I sognatori dell’assoluto: Bakunin e Che Guevara nel “mausoleo” di Hans Magnus Enzensberger

Paola Quadrelli

Le poesie ritrattistiche di Hans Magnus Enzensberger per Bakunin e Che Guevara, qui presentate in traduzione e corredate di una nota biografica utile a comprendere i riferimenti a persone, luoghi ed eventi contenuti nelle due ballate, sono da annoverarsi per più ragioni tra le composizioni più significative di Mausoleum. Siebenunddreißig Balladen aus der Geschichte des Fortschritts, la raccolta di ballate dedicate ai fautori (e al contempo vittime) del “progresso” che Enzensberger pubblicò a metà degli anni Settanta (ed. it.: Mausoleum. Trentasette ballate tratte dalla storia del progresso, trad. di Vittoria Alliata, Einaudi 1979). Il titolo cimiteriale e il sottotitolo apparentemente ispirato a un neoilluminismo baldanzoso rappresentano i poli attorno a cui ruota la riflessione di Enzensberger, che mira qui a disvelare i lati oscuri e le contraddizioni del progresso, il suo andamento non lineare e il carico di sofferenza umano che esso ha comportato. Con il termine “Fortschritt” [progresso], assai abusato già negli anni Settanta e inevitabilmente velato da una patina ideologica, Enzensberger non allude solamente a un progresso di tipo tecnico-economico, ma, più in generale, al progresso della civiltà occidentale moderna: tra i personaggi inclusi vi sono scienziati, medici, matematici, inventori, urbanisti, ingegneri, naturalisti, ma anche architetti (Piranesi, Haussmann), musicisti (Chopin), registi (Méliès), filosofi (Campanella, Leibniz, Condorcet, Malthus, Fourier), politici (Blanqui, Machiavelli, Bakunin, Molotov, Che Guevara) e persino un mago (Robert-Houdin). I personaggi, che nella prima edizione (1975) apparivano nel titolo della ballata con le sole iniziali del nome, sono disposti in ordine cronologico: introduce la raccolta l’orologiaio padovano del Trecento Giovanni de’ Dondi, chiude Che Guevara, la cui ballata suggella anche idealmente un decennio di passioni rivoluzionarie conclusosi con un naufragio ideologico e nella consapevolezza di una palingenesi impossibile.

Enzensberger ha sempre affrontato le vicende e le figure del passato in modo fecondamente critico, frapponendo ad esse il filtro del presente con le sue passioni e le sue nuove esigenze: in tal senso, anche le ballate per Bakunin e per Che Guevara sono testi fortemente ancorati alla realtà degli anni Settanta. Enzensberger rilegge criticamente il mito di Che Guevara alla luce del fallimento della contestazione giovanile di cui il Che fu simbolo idolatrato: come suggerisce chiaramente il poeta già nell’incipit, l’icona di Che Guevara ha subito una rapida e precoce obsolescenza: “Ci fu un tempo in cui migliaia portavano sul capo il suo berretto, / […] e gridavano il suo nome a gran voce. / Irreali appaiono ora quei cortei attraverso la città, / quasi quanto la terra e la classe in cui egli nacque”. A neppure dieci anni dalla sua morte, Che Guevara – agli occhi del poeta – resta solamente un oggetto di studio per gli storici che “si annidano come tarme nella sua uniforme” e non sembra dunque che dalla sua figura possa giungere più alcuna spinta propulsiva per il presente. L’unico omaggio beffardo che viene ormai tributato al grande combattente proviene da una boutique che gli “ha rubato il nome” e al cui interno siedono gli ultimi hippy, “contrariati, / irreali, come fossili, e senza domande, e quasi immortali”. Con il riferimento alla boutique Enzensberger coglie acutamente l’impasse fatale in cui finirono travolte e soffocate le istanze più genuine della contestazione studentesca, assorbite dalla società dei consumi e svuotate in tal modo di ogni potenziale rivoluzionario. Proprio le T-shirt con la riproduzione del Che fotografato da Alberto Korda simboleggiano due fenomeni culturali correlati ed entrambi distintivi degli anni Sessanta: la massificazione dei gusti e la nascita dei “giovani” come fascia di consumatori. Enzensberger ripropone qui, in maniera concisamente poetica e allusiva, il giudizio severo sul movimento studentesco articolato nella Breve estate dell’anarchia (1972), laddove contrapponeva il superficiale opportunismo degli studenti alla forte coscienza morale e al radicamento genuinamente proletario degli anarchici spagnoli:

Questi ottantenni [gli anarchici spagnoli ancora in vita, N. d. A.] considerano con sentimenti contrastanti la rinascenza che le loro idee hanno sperimentato nella Parigi di maggio e altrove. Quasi tutti hanno lavorato con le proprie mani per tutta la vita […]. Gli slogan della “società del tempo libero”, le utopie dell’ozio restano loro estranee. Nelle loro casette non c’è nulla di superfluo; lo sperpero e il feticismo della merce sono loro sconosciuti. […] Nessuno li ha “lanciati”. Non hanno ricevuto nulla, non hanno consumato alcuna sovvenzione. Il benessere non li interessa. […] Gli antichi uomini della rivoluzione sono più forti di tutto ciò che è venuto dopo di loro. (La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, trad. di Renato Pedio, Feltrinelli 1997, p. 274-275)

 A differenza di Che Guevara, la cui carica rivoluzionaria si è esaurita e consumata nel momento in cui egli è stato trasformato in slogan e in icona di massa, Bakunin non si presta a essere riprodotto come una decalcomania, applicabile e utilizzabile in ogni situazione, non è adatto, cioè, a diventare un “santino” della rivoluzione (il testo originale parla proprio nella penultima strofa di “Abziehbild”, “decalcomania”, da noi tradotto con “modello”). Proprio per questo Enzensberger ne invoca il ritorno con esclamazioni ripetute e accenti patetici. La consapevolezza dell’inattualità di Bakunin induce da un lato Enzensberger a esortare Bakunin a “restare dov’è” e, dall’altro, ad auspicarne il ritorno. Proprio perché egli “non ha dimostrato nulla e da nulla è stato confutato”, poiché non fu “un redentore, un burocrate, un padre della chiesa, uno sbirro di destra o di sinistra”, poiché fu una figura scomoda e controversa cui non si pensò mai di dedicare un monumento e dunque figura viva, sfuggita all’imbalsamazione della storia ufficiale, proprio in virtù di tutto ciò, dunque, l’autore prorompe nel finale in una ripetuta preghiera: “Bakunin, ti prego: ritorna, ritorna, ritorna.”

Esplicito è il richiamo al presente, a un’Europa “che odora di polizia”, irrigidita in una burocrazia che soffoca sogni e utopie. Sotto questo riguardo Enzensberger ha anche indirizzato le sue critiche al marxismo, colpevole di un irrigidimento ideologico e burocratico che ha finito per tradire gli ideali della rivoluzione. L’autore ha rivolto il suo interesse piuttosto ai momenti utopici del socialismo, tra i quali i movimenti anarchici occupano un posto di rilievo: l’anarchismo condivide infatti con il socialismo le aspirazioni di libertà e giustizia sociale ma non conosce il travisamento e le distorsioni a cui queste aspirazioni sono sottoposte nei regimi totalitari del socialismo reale. Perciò gli anarchici hanno sempre suscitato la simpatia e l’interesse di Enzensberger che vede rivendicata in loro quell’imprescindibile libertà del soggetto altrimenti conculcata dalle ideologie.

In generale, la predilezione dell’autore va per quelle figure della storia del socialismo che non si sono compromesse con il potere, come Che Guevara, che anche nel suo ruolo di ministro a Cuba restò “un eterno straniero” e un “perdente”, incapace di capire trame e intrighi, l’anarchico Bakunin e inoltre un rivoluzionario fallito come Blanqui o l’utopista Fourier, anch’essi ritratti in Mausoleum, o il pensatore russo Alexander Herzen, protagonista dei due dialoghi Sull’eclisse della storia (1984). Un altro côté del socialismo “non istituzionale” indagato da Enzensberger è il terrorismo russo cui il nostro autore ha dedicato un lungo saggio nel volume Politica e crimine, intitolato “I sognatori dell’assoluto”. All’interno di questa ricostruzione emerge tra i padri dei movimenti rivoluzionari russi Michail Bakunin: “un uomo perspicace e incurante di sé con i tratti di un Danton russo”. La descrizione di Bakunin offerta in questo saggio non si discosta dal ritratto di Mausoleum: un uomo inquieto, amante dell’avventura, con una fisicità imponente e ingombrante, ossessionato dal demone della distruzione ma con un’indole singolarmente lontana dalla violenza dei proclami: “nonostante il suo linguaggio violento Bakunin era un gigante bonario” (si veda al riguardo l’analogo contrasto, nella ballata su Che Guevara, tra i proclami omicidi del Che e la sua personalità mite, di lettore di poesia).

La figura di Bakunin ha occupato a lungo l’intelligenza di Enzensberger che ha dedicato all’anarchico russo una scena teatrale (Die Bakunin-Kassette. Eine Fälschung) e ha anche immaginato Bakunin a bordo del suo Titanic (1978), a colloquio con Friedrich Engels nel X canto. Forse è sempre Bakunin il rivoluzionario che nel V canto sobilla i passeggeri di terza classe, incitandoli a ribellarsi contro l’ordine costituito, a rubare “ciò che vi è stato rubato”, a prendere “finalmente” “ciò che vi appartiene”. I passeggeri reagiscono con inerzia, stupore e incomprensione alle parole del sobillatore: “Capivano, certo, quel che diceva, / ma non capivano lui. / Le sue parole non erano le loro. / Erano rosi da paure diverse / dalle sue, e da altre speranze. / Rimasero lì in piedi, pazienti, / con i loro zaini, i loro rosarii / i loro bambini rachitici, / dietro alle barriere, gli fecero largo, / lo ascoltarono, rispettosamente, / e attesero, finché non affondarono.” (La fine del Titanic, trad. di Vittoria Alliata, Einaudi 1980, p. 35).

Con questi versi nitidi ed efficaci l’autore ci ricorda lo scarto esistente tra le teorie rivoluzionarie e la realtà e la mentalità degli oppressi e vuole dunque alludere alle difficoltà di convincere le masse della necessità della rivoluzione. La tragica incomunicabilità tra i predicatori della rivoluzione e le masse afflitte emerge peraltro (con accenti pressoché identici a quelli appena citati) nella ballata per Che Guevara: “Ma i lebbrosi sotto la veranda fatiscente lungo il Rio delle Amazzoni non capivano quel che [egli] diceva e continuavano a morire” e ancora, a proposito dell’attività di Guevara come guerrigliero nella giungla boliviana: “Non parlava il quechua e neppure il guaraní. Il silenzio degli Indios era assoluto, come se venissimo da un altro mondo”. Qui si tratta innanzitutto di una incomprensione linguistica, ma dietro ad essa si cela la consapevolezza enzensbergeriana del torpore delle masse, timorose di ogni cambiamento e intrinsecamente conservatrici. L’ostacolo maggiore contro cui si scontra il rivoluzionario è perciò l’inerzia collettiva, l’accettazione meschina e acritica dello status quo: “A molti uomini le mete raggiunte paiono una condizione discretamente felice. Per questo temono qualsiasi cambiamento. Grande è la potenza dell’abitudine. L’orizzonte è limitato. Il pensiero ha perduto il suo slancio. La volontà è fiacca”, constata amaramente Herzen in uno dei dialoghi citati (cfr. Dialoghi tra immortali, morti e viventi, trad. di Claudio Groff, Mondadori 1992, p. 20).

Non è dunque casuale che Enzensberger abbia valorizzato nel suo Mausoleum le singole individualità, accentuando l’apporto personale fornito da costoro al progresso della civiltà occidentale. L’autore ha espresso infatti in diverse occasioni il suo pessimismo nei confronti delle possibilità rivoluzionarie delle masse e ha individuato nelle minoranze pensanti i veri motori del cambiamento storico:

La democrazia in una prospettiva storica è fatta dalle istituzioni, ma anche dall’assunto che ogni individuo adulto abbia capacità di giudizio. Molto bello, ma in realtà sono sempre state le minoranze ad avere un ruolo determinante nelle grandi scelte. Per questo è significativo che le minoranze abbiano piena libertà. Chi, se non minoranze, sono i protagonisti dei successi dell’economia, delle conquiste della scienza, degli affari? Non le masse. (Cosa minaccia l’epoca che viviamo. Intervista di Andrea Tarquini ad Hans Magnus Enzensberger, la Repubblica, 9 giugno 2001, p. 39)

In poesie degli anni Settanta, quali Die Macht der Gewohnheit (La forza dell’abitudine) o Über die Schwierigkeiten der Umerziehung (Sulle difficoltà della rieducazione), Enzensberger ironizzava sul torpido conformismo della gente comune, incapace di qualsiasi cambiamento storico perché schiava dei propri bisogni meschini: “Se solamente non ci fosse la gente! / Disturba sempre e ovunque. / Manda all’aria tutto. // Quando è il momento di liberare l’umanità / corre dal parrucchiere. / Invece che trotterellare entusiasta nelle file dell’avanguardia / dice: adesso ci vorrebbe una birra” (Die Gedichte, Suhrkamp 1983, p. 267) .

L’atteggiamento di Enzensberger nei confronti della rivoluzione è articolato e non può essere tacciato di semplice elitarismo: se infatti le masse si rivelano inerti e ottuse, non è men vero che coloro che dovrebbero spronarle alla rivolta si dimostrano persone pericolosamente prive di realismo e di senso pratico. La natura sognatrice e svagata, una certa ingenuità e la mancanza di senso pratico contraddistinguono anche Bakunin e Che Guevara; anzi, l’autore insiste particolarmente sulla loro incapacità a inserirsi nel mondo “amministrato”. Certo, una propensione al sogno e una certa dose di follia sono i contrassegni psicologici del rivoluzionario che, per sua natura, non può accontentarsi della realtà esistente ma deve immaginare e prospettare un mondo diverso; tuttavia Enzensberger – cui va riconosciuta una notevole sagacia nel cogliere dialetticamente la realtà in tutte le sue contraddizioni – non manca di indicare la pericolosità sociale di questa indole sognatrice. Non sono solamente i lebbrosi che non capiscono le parole di Che Guevara, ma è anche la stessa economia cubana che non “stava a sentire i suoi discorsi”. Enzensberger, che indubbiamente offre un ritratto alquanto critico di Che Guevara, ne sottolinea il  fallimento in qualità di alto funzionario della repubblica cubana e la sua incapacità a percepire la realtà nella sua ricchezza e nella sua complessità, tanto che la attività di guerrigliero nella giungla boliviana è interpretata come una fuga dalla realtà e come un rifugio negli schematismi rassicuranti dell’ideologia: “Così trovò rifugio nelle armi e restò là dove era tutto chiaro / e distinto: nemico il nemico e tradimento il tradimento, nella giungla”.

L’intento perseguito da Enzensberger in queste ballate è quello di tratteggiare personaggi nella loro contraddittorietà ed enigmaticità. Dopo aver letto la ballata per Che Guevara è infatti impossibile riassumerne la personalità con una parola o un giudizio: chi era Che Guevara? Un uomo mite, che amava la poesia e leggeva Baudelaire? Un ideologo fazioso che proclamava slogan violenti e omicidi? Un fallito? Un illuso, preda dei propri sogni? Un giovane asmatico che aveva cercato di compensare la propria debolezza fisica con un’attività di guerrigliero?

Probabilmente ciascuno dei singoli giudizi è in sé legittimo: ciò che però volutamente Enzensberger evita è il ritratto armonizzante e monolitico. L’autore lascia che i singoli aspetti della personalità vengano allineati e si “scontrino”, senza che ne emerga una lettura riassuntiva e coerente. A questa plurivocità, a questo “sfarfallio” dialettico contribuisce la tecnica del collage di citazioni adottata dall’autore in queste ballate e nelle sue opere “documentarie” degli anni Settanta: le numerose citazioni, tratte da fonti diverse, vengono inserite nel testo senza commenti dell’Io lirico e sollecitano una lettura critica. Nell’introduzione all’edizione da lui curata dei Colloqui con Marx e con Engels, Enzensberger illustrava efficacemente la validità di questo metodo:

Presentare le testimonianze dei contemporanei senza operare alcuna scelta censoria né tacere giudizi negativi o addirittura diffamatori significava infatti illuminare l’esistenza del personaggio in tutta la sua contraddittorietà. Un ritratto armonizzante non verrà mai alla luce in questo modo.[…] L’oggettività del metodo sviluppa inoltre un particolare paradosso: presuppone infatti un lettore che prenda costantemente posizione. (Colloqui con Marx ed Engels, s.i.t., Einaudi 1977, p. V)

La giustapposizione nelle ballate di passi tratti da lettere personali e da scritti teorici o da proclami pubblici favorisce ulteriormente il delinearsi di un mosaico complesso e variegato. Anche la figura di Bakunin, dal canto suo, autorizza valutazioni differenti: era un uomo inquieto e generoso o era forse solo un mitomane folle e smanioso di pubblico? Fu capace di imprese avventurose e di fughe rocambolesche eppure era un uomo ingenuo e fragile, con una sessualità incerta e fantasie incestuose; era ossessionato dalla distruzione ma era capace di comporre una melodia “dolce e dolente” e di commuoversi nell’ascolto.

“Il testo si interrompe e quiete continuano a marcire le risposte” è l’ambiguo verso, dall’amara cadenza brechtiana, con cui il poeta chiude la ballata per Che Guevara e al contempo l’intera raccolta: il verbo “rotten” (“marcire”), assieme alle “tarme” citate nella penultima strofa, contribuisce a creare un senso di putrescenza e di lento disfacimento. Tutta la ballata, peraltro, è pervasa da un’atmosfera di rattenuta malinconia, evocata con quelle tonalità disincantate che connotano la migliore lirica di Enzensberger, dal poema sul naufragio del Titanic a poesie più tarde quali Restlicht o Alte Revolution (in Zukunftsmusik, 1991) in cui – come del resto nella stessa ballata per Che Guevara – emerge ineludibile la coscienza della fine di un’epoca e di un’ideologia.

Forse le risposte “continuano a marcire” perché nessuno più interroga criticamente la Storia: gli ultimi hippy, patetico relitto degli anni rivoluzionari, sono infatti definiti “fraglos” (“senza domande”); forse, invece, le risposte di carattere politico-sociale che ci si attendeva da Che Guevara e da tutti coloro che avevano animato quegli anni di fermenti politici non sono mai arrivate e dunque esse marciscono assieme alle aspettative deluse di chi sperava in un mondo migliore. In ogni caso, il verso finale delinea un clima sospeso, di quieta attesa, di composta delusione e di pacato sconcerto dinanzi all’incomprensibile marciare della Storia; come ha scritto il poeta in versi intessuti di mirabile ironia: “Precursori siamo noi, / che arrancano dietro alla posterità, / o sopravvissuti, / in anticipo sulla propria epoca. // Anche la fine del mondo è forse / soltanto / una disposizione provvisoria. / Per il momento moriamo / in buona pace / sulle nostre sdraio. // E poi vedremo” (Fuga di pensieri, trad. di Anna Maria Carpi in Musica del futuro, Einaudi 1997).

Paola Quadrelli

M. A. B.

1814-1876

Desidero una cosa sola, gridava: mantenere intatto sino alla fine
quel sentimento d’indignazione che mi è sacro! –
Imbonitore, testone, cosacco maledetto! – È l’amore
del fantastico, un difetto capitale della mia natura.– Maometto
senza Corano! – La quiete mi conduce alla disperazione. – Un saltimbanco,
un pontefice, un enigma. – Il suo cuore e la sua testa sono di fuoco.

Sì, Bakunin, deve essere stato proprio così. Un continuo nomadismo,
folle e svagato. Insopportabile, irragionevole, impossibile
fosti! Per quanto mi riguarda, Bakunin, ritorna o resta dove sei.

Una figura lunga in frac blu sulle barricate di Dresda,
con un volto su cui prendeva forma la rabbia più rozza
. Fuoco
sull’Opera! E quando tutto fu perso, egli pretese, con la pistola
in mano, che il governo provvisorio della rivoluzione
accettasse di farsi saltare in aria (insieme a lui). (Notevole sangue freddo.)

A grande maggioranza i signori rifiutarono la proposta.

Ti ricordi, Bakunin? Sempre la stessa storia. Certo che hai dato fastidio.
Non c’è da stupirsi. E ancora oggi dai fastidio. Capisci? Dai fastidio
punto e basta. E perciò ti prego, Bakunin: ritorna.

Interrogato, in catene nelle casematte di Olmütz,
condannato a morte, trasportato in Russia, graziato al carcere a vita:
un individuo altamente pericoloso!
Nella sua cella un benefattore
fa portare un pianoforte Lichtentahl. Gli cadono i denti.
Per la sua opera Prometheus inventa una dolce e dolente melodia
al cui ritmo dondolava infantilmente il capo leonino
.

Ah, Bakunin, questo sei proprio tu. (Dondolava il capo leonino:
anche vent’anni dopo, a Locarno). E proprio perché sei così,
e perché non puoi comunque aiutarci in nessun modo, Bakunin, resta dove sei.

Esiliato in Siberia, scappa lungo l’Amur ghiacciato e bluastro
oltre il Pacifico, su velieri, slitte, cavalli
treni espressi, in giro per l’America selvaggia, per sei mesi
senza sosta, infine, a Paddington, poco prima di Capodanno
salta su di un calesse, corre su per le scale, si butta
nelle braccia di Herzen ed esclama: dove posso trovare delle ostriche fresche?

Poiché, a dirla in breve, Bakunin, sei un incapace, non vai bene come
modello, né come redentore, burocrate, padre della Chiesa,
o sbirro di destra o di sinistra, Bakunin, ti prego: ritorna, ritorna!

Di nuovo in esilio. Non solo il rombo della sommossa, il rumore dei Club,
il tumulto nelle piazze; anche la concitazione della vigilia,
anche gli accordi, i segni in codice, le parole d’ordine lo rendevano felice
.
Gran senzatetto, perseguitato da dicerie, leggende, calunnie!
Cuore magnetico
, ingenuo e prodigo! Imprecava e tuonava,
incoraggiava e prendeva decisioni per giorni e notti intere
.

Non è vero? E poiché la tua attività, il tuo ozio, il tuo appetito,
la tua continua sudorazione sono di proporzioni così poco umane
come del resto tu stesso – perciò, Bakunin, ti consiglio: resta dove sei.

Il suo biografo, l’onnisciente, dice: era impotente. Ma Tatjana,
la sorellina proibita che suonava l’arpa nella bianca casa padronale,
lo faceva impazzire. E del resto i suoi tre figli non sono suoi.
Tuttavia a Nečaev, il mitomane, l’assassino, il gesuita, il ricattatore
e martire della rivoluzione, egli scriveva: Mio tigrotto, mio Boy,
amore mio selvaggio! (Il dispotismo degli illuminati è il peggiore.)

Ah, non parliamo d’amore, Bakunin. Morire non volevi.
Non fosti un angelo della morte politico-economico. Eri confuso
come noi, e senza malizia. Ritorna, Bakunin, ritorna.

Infine la notte a Bologna. Era agosto. Stava alla finestra.
In ascolto. In città tutto era silenzio. Gli orologi del campanile battevano le ore.
L’insurrezione era fallita. Si fece mattino. Si nascose
in un carro da fieno. La barba rasata, negli abiti di un prete,
un cestino di uova in mano, con gli occhiali verdi, zoppicò
su un bastone fino alla stazione per morire in Svizzera, nel letto.

È passato ormai molto tempo. Allora era troppo presto, come sempre,
o troppo tardi. Niente ti ha confutato, niente hai dimostrato,
e perciò resta, resta dove sei o, per conto mio, ritorna pure.

Enormi masse di carne e di grasso, idropisia, dolori alla vescica.
Ride rumorosamente, fuma senza posa, ansima, tormentato dall’asma,
legge telegrammi cifrati e scrive con inchiostro simpatico:
sfruttare e governare: la stessa, identica cosa
. È gonfio e senza denti.
Tutto si va coprendo di cenere di tabacco, cucchiaini, giornali. Davanti all’abitazione
saltellano le spie. Ovunque confusione e sporcizia. Il tempo passa.

L’odore di polizia pervade ancora l’Europa. Per questo, e perché mai e in nessun luogo,
Bakunin, c’è stato, c’è o ci sarà un monumento a Bakunin,
ti prego, Bakunin: ritorna, ritorna, ritorna.

Michail Alexandrovič Bakunin nasce nel 1814 a Premuchino, nel governatorato di Tver. Dal 1828 al 1832 frequenta la scuola di artiglieria a San Pietroburgo: nel 1835 si trasferisce a Mosca e studia filosofia. Nel 1839 conosce A. Herzen. Nel 1840 è a Berlino; nel 1842 è a Dresda, poi in Svizzera, quindi a Bruxelles e a Parigi. Nel 1849 B. partecipa all’insurrezione di Dresda. Arrestato e rinchiuso nel carcere di Olmütz, B. viene condannato a morte ma la pena capitale è commutata in carcere a vita. Il prigioniero è quindi trasferito in Russia, nella fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. Esiliato in Siberia nel 1857, B. riuscirà a scappare con una fuga spettacolare, che lo porta dapprima in Giappone, poi a San Francisco, quindi attraverso gli Stati Uniti e infine, con un viaggio in nave, a Londra dove rincontrerà Herzen. Nel 1869 conosce S.G. Nečaev, un giovane fanatico che persuaderà B. a redigere assieme a lui il Catechismo del rivoluzionario e con cui B. romperà l’amicizia già l’anno successivo. Nell’estate del 1874 B. è a Bologna dove tenta di avviare una rivoluzione anarchica. L’insurrezione fallisce e B. fugge da Bologna la notte del 12 agosto travestito da prete. Stanco e impoverito, muore il 1 luglio 1876 in un ospedale di Berna, malato di uremia. (P. Q.)

E. G. de la S.

1928-1967

Ci fu un tempo in cui migliaia portavano in testa il suo berretto
e molte migliaia innalzavano grandi riproduzioni
dei suoi ritratti, e scandivano ad alta voce il suo nome.
Irreali appaiono ora quei cortei attraverso la città, quasi come
il Paese e la classe in cui egli nacque.

Lontano dai mattatoi, dalle baracche e dai bordelli
si sfaldava la villa del padre sul fiume. I soldi erano evaporati
ma la swimming-pool fu mantenuta. Un bambino timido,
allergico, spesso sul punto di soffocare. Combatté con il suo corpo,
fumò sigari, divenne (per quello che può voler dire) un uomo.

Sotto il cuscino teneva Jules Verne. La sua prima offensiva,
la sua prima fuga nella realtà: Tristi tropici.
Ma i lebbrosi sotto la veranda fatiscente lungo il Rio delle Amazzoni
non capivano quel che diceva e continuavano a morire. Solo allora
trovò il nemico che gli restò fedele sino alla fine

e il nemico del nemico. Alcune vittorie più tardi l’Uomo Nuovo,
una vecchia idea, gli apparve come una grande novità. Ma l’economia
non stava a sentire i suoi discorsi. Mancavano sempre gli spaghetti.
Non c’era più neppure il dentifricio e con cosa si fa il dentifricio?
Le banconote che egli firmava non valevano nulla.

Lo zucchero si incollava nella camicia. Macchinari, pagati con valuta pregiata,
arrugginivano sui moli. La Rampa ronzava di dicerie.
Inchini a Mosca, nuovi crediti. Il popolo faceva la fila,
era inaffidabile, raccontava battute fameliche. Ovunque spie,
intrighi che lui non capì mai. Un eterno straniero.

Voleva moralizzare i russi. Il filantropo
invocava l’odio che deve tramutare l’uomo in una
fredda ed efficiente macchina omicida
. In realtà
era una mimosa: preferiva leggere poesie (Baudelaire
lo conosceva a memoria). Un perdente raffinato, cibo per i servizi segreti.

Così trovò rifugio nelle armi e restò là dove era tutto chiaro
e distinto: nemico il nemico e tradimento il tradimento, nella giungla.
Solo lui stesso sembrava spento. Grassoccio, sbarbato, le tempie grige,
occhiali dalle lenti spesse, come un agente di commercio, in montgomery
,
così camuffato andò a Ñancahuazú per il suo ultimo lavoro.

Non parlava il quechua e neppure il guaraní. Il silenzio degli Indios
era assoluto, come se venissimo da un altro mondo
. Insetti,
piante rampicanti, sottobosco. I contadini come pietre. Coliche,
attacchi di tosse, edemi. Dosi eccessive di cortisone, adrenalina.
Ansima all’ultima iniezione: Ave María purísima!

La leggenda si era già propagata come schiuma. Supermen
siamo ormai, invincibili
(sempre questa ironia mortale,
inavvertita dai compagni). Un relitto umano, un idolo.
Ne avremmo fatto uno dei nostri
, annunciarono i più progressisti
tra i suoi nemici mortali. Invece ne esposero il cadavere

con le mani mozzate. Un’avventura mistica e
una passione che ricorda irresistibilmente l’immagine di Cristo,

fu quanto scrissero i seguaci. Lui: Les honneurs, ça m’emmerde.
Non è passato molto tempo ed è dimenticato. Solo gli storici
si annidano come le tarme nel tessuto della sua uniforme.

Buchi nella guerra del popolo. Per il resto, nella metropoli
parla di lui solo una boutique che gli ha rubato il nome.
In Kensigton High Street ardono i bastoncini di incenso;
accanto alla cassa siedono gli ultimi hippy, contrariati,
irreali, come fossili, e senza domande, e quasi immortali.

Il testo si interrompe, e quiete continuano a marcire le risposte.

Ernesto Guevara de la Serna nasce a Rosario, in Argentina, nel 1928. Nell’adolescenza, quando cominciano a manifestarsi i disturbi di asma che lo affliggeranno per tutta la vita, Ernesto è grande lettore di poesia e di romanzi d’avventura. Tra il 1948 e il 1953 studia medicina a Buenos Aires, ma compie anche numerosi viaggi nei Paesi dell’America Latina dove ha modo di constatare l’enorme povertà e le gravi sperequazioni sociali dell’America meridionale. Nel 1951 si reca insieme all’amico Alberto Granado in un colonia di lebbrosi in Perù lungo il Rio delle Amazzoni. Nel 1955 conosce a Città del Messico l’esule Fidel Castro, con cui negli anni successivi collabora  all’abbattimento del regime di Fulgencio Batista. Dal 1959 ricopre importanti ruoli nella repubblica cubana: per sei mesi è direttore del carcere di La Cabaña, poi è funzionario all’Istituto nazionale per la riforma agraria, quindi è nominato direttore della Banca nazionale e infine è Ministro dell’Industria. Il viale citato nella ballata, La Rampa, è un lungo viale nel quartiere di Vedado, centro commerciale e sociale della Avana. Grande sostenitore del lavoro volontario, Guevara partecipò alla raccolta della canna da zucchero, come dimostrano alcune famose fotografie che ritraggono il Che, allora Ministro dell’industria, impegnato nella raccolta. Nel maggio 1965 Guevara rinuncia a tutti gli incarichi ufficiali e si allontana da Cuba con l’intento di promuovere la rivoluzione in altri Paesi afflitti e arretrati: è dapprima in Congo, poi, dall’agosto 1966, in Bolivia per un’impresa condotta di concerto con il governo cubano che si rivelerà fatale. Nella regione di Ñancahuazú si trovava il campo di addestramento dei guerriglieri legati a Guevara. Il reclutamento di combattenti tra la popolazione indigena fu reso ulteriormente difficoltoso dalla mancata conoscenza dell’idioma locale: il tupí-guaraní. Il 9 ottobre 1967 l’esercito boliviano, in un’operazione orchestrata dalla CIA, arresta Che Guevara e lo uccide senza alcun processo. Il cadavere, cui vengono mozzate le mani, viene esposto nell’ospedale di Vallegrande per i fotografi e la stampa. (P. Q.)
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