane dio Apollo ma alla ben più antica Gea, dea dei serpenti. Il mito diventa allora la chiave d’accesso a un’ottica conoscitiva diversa, a un «ampliarsi del punto di vista» che è assunzione di una «nuova profondità di campo». «Imparare a leggere il mito», scrive l’autrice, «è un’avventura di tipo particolare; presupposto di quest’arte è una progressiva trasformazione di sé, una disponibilità ad abbandonarsi all’associazione apparentemente facile di fatti fantastici, di tradizioni, di desideri e speranze, di esperienze […], in breve a un altro senso del concetto di realtà» (p. 68).
Proprio alla dimensione della «realtà» la Wolf assegna un’ampiezza particolare, in quanto di essa fa parte, accanto ai grandi eventi della storia, anche l’«esperienza sensibile della vita quotidiana» (p. 133), quella «buona vita quotidiana» (p. 110) comprensiva di situazioni domestiche poco appariscenti – la raccolta della frutta, la preparazione dei cibi, il restauro casalingo di un vecchio mobile – ma estremamente umane. Inscrivendosi nella trama dell’esistenza giornaliera, raccontandone di volta in volta i dettagli, le Premesse parlano al tempo stesso del proprio nascere dai pensieri, dai fatti e dalle azioni di tutti i giorni. E non è un caso che proprio una donna e un’intellettuale della Rdt riaffermi lo spazio privato, intimo, della persona nei confronti di ogni organizzazione dirigistica della società.
La sferzante critica a cui l’autrice sottopone il razionalismo occidentale non equivale però mai – è bene puntualizzarlo – a un abbandono all’«irrazionale». Il futuro non è da costruirsi nel segno del recupero di un’ancestrale dimensione mitica, facilmente oggetto, come insegna la storia tedesca, di mostruose strumentalizzazioni, né tanto meno una soluzione può giungere dalle posizioni del femminismo radicale e separatista, adombrato, nelle Premesse e nel racconto, nella «via senza sbocchi» del settario matriarcato di Pentesilea (p. 140). È sul terreno della reciproca autonomia e della reciproca collaborazione che si deve lavorare, come si legge chiaramente nel saggio:
“Non si acquista maturità se alla follia maschile si sostituisce la follia femminile, e se le conquiste del pensiero razionale, solo perché opera di uomini, vengono gettate a mare dalle donne in nome dell’idealizzazione di stadi pre-razionali dell’umanità. La stirpe, il clan, sangue e terra: non sono questi i valori ai quali possono collegarsi l’uomo e la donna di oggi; proprio noi dovremmo sapere che queste formule possono offrire pretesti per terribili regressioni. Non c’è via che possa aggirare la formazione della personalità, i modelli razionali della soluzione dei conflitti, cioè anche il confronto e la collaborazione con coloro che la pensano diversamente e, ovviamente, con l’altro sesso. L’autonomia è un dovere per tutti” (p. 137).
Il percorso da seguire è dunque la via del dialogo, del confronto dialettico, della conciliazione, della ricerca di una prospettiva comune. Perché «le persone, gli stati e i sistemi autonomi possono aiutarsi reciprocamente» (p. 136). Una lezione, questa, che a quasi trent’anni di distanza appare più che mai attuale.
Daniela Nelva
Nota biografica
Christa Ihlenfeld (sposata Wolf) nasce a Lansberg an der Warthe, nell’attuale Polonia, nel 1929 e trascorre l’adolescenza nella Germania nazionalsocialista. Iscritta alla Sed appena ventenne, studia germanistica con Hans Mayer e lavora come critica letteraria presso la rivista dell’Unione degli scrittori della Rdt «Neue Deutsche Literatur». Frutto di un soggiorno a Mosca è il suo primo racconto, Moskauer Novelle (Novella moscovita, 1959). L’esperienza di lavoro presso una fabbrica di vagoni ferroviari dà origine alla stesura del romanzo sulla divisione della Germania che la pone all’attenzione della critica internazionale: Il cielo diviso, 1963. Nelle opere successive l’autrice affronta, tra gli altri, i temi del disagio dell’individuo all’interno di un’organizzazione sociale dirigistica (Riflessioni su Christa T., 1968), del confronto col passato hitleriano (Trame d’infanzia, 1976), del rapporto tra il singolo e il potere (Nessun Luogo. Da nessuna parte, 1979). La riflessione sul mito e la sua lettura nell’ottica del presente proseguono, dopo il progetto su Cassandra, con il testo Medea (1996). La riflessione sulla Rdt alla luce della caduta del Muro è invece affrontata prima nel racconto Che cosa resta (1990), poi nel testo autobiografico Un giorno all’anno. 1960-2000 (2003).
Edizioni di riferimento
Premesse a Cassandra, Roma 1984, e/o (Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra, Darmstadt/Neuwied 1983, Luchterhand).
Kassandra. Vier Vorlesungen. Eine Erzählung, Berlin/Weimar 1983, Aufbau Verlag.
Cassandra, Roma 1984, e/o (Kassandra, Darmstadt/Neuwied 1983, Luchterhand).
Letteratura secondaria
Büch, Karin Birge: Spiegelungen: Mythosrezeption in Christa Wolf “Kassandra” und “Medea: Stimmen”, Marburg 2002, Tectum.
Chiarloni, Anna: Christa Wolf, Torino 1988, Tirrenia Stampatori.
Gargano, Antonella: Ingeborg Bachmann e Christa Wolf: la “menzogna del racconto”, in «Studi Germanici», XXI-XXII (1983-84), pp. 303-311.
Mauser Wolfram (Hrsg.): Erinnerte Zukunft. 11 Studien zum Werk Christa Wolfs, Würzburg 1985, Königshausen und Neumann.
Nicolai, Rose: Zum poetischen Verfahren in Christa Wolfs “Voraussetzungen einer Erzählung: Kassandra”, in «Literatur für Leser» 3 (1989), pp. 254-267.
da: Il saggio tedesco del Novecento, a cura di Massimo Bonifazio, Daniela Nelva, Michele Sisto, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 377-386