Italia-Germania, andata e ritorno

Una conversazione
con Cesare Cases
sull’attuale  situazione
della cultura tedesca

a cura di Goffredo Fofi

[da «Scena», VI, n. 3-4, 1981, pp. 57-59; ripubblicata sul numero 160 de Lo Straniero (ottobre 2013); l’immagine non corrisponde al fascicolo 3-4.]

D. Si è parlato molto da noi della rivista di Enzensberger, Transatlantik, anche se pochi l’hanno letta…

R. A me è sembrata noiosissima. L’idea di Enzensberger era di fare del grande giornalismo con gli scrittori, con gli scrittori che fanno i reportages. All’inizio ha detto he il suo collaboratore ideale sarebbe stato Heine, ma a prescindere dal fatto che lo stesso Heine era largamente coinvolto nell’industria culturale e che lì, assieme alla sua grandezza, (perché ha potuto capire così molte cose che si sarebbero capite solo dopo), stanno anche i suoi limiti, a parte questo non credo che oggi sia molto valido il personaggio dello scrittore-giornalista. Gli stessi esempi tedeschi sono insoddisfacenti, per esempio Reinhard Lettau che da molti anni vive in America e ha scritto libri sull’America molto violenti ma anche molto scontati perché per la verità sull’America si impara molto di più attraverso Nashville che non attraverso i libri di Lettau.

D. Eppure c’è una grande tradizione di giornalismo fatto dagli scrittori, ai tempi di Weimar: Kisch, Tucholsky, lo stesso Benjamin…

R. Si, hanno fatto molto giornalismo intellettuale, ma non so se questo oggi sia così nuovo e importante. Mentre col Kursbuch Enzensberger aveva trovato una formula che aveva un senso, e Kursbuch continua a essere sempre una delle riviste più interessanti, qui mi sembra che si scivoli troppo verso il frivolo e l’inconsistente….

D. D’altra parte, mi pare che l’industria culturale in rapporto ai giovani intellettuali funziona in Germania molto bene. Penso ai giovani registi, che quasi tutti hanno lavorato e lavorano per il teatro, la televisione, per l’editoria. Ci sono strutture produttive che danno loro possibilità e spazio…

R. Non so fino a che punto tutto questo sia così positivo, perché quello che è venuto fuori di meglio dalla Germania è stato sempre in opposizione all’industria culturale, Benjamin è forse l’unica eccezione. Io penso a Kraus, a Adorno… In parte hanno ragione i giovani intellettuali di oggi, perché in parte hanno modificato il panorama dell’industria culturale, ma dall’Italia ci si fanno troppe illusioni sull’importanza di queste modificazioni. Per esempio il film di Kluge su Franz Joseph Strauß, Der Kandidat, a Bonn è stato proiettato solo in un cineclub davanti a un pubblico di corrispondenti esteri e basta. Altrimenti sono quattro gatti a vederlo, così com’è successo per Germania in autunno in tutti i posti dove l’hanno dato. Il panorama dei mass-media non è stato modificato dall’ingresso massiccio di intellettuali, si tratta di una presenza molto, molto minoritaria. La rivista Transatlantik ha avuto una diffusione maggiore di altre, l’ho vista in mano di persone che non avevano l’aria di addetti ai lavori, in mano di studenti e non solo di “intellettuali militanti”. Da questo punto di vista Transatlantik è stata un’operazione abbastanza utile di allargamento della sfera d’influenza dell’intellighenzia, ma bisogna anche vedere quanti compromessi è costata: a cominciare dal finanziatore, che non pare precisamente una persona di specchiata virtù. Valeva la pena di ottenere questo piccolo aumento del raggio d’azione a prezzo di un minore rigore?

D. In tutto questo, la scuola di Francoforte cos’è diventata?

D. S’è ridotta a ben poco, a una serie di persone che non stanno in genere a Francoforte, ma a spizzichi in questa o quell’università e che conducono una lotta non dico di retroguardia, che non lo è, ma nel senso che non hanno un vero e proprio spazio, non hanno una vera forza. I nomi grossi come Habermas non rappresentano più un’alternativa ad altre correnti affermatesi o in affermazione: l’ermeneutica, gli heideggeriani, il positivismo logico, ma anzi scendono a compromessi con esse. Altri come Oskar Negt si sono iperpoliticizzati, altri si sono accostati alla scuola di Abendroth e hanno poco a vedere con quella adorniana, altri continuano ma sempre più isolati e sterili. Alfred Schmidt è un po’ che non scrive più nulla, per quanto fosse il più attivo e fecondo (ed era poi allievo di Horkheimer e non di Adorno).

D. Anche questa è una sconfitta legata a quella del ’68?

R. Un’istanza contestatrice queste propaggini ultime della scuola adorniana la contemplano ancora. Là dove ci si imbatte in uno che è stato influenzato da Adorno, prima o dopo il ’68, rappresenta pur sempre un elemento stimolante nell’ambiente universitario, ma solo in quello. Ma si tratta, ripeto, di isolati, mentre là dove si è ricreata una aggregazione questa si è ricreata su altre basi; penso all’università di Brema, oggi gravemente minacciata, dove c’è una sinistra ma su basi diverse, tipo gruppo «Alternative», una sinistra più simile a certe nostre, orientata verso certo strutturalismo, verso Lacan… L’influsso della scuola di Francoforte vera e propria è presente solo in persone isolate, che anche perché scrivono sempre più difficile hanno sempre meno lettori, e non rappresentano certamente un fattore oggi culturalmente importante in Germania. Diciamo che la scuola di Francoforte non ha più una sua funzione sociale: si tratta di un gruppetto di congiurati di uno è qua e uno là, e ogni tanto girando se ne trova uno che ti fa qualcosa come il saluto massonico, e tra di noi ci si riconosce, ma… Adorno aveva insegnato almeno a tenere alta la testa sulle onde del naufragio, anche rimanendo da soli a rappresentare il non-tradimento dello spirito. E questo ha in fondo incoraggiato l’isolamento di chi è stato influenzato dal suo pensiero. Ritroviamo un po’ di Adorno in Kursbuch o nella rivista di Wagenbach, Freibeuter, che prende il titolo dagli Scritti corsari di Pasolini, che hanno avuto in Germania un successo inspiegabile… Sul piano strettamente filosofico c’è forse la rivista di Mitscherlich ma che si occupa piuttosto di psicanalisi, in parte nell’ottica della scuola di Francoforte.

D. I giovani scrittori e registi sembrano unificati, se lo sono da qualcosa, da una specie di neo-romanticismo posto-sconfitta della politica, che loro hanno affrontato almeno sette-otto anni prima di noi. E che oggi hanno molto successo da noi proprio per questo.

R. Mi domando però se tutto sommato in rapporto ai film e ai romanzi del post-tutto, sempre un po’ pesantucci perché non è che i tedeschi abbiano la mano leggera nell’affrontarlo, se questo post-tutto non venga invece fuori meglio in qualche vignetta di Claire Brétecher! Nella produzione tedesca c’è sempre una volontà di teorizzazione, di filosofema. La Brétecher colpisce, con leggerezza, molto più nel profondo. I difetti tedeschi, naturalmente, sono anche le qualità tedesche. I tedeschi reggono comunque meglio, perché per quanto compromessi con l’industria culturale hanno però una tenacia e una serietà che magari li rende di lettura faticosa, ma fa sì che valga più la pena di leggere le loro opere che non quelle di altri paesi. Sono faticosi, ma hanno uno spessore, sempre. La «trilogia della resistenza» di Peter Weiss, per esempio, è pesantissima e anche in Germania nessuno la vuole leggere, ma se si fa lo sforzo ci si trova un livello di riflessione storica serissimo sulla sinistra negli anni di Hitler e di Stalin. Quest’impegno morale dei tedeschi, questo ethos del lavoro, con l’eccezione magari di un Grass che ha la penna troppo facile, fa sì che anche libri sbagliati siano pieni di interesse. Sono poco gratificanti, ma certamente sono molto coerenti: Uwe Johnson, Tankred Dorst, con le loro saghe, i loro cicli… Questo è un atout di fronte alla fiacchezza che caratterizza altre letterature in questo momento.

D. I nomi che fai sono di autori che cercano di capire e spiegare la storia, ma i più giovani, da Handke a Strauß, partono da «dopo la storia»…

D. Sì, ma anche i loro risultati sono superiori a quelli di altri paesi, perché anche in questo fanno più sul serio. Penso per esempio a Wilhelm Genazino, che dev’essere un italiano della seconda generazione e che ha scritto uno dei libri più belli di questi anni, la storia di un impiegato, Abschaffel: anche lui si è buttato sulla trilogia, e ha uno spessore che in Italia dove lo trovi? Per esempio, quest’impiegato legge in treno, a un certo punto, la Metamorfosi di Kafka, e ci sono pagine interessantissime sulla reazione di questo post-kafkiano che lo trova interessante ma non capisce perché Kafka ci si scaldi su tanto… Il guaio è che questi giovani autori e registi si somigliano troppo tra di loro. Gente brava ce n’è: Christa Wolf, Botho Strauß, Peter Paul Zahl… Zahl è un buon poeta, anche se forse un po’ troppo impegnato per essere un vero poeta, ed è autore di un romanzo notevole, Die Glücklichen, I felici, una specie di romanzo picaresco su un gruppo di ex sessantottini implicati in varie metamorfosi di moda, dalla politicizzazione estrema quasi al limite del terrorismo alla spoliticizzazione estrema a base di droga ecc. ecc., ma invece di essere tenuto su un tono di disperazione il romanzo è tenuto su un tono di allegria. Ha il difetto anche questo di essere troppo lungo, tra le cinque e le seicento pagine, per cui nessuno vorrà tradurlo in Italia. Essendo molto frammentario, si potrebbe facilmente ridurlo, ma l’autore si è offeso mortalmente quando un editore italiano gliel’ha proposto. Zahl ha avuto una condanna a quattordici anni di galera perché ha ferito un poliziotto in una colluttazione in cui ha avuto riflessi inconsulti… Anche lui viene dalla DDR, e ha una storia molto interessante, come la Wolf.

D. Il tema del terrorismo è stato importante tra i giovani autori di questi anni?

R. Direi senz’altro di no, la letteratura tedesca non ne è stata certo dilacerata. C’è il romanzo di Uwe Timm, Estate calda, interessante sul piano dell’analisi politico-sociologica, c’è la sceneggiatura del Coltello in testa di Schneider, che è la sua cosa migliore… Poco.

D. Si diceva prima delle «marginalità» di queste esperienze artisitico-intellettuali, ma in realtà essa è rivendicata: scavarsi spazi di sopravvivenza in una società che non piace e che non si può cambiare, contro le soluzioni di tipo variamente suicida…

R. C’è anche la soluzione m-l in Germania! Nel libro di Zahl la nicchia è collettiva e non individuale, ma anche lì è una nicchia. C’è tutta una teoria della nicchia, oggi. Non si prende la società di petto, ma i protagonisti del romanzo cercano sempre nuove forme che mantengano quest’aggregazione contro la società. È un fatto reale. Soprattutto a Berlino ci sono «forme alternative» che hanno assunto dimensioni notevoli.

D. Dall’Italia si guarda a Berlino come una specie di isola felice…

R. Sì, ma in realtà ci sono contraddizioni anche lì. Per esempio c’è un quartiere come Kreuzberg con una situazione esplosiva, abitato da immigrati turchi, e c’è stata una certa solidarietà colle loro lotte da parte di questa sinistra sopravvivente. Non è un’oasi di pace, anche se ci sono un po’ dovunque oasi dove chi vuol vivere a modo suo se non dà fastidio riesce a farlo.

D. Come ti spieghi la moda della Germania venuta fuori in Italia in questi anni, per esempio nei nostri intellettuali che normalmente avevano rifiutato Francoforte. In concorrenza col nostro colonizzatore abituale, che era la Francia.

R. Veramente su questo non sono d’accordo. Il colonizzatore culturale maggiore è stato sempre per l’Italia la Germania, rispetto alle nostre élites intellettuali, da Croce in giù, in polemica con il dilettantismo dei francesi. Ci sono tradizioni ininterrotte in questo senso. Questo ha creato un certo mito della cultura tedesca, vieppiù gonfiato negli ultimi anni con la rinascita nicciano-heideggeriana e il pensiero negativo, prosperato secondo i suoi sostenitori tra Nietzsche e i viennesi. Questo è un mito che non so se sia giusto o sbagliato, ma che certo non si riscontra nei paesi interessati, che non trovi né in Germania né in Austria, che è oggi un paese culturalmente interessante proprio perché le tensioni sociali vi sono meno forti che in Germania e la società del benessere vi è più realizzata. Sia i giovani che i più vecchi, reduci della scuola di Vienna, sono molto attivi. Ma il fascino dalla cultura del negativo c’è in Italia e non c’è in Austria. In Austria, per esempio, c’è il «negativo» della letteratura della scuola dei poeti di Vienna, e certo molti di meno che in Italia si leggono Adolf Loos e Wittgenstein, che sono più importanti da noi che non da loro o in Germania. Una compatta filosofia negativa in Austria o in Germania non c’è. Un mio conoscente heideggeriano ha partecipato all’ultimo congresso sul nichilismo organizzato a Trieste e mi ha telefonato sconvolto: «Qui in Italia di Heidegger hanno fatto un terrorista!», cosa per lui inconcepibile perché concilia benissimo Heidegger con l’establishment di cui fa parte: aspetta anche lui l’arrivo dell’Essere ma lo vede molto alla lontana e non fa niente per affrettarlo, mentre in Italia c’è la tendenza a trasformare Heidegger in una levatrice della rivoluzione, o a metterlo in rapporto con Carl Schmitt, cosa che in Germania normalmente non si fa!

D. Come spieghi la fascinazione per il negativo oggi in Italia?

R. In Italia c’è una grossa crisi dei partiti di sinistra che ha determinato un aggiustamento di tiro ideologico e ha lasciato largo spazio appunto al negativo. Essendo diventato il comunismo ufficiale positivo o affermativo, come avrebbero detto quelli della scuola di Francoforte, da una parte ci si è opposti a esso attraverso la negatività, da un’altra si è cercato di fargli un’iniezione di negatività, alla Cacciari. C’è comunque in comune un elemento di rottura col tradizionale storicismo del PC e della sinistra italiana, che naturalmente ha una sua legittimità, perché si è visto come questo storicismo finisce per condurre all’accettazione dell’esistente. Sulla valutazione da dare di questo movimento si può essere di pareri discordi, perché è un movimento molto complesso: c’è chi fa del negativo un puro movimento individualistico anarchico e chi fa invece del negativo una leva per imporre la volontà di potenza, per impadronirsi della stanza dei bottoni, per fare l’energia atomica di sinistra… Quindi, a partire dalla stessa angolatura ideologica, le conseguenze sono diverse e anche opposte sul piano politico.

D. Torniamo alla Germania. Hai parlato del successo di Pasolini. Ecco, com’è vista lì la cultura italiana?

R. C’è un interesse abbastanza vivace, appunto in nome della morale di Transatlantik. Loro cercano i giornalisti filosofanti, e scoprono che noi in fondo li abbiamo già. Tutti i nostri sono così, sono tutti filosofi. In questo senso gli intellettuali italiani sono abbastanza seguiti, da Sciascia a Calvino… Ho partecipato a una lettura-incontro con Calvino a Colonia, e qualcuno gli ha domandato perché era passato dal Corriere della sera alla Repubblica, aggiungendo che forse gli faceva una domanda  indelicata. La gente si meraviglia di questo, segue questi fatti, mentre noi non ci meravigliamo più assolutamente di niente e meno che mai di un fatto del genere. Sperano sempre che la luce gli arrivi dal sud e da Calvino, il quale giustamente ha cominciato il suo discorso dicendo che non aveva nessun verbo da comunicare. Il fatto è che in Germania manca il personaggio dell’intellettuale che dice la sua su tutto, dello scrittore filosofante. C’è Enzensberger, ma i suoi interventi sono molto, molto più rari di quelli dei nostri, anche perché in Germania non esistono palestre per questa attività, perché i giornali non contemplano questo tipo di figura. Quando un mio amico tedesco mi diceva di aver nostalgia della cronaca nera dei giornali italiani, diceva una cosa che ha un certo fondamento. Il «fattaccio» qui da noi viene immediatamente manipolato da Testori, da Calvino, da Alberoni, da Sciascia, da Moravia, da Arbasino, ecc. ecc. ecc., per cui alla fine non ne possiamo più e troviamo che la ragione è all’inizio, e che il tipo che si è suicidato o ha ammazzato tutti forse ha agito più coerentemente che non questi che l’hanno inondato di carta stampata! Ma lì succede il contrario. C’è stato un ragazzino turco che ha ammazzato due compagni di scuola, l’ha detto la televisione una volta e poi basta, non se ne è più parlato. Se se ne parla è in forma astratta, già decantata, magari con un saggio di psicologia o sociologia o con un’inchiesta sulla condizione dei turchi, ma il fenomeno quotidiano sfugge alla presa giornalistica. Questa è tradizione del giornalismo tedesco: da una parte c’è la Bild-Zeitung che ne fa un atto semplicemente orripilante, e dall’altra c’è la stampa cosiddetta seria che lo ignora o che lo minimizza al massimo. Si capisce così che stando un po’ in Germania a uno venga nostalgia di Alberoni o di Testori, che è veramente il peggio che possa capitare a una persona.

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