Una sorgente primigenia: Thomas Mann e Giuseppe Verdi

[Nell’ottobre del 2001 si è tenuto a Villa Vigoni, in occasione del centenario della morte, un convegno internazionale di studi sulla figura di Giuseppe Verdi nel suo rapporto con la cultura tedesca. Gli atti sono poi stati pubblicati nel 2003 a cura dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani. Presentiamo qui una versione, aggiornata per il nostro sito, del saggio che Elisabeth Galvan dedica alla Verdi-Rezeption negli scritti di Thomas Mann. Riflessioni, queste, che indagano la funzione culturale che il maestro assolve per l’autore dello Zauberberg e che, al contempo, sono occasione di dialogo tra due discipline, musica e letteratura. Verdi e Mann, dunque. Il ricordo del lettore va senz’altro alla sezione Dovizia di armonie nel romanzo di “quelli di lassù” quando Castorp, presa confidenza col nuovo acquisto del Berghof, il grammofono, esamina indisturbato il tesoro di interpretazioni musicali, tra cui arie verdiane, e da queste si lascia accompagnare. C.M.]

Elisabeth Galvan

Mentre Thomas Mann attende alla stesura della Montagna magica, il diario registra, nel febbraio 1920, una serata trascorsa in compagnia di Bruno Walter che in quell’occasione ha suonato, tra le altre, musiche di Verdi e Puccini. Il commento del diarista appare singolare: “Paragonato a Puccini, Verdi, una sorgente primigenia, risulta talvolta tedesco.”[1] Si trovano qui messe in relazione cose diverse, polarità contrapposte. E tuttavia un simile procedimento è la strategia per antonomasia di un autore da sempre interessato agli opposti e, in particolare, alla loro sintesi. L’universo intellettuale di Thomas Mann, la sua visione del mondo, sono intrisi di tesi e antitesi, di polarizzazioni culturali, politiche e personali. È una fondamentale forma dialettica del pensiero che riappare, nelle sue opere, in innumerevoli varianti di contrasti: tra borghese e artista, tra nord e sud, tra oriente e occidente, tra cultura e civilizzazione, tra spirito e arte (per menzionare solo le polarità più note). Altrettanto copiose sono le figurazioni letterarie di queste antinomie; e tra di esse la più frequente è – forse – la composizione di una costellazione antagonistica (come p. es. quella tra Naphta e Settembrini nella Montagna magica). Una forma primaria di queste costellazioni di opposti è stata sempre individuata nelle origini di Thomas Mann (padre nordico e ‘borghese’ –  madre meridionale e ‘artista’) nonché nel complesso e altrettanto antagonistico rapporto con il fratello Heinrich. In ogni caso, per tutta la sua vita, Mann è rimasto legato al motivo dell’antagonista. Che la sua divinità preferita fosse proprio Ermes – non solo messaggero degli dèi, ma anche mediatore e intermediario – non è che l’altra faccia di questa stessa medaglia.

Il frammento di diario citato segue puntualmente la logica sopra descritta. Alla tesi Verdi corrisponde dialetticamente l’antitesi Puccini. E a ben guardare il passo contiene anche una seconda antitesi, legata all’aggettivo “tedesco”. Verdi risulta talvolta tedesco. Per poter capire questa affermazione, tutt’altro che ovvia, del diarista Mann, è necessario considerare più da vicino il suo rapporto con Verdi. Vengono alla luce allora tre diversi livelli di ricezione:

1. la ricezione musicale e la ricezione della musica;

2. la ricezione a livello letterario;

3. l’interesse per l’artista Verdi.

Un solo interrogativo basta altresì a collegare tutti e tre questi livelli: cosa rappresenta il Maestro italiano per Thomas Mann? Nella tipica ‘strategia delle contrapposizioni’ cui si è appena accennato, i simboli culturali assolvono un’importante funzione: affiorano nell’intera opera con i nomi “Spagna”, “Asia” (La montagna magica), “Egitto” (Giuseppe e i suoi fratelli), “Italia” (Tonio Kröger, La morte a Venezia, La montagna magica, Mario e il mago) e vengono sempre posti, direttamente o indirettamente, in relazione dialettica con la “Germania”, anch’essa simbolo culturale.

La prima questione che ci si deve porre nel nostro contesto è allora la seguente: anche Verdi assolve alla funzione di simbolo culturale? E se è così, a quale sfera culturale si riferisce? Queste domande costringono tra l’altro a menzionare un altro riferimento culturale imprescindibile di Thomas Mann: Richard Wagner. In altre parole, nella contrapposizione Verdi-Wagner emerge ancora una volta la costellazione antagonistica già descritta. Ma proviamo a mettere ordine.

L’immagine manniana di Verdi viene influenzata in modo decisivo dallo scrittore austriaco Franz Werfel che nel 1924, mentre Thomas Mann è impegnato a concepire l’ultimo capitolo della Montagna magica, pubblica un romanzo su Verdi.[2] Vent’anni più tardi, Werfel – ora a Hollywood vicino di casa della famiglia Mann – cura una scelta di lettere verdiane tradotte in inglese.[3]Thomas Mann legge entrambe le opere con grandissimo interesse. Ma di questo si dirà in seguito con maggior precisione.

La ricezione manniana di Verdi in ultima analisi ruota intorno alla questione dell’identità culturale (che cos’è tedesco? cosa italiano?) e a quella dell’identificazione individuale con l’esistenza artistica del grande compositore italiano. L’interrogativo sulla propria identità è indissolubilmente legato a entrambi questi aspetti.

Per il primo dei tre livelli di ricezione – la ricezione della musica di Verdi – la fonte cui si può attingere con maggior agio sono i diari. È noto che Thomas Mann ha bruciato tutti i diari scritti prima del 1933 con l’eccezione di quelli relativi agli anni 1918-1921 che ha invece conservato, probabilmente in vista del progettato Doktor Faustus. Grazie a queste annotazioni diaristiche è possibile ricostruire piuttosto precisamente quale conoscenza Mann avesse di Verdi e con quale frequenza ascoltasse le diverse opere. Inoltre esse permettono di formulare delle ipotesi precise intorno ad alcune preferenze.

L’opera verdiana più frequentemente citata, nonché la prima ad essere nominata, è Aida. Dai primi mesi del 1919 al 1952 viene citata complessivamente nei diari venti volte. Alla fine dello stesso 1919 viene menzionato per la prima volta il Requiem: nel dicembre di quell’anno i coniugi Mann assistono al teatro Odeon di Monaco a un’esecuzione diretta da Bruno Walter.[4] Fino al 1949 si trovano nove riferimenti a quest’opera.

Altrettanto spesso è citato l’Otello. Nominato per la prima volta nel 1943[5], è l’ultima opera verdiana cui si riferisca il diario nel febbraio del 1955[6], sei mesi prima della morte di Mann.

La forza del destino (Mann scrive sempre e invariabilmente “Sforza del destino”) viene citata per la prima volta solo nel 1953[7], ma in compenso compare sette volte nei diari.

Rigoletto è menzionato cinque volte (dal 1920 al 1950), seguito da La traviata (quattro volte dal 1935 al 1947), Il trovatore (tre volte dal 1942 al 1948), Don Carlos (due volte, 1934 e 1937), Falstaff (due volte, 1935 e 1948), Un ballo in maschera (due volte, 1936 e 1950) e, infine, Macbeth (1935) e Nabucco[8]. Naturalmente non si può essere sicuri che Thomas Mann conoscesse di Verdi soltanto le opere citate nei diari. Tuttavia l’evidente mancanza di interesse per le opere “schilleriane” di Verdi (soltanto Don Carlos viene menzionato) è notevole, sebbene non casuale, come si mostrerà più oltre.

Dalle opere citate si possono senz’altro trarre deduzioni circa le preferenze di Mann, poiché nella maggior parte dei casi il diarista registra l’ascolto di dischi verdiani, e solo di rado parla di esecuzioni radiofoniche. In altre parole: Mann sceglie consapevolmente questa o quell’opera di Verdi. Di certo Mann possedeva registrazioni di Aida, Requiem, La traviata, Il trovatore, La forza del destino e Otello. I diari riferiscono inoltre di sei esecuzioni verdiane cui Mann ha assistito; prima fra tutte il già citato Requiem del 1919: “Quest’opera di Verdi […] è […] musica grandissima”.[9]Nel 1920 assiste nello Hoftheater di Monaco all’Aida: “Grande godimento. Ho tratto particolare piacere dal duetto finale, spesso ascoltato al grammofono[10]; nel 1935, durante il Festival di Salisburgo, è presente a un’esecuzione del Falstaff diretto da Toscanini: “fredda opera ironica della vecchiaia, ‘ultima parola’, incerta – non è niente, solo scherzo, gioco, inganno. Pallida danza di elfi”[11], e nel 1936 a Budapest a Un ballo in maschera: “esecuzione discreta”[12].

Nel 1951 Mann si reca nuovamente al Festival di Salisburgo, stavolta per l’Otello diretto da Wilhelm Furtwängler, ma lascia la sala anzitempo: “Ci rechiamo al salone del Festival. […] Veniamo condotti ai posti, che si rivelano stupidamente brutti e avvilenti al punto da farmi andar via pieno d’indignazione dopo la prima scena”.[13]

Nel 1954 ascolta per la seconda volta l’Otello – stavolta in una “poltrona di platea” alla Scala di Milano a conclusione del viaggio in Italia intrapreso in marzo – e lo trova “piacevole nonostante la stanchezza”.[14]

Sin qui l’elenco – utile ai fini di un primo orientamento – delle opere di Verdi menzionate da Thomas Mann nei diari. Gli appunti sono dei tipi più diversi: dalla scarna annotazione in cui il diarista riferisce di aver ascoltato una data opera fino al breve giudizio e alla riflessione più ampia. Particolarmente significativo è il contesto culturale e musicale entro cui Mann, in alcuni appunti, colloca Verdi e la sua opera. Già una delle prime annotazioni – in occasione dell’esecuzione monacense del Requiem nel dicembre del 1919 – offre un esempio molto significativo del modo in cui Thomas Mann recepisce l’opera verdiana. “Ascoltato il Requiem di Verdi nella bellissima esecuzione di Walter”, dice l’appunto, e prosegue:

Impressione: aspetti antipatici del cristianesimo in quanto religione rancorosa e servile dei mediocri. La sua grandezza: il culto pessimistico della morte e della tomba che significa tutto un mondo etico, salvatosi fin nel protestantesimo di Bach (Passione secondo Matteo) e totalmente ignoto all’antichità. L’opera di Verdi ha un’impronta nazionale italiana, ma è musica grandissima. L’aspetto affascinante è la commistione di culto della morte e pienezza di vita sensuale. […][15]

Anche qui vengono messi a confronto due opposti. A ben vedere si tratta, anzi, di una serie di opposti. Dapprima si parla di cristianesimo, e la prospettiva è quella di Nietzsche: il cristianesimo come “religione rancorosa e servile dei mediocri”. All’opposto di questo aspetto sta “il culto pessimistico della morte e della tomba” che significa “tutto un mondo etico”. Quale mondo? Innanzitutto un mondo che ha a che fare col protestantesimo e con Johann Sebastian Bach e che inoltre si contrappone all’antichità. Un mondo, infine, che Thomas Mann descrive con straordinaria pregnanza nelle Considerazioni di un impolitico del 1918 (nel capitolo Politica estetistica). Dove compaiono, concentrati in uno spazio ristrettissimo, i rappresentanti di questo stesso mondo tutti insieme e contemporaneamente:

[…] il Nietzsche […] per me più valido e destinato, per la mia natura, a incidere più a fondo sulla mia formazione, fu quello che era e che sempre è rimasto vicinissimo a Wagner e a Schopenhauer, quello che di tutta l’arte figurativa aveva scelto e onorato di amore costante un quadro: Il cavaliere, la morte e il diavolo di Dürer; quello che […] aveva espresso il suo naturale diletto per tutta l’arte e la filosofia dove si potesse cogliere ‘l’aura etica, il sentore faustiano, croce, morte e sepolcro’: parole che io subito assunsi a simbolo di un intero mondo, il mio mondo, un mondo nordico, moralistico, protestante, quanto dire un mondo tedesco […].[16]

Di contro a questo specifico mondo tedesco-nordico stanno, da un lato, l’antichità, e dall’altro il Requiem di Verdi. Quest’opera ha “un’impronta nazionale italiana”, ma al contempo è “grandissima musica”. La grandezza, “l’aspetto affascinante” di questa musica sembra risiedere, per Thomas Mann, nel fatto che essa si oppone al mondo etico, nordico-protestante da cui egli stesso deriva: nel Maestro italiano Mann trova una “commistione di culto della morte e pienezza di vita sensuale” al posto dell’esclusivo “culto pessimistico della morte e della tomba”, la sintesi al posto della contraddizione insuperabile; in una parola: Verdi al posto di Dürer (e forse anche di Bach).

Meno di due mesi dopo, nel febbraio del 1920, il diario riferisce della già citata sera trascorsa insieme a Bruno Walter durante la quale l’ospite ha suonato “Verdi, Rossini, Bohème, Lohengrin, Rubinstein, Čajkovskij, Chopin”. Thomas Mann annota non solo il piacere procuratogli dalla musica, ma aggiunge pure, nello stile telegrafico tipico delle annotazioni di diario, un giudizio a prima vista criptico:

Verdi, una sorgente primigenia, risulta talvolta tedesco a paragone di Puccini. In Rubinstein e anche in Chopin, nonostante il livello, si avverte chiaramente il tono salottiero-mondano, abbellito, da bis di lusso della musica non tedesca. Ma la scena d’amore della Bohème è straordinariamente tenera e amabile.[17]

Sulle prime questa affermazione può sorprendere. Mann non aveva forse scritto, solo due mesi prima, che il Requiem di Verdi reca “un’impronta nazionale italiana”? E che cosa mai può essere inteso come un Verdi “tedesco”? Per poter rispondere a queste domande appare indispensabile prestare attenzione al contesto in cui l’affermazione è collocata. Innanzitutto ci sono i protagonisti: Verdi, Rossini, Puccini, Wagner, Rubinstein, Čajkovskij, Chopin. Tre italiani, due russi, un polacco per metà francese. C’è poi il tema: ‘musica tedesca’ versus ‘musica non tedesca’. Quest’ultima viene descritta in modo relativamente preciso con i termini “salottiero-mondano”, “abbellito”, “da bis di lusso” – una sorta di variante musicale della letteratura della civilizzazione. Interessante appare, però, che questo polo musicale extratedesco non viene contrapposto a Wagner, bensì esplicitamente a Verdi. Su di lui – anche sintatticamente – cade l’accento. È lui a essere chiamato in causa nel passaggio-chiave dell’annotazione con un termine che senza dubbio proviene dal complesso di idee della cultura e non da quello opposto della civilizzazione: Verdi è infatti una “sorgente primigenia”. Thomas Mann, in verità, ha amato per tutta la vita la Bohème di Puccini (come si comprende già dal passaggio finale della citazione); ma questo non gli impedisce di inserire Puccini ancora nel 1943 – più di vent’anni dopo – in un universo concettuale collegato strettamente, fin dal tempo delle Considerazioni, alla civilizzazione: quello designato dalla formula “italienische bellezza”. Tale formula – sempre contraddistinta da una valenza emotiva che tradisce un’irritazione profonda – affiora per la prima volta nel 1903 all’interno del Tonio Kröger: “Oh Dio, smettetela una buona volta con l’Italia”, dice Tonio alla sua amica russa Lisaveta, “Tanta bellezza m’innervosisce”.[18] L’universo concettuale della bellezza Thomas Mann utilizza per lo più esplicitamente il termine italiano – si estende sia alla dimensione personale che a quella politica. “Bellezza” ha a che fare tanto con l’estetica del fratello Heinrich quanto con la vera e propria personificazione del concetto stesso, vale a dire Gabriele d’Annunzio, di cui Benedetto Croce dice nel 1927, nella sua Storia d’Italia dal 1871 al 1915, che egli è ovunque riconosciuto come “deputato della Bellezza”.[19] Com’è noto, d’Annunzio viene preso aspramente di mira nelle Considerazioni, non solo in quanto letterato della civilizzazione, bensì anche – e questo in modo molto più velato – come romanziere che ha certamente giocato un ruolo importante fin dall’epoca dei Buddenbrook.

Ma torniamo a Verdi e Puccini. Nel nostro contesto è significativo che Puccini e non Verdi venga associato alla dimensione della “bellezza”. Per dirla altrimenti: in un momento in cui l’antinomia cultura / civilizzazione continua a giocare un ruolo importante nel pensiero di Thomas Mann – come accade negli anni Venti – l’orizzonte musicale italiano viene classificato in base all’antinomia: ‘sorgente primigenia’ / ‘bellezza’. Assai più tardi, nel 1945, durante l’esilio americano, Mann perviene a una sintesi di questa polarizzazione, che verosimilmente l’avrebbe fatto rabbrividire al tempo delle Considerazioni. Sarà interessante vedere che anche in questo caso le riflessioni manniane ruotano intorno a Verdi. Ma vi sono ancora altre tappe prima di poter arrivare a questo punto.

Parlando del contesto culturale e musicale in cui i diari di Mann collocano l’opera di Giuseppe Verdi, non è possibile eludere una domanda ben precisa: viene istituito un qualche nesso tra la sua opera e quello specifico contesto culturale e musicale che per Mann ha notoriamente giocato un ruolo decisivo per tutta la vita, insomma: Verdi viene recepito anche sullo sfondo di Wagner? Di certo non è un caso che con questa domanda ci avviciniamo al secondo livello della ricezione manniana di Verdi, vale a dire quello letterario.

Tra il 1912 e il 1913 Thomas Mann comincia a scrivere La montagna magica. Nel 1914 il lavoro viene però interrotto per essere ripreso solo nella primavera del 1919 e concluso nel 1924. Nel momento della ripresa il diario registra con vistosa frequenza considerazioni su Aida. Particolarmente significativa appare un’annotazione del febbraio 1920, mentre Mann è immerso nel lavoro al romanzo. L’autore riferisce di aver trascorso alcuni giorni nella casa di campagna di un amico nei dintorni di Monaco:

Il clou del soggiorno: il suo ottimo grammofono, che io e K. […] abbiamo fatto suonare in continuazione. L’ouverture del Tannhäuser. Bohème. Il finale dell’Aida (amore e morte all’italiana). Caruso, Battistini, la Melba, Titta Ruffo ecc. Nuovo motivo per la ‘Montagna magica’, una scoperta sia intellettuale che puramente epica.[20]

Wagner, Puccini, Verdi. A ben vedere la presenza di Wagner è, qui, duplice. Vi è da una parte il riferimento al Tannhäuser, dall’altra quello indiretto a Tristan und Isolde, posto in connessione con il finale dell’Aida: “amore e morte all’italiana”. La morte di Radamès e Aida viene qui esplicitamente messa in relazione a quella di Tristano e Isotta. L’annotazione, però, parla ancora di altro: nientemeno che di un nuovo motivo per il romanzo e inoltre di una “scoperta sia intellettuale che puramente epica”. Il motivo è, evidentemente, quello del grammofono che nell’ultimo capitolo della Montagna magica (nella sezione intitolata “Dovizia di armonie”) ha il compito di guidare l’azione. Come il suo autore, anche Hans Castorp fa suonare in continuazione “quella piccola bara di legno da violino”[21]. Ma la coincidenza va ancora oltre e giunge fino alla scelta del programma: Castorp ascolta le stesse melodie (e nella stessa sequenza) del diarista, e cioè: «Blick’ ich umher in diesem edlen Kreise» (Tannhäuser) (MM 956), «Dammi il braccio, mia piccina» (Bohème) (MM 956) e Aida e qui cade la “scoperta sia intellettuale che epica”:

Un gruppetto di dischi offriva le scene finali dell’opera pomposa ma traboccante di genio melodico che un grande conterraneo del signor Settembrini, supremo maestro della musica drammatica meridionale, aveva composto su incarico di un principe orientale, nella seconda metà del secolo precedente, per un’occasione solenne, la consegna all’umanità di un’impresa tecnica destinata a unire i popoli. Hans Castorp, per propria scienza, ne sapeva qualcosa, conosceva a grandi linee il destino di Radamès, di Amneris e di Aida, che inviavano a lui il loro canto in italiano dalla cassa […]. (MM 959)

Castorp ha le sue preferenze, e l’autore non manca di informarne il lettore: “Aveva, in quel deposito, i suoi dischi prediletti, alcuni brani vocali e strumentali che non si stancava di riascoltare.” (MM 958) Aida non fa solo parte di questo “programma preferito” (MM 962), ma rappresenta anche il pezzo che più gli tocca il cuore. Al secondo posto c’è il Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy, al terzo il secondo atto della Carmen, al quarto il secondo atto del Faust di Gounod e all’ultimo, infine, il Lied Der Lindenbaum («Am Brunnen vor dem Tore») tratto dal ciclo Winterreise di Schubert, dietro al quale si nasconde, come subito si vedrà, Wagner.

Alla parafrasi letteraria dell’Aida e alle riflessioni ad essa connesse Mann dedica quattro pagine. Altrettante ne dedica al Lindenbaum. Già questo dato rivela la particolare importanza che l’autore della Montagna magica assegna a queste due opere musicali. E certamente l’arco che si distende da Verdi a Der Lindenbaum (e indirettamente a Wagner), non è casuale. Prima di volgerci a questo aspetto, sarà però opportuno porci la domanda: quale funzione svolge l’Aida all’interno del romanzo? Castorp ascolta l’ultimo atto dell’Aida. I passi dedicati a questo tema si muovono su due livelli: da un lato vi è la parafrasi letteraria dell’accadimento musicale, dall’altro il commento del narratore. Questo commento consente di trarre delle conclusioni relative alla funzione del procedimento intertestuale. Ecco la parafrasi della prima scena dell’atto finale:

Dapprima avveniva un confronto tra Radamès e Amneris: la figlia del re faceva condurre al proprio cospetto l’uomo in catene, oggetto del suo amore, desiderando ardentemente di salvarlo benché egli, per amore della schiava barbara, avesse sacrificato la patria e l’onore … anche se, come egli cantava, «Ma puro il mio pensiero / E l’onor mio restò». Però quell’intima purezza, al cospetto di tutte le colpe di cui si era macchiato, a poco gli giovava, tanto che, a causa dei suoi palesi crimini, veniva rimesso al tribunale religioso il quale, estraneo a tutte le cose degli uomini, certo non si sarebbe fatto tanti scrupoli, a meno che, proprio all’ultimo istante, Radamès non si fosse deciso a rinnegare la schiava gettandosi tra le braccia del contralto regale dal bel passaggio di registro che, almeno dal punto di vista acustico, se lo sarebbe meritato appieno. Amneris profondeva con passione ogni sforzo per salvare l’armonioso tenore, tragicamente accecato e avverso alla vita, che non faceva che ripetere «Nol posso!» e «È vano!» mentre lei lo pregava disperatamente di rinunciare alla schiava, poiché ne andava della sua stessa vita. «Nol posso!» – «Anco una volta, a lei rinuncia!» – «È vano!» Un mortale accecamento e la più ardente pena d’amore si univano in un duetto di straordinaria bellezza che, però, non lasciava speranza. Poi Amneris accompagnava con le sua grida di dolore le formule tremende ripetute dal tribunale religioso che cupamente risuonavano dalla cripta, mentre lo sventurato Radamès neppure vi badava.

«Radamès, Radamès» incalzò col suo canto il gran sacerdote, e gli espose con violenza l’accusa di alto tradimento.

«Discolpati!» gli ingiunsero in coro i sacerdoti tutti.

Ma poiché colui che presiedeva il tribunale fece notare che Radamès taceva, quelli, nella loro cupa umanità, constatarono che egli si era macchiato del crimine di tradimento.

«Radamès, Radamès!» ricominciò il capo. «Tu disertasti dal campo il dì che precedea la pugna.»

«Discolpati!» si udì un’altra volta. «Egli tace …» dovette constatare per la seconda volta l’assai prevenuto presidente del dibattimento, e così tutte le voci dei giudici si unirono di nuovo alla sua nel ripetere il verdetto: «Traditor!».

«Radamès, Radamès!» si udì ripetere per la terza volta l’inesorabile accusatore. «Tua fe’ violasti, alla Patria spergiuro, al Re, all’onor.» Nuovamente echeggiò il «Discolpati!». E finalmente i sacerdoti riconobbero con orrore: «Traditor!», dopo che fu loro fatto notare come Radamès fosse rimasto in assoluto silenzio. Così, alla fine, non fu più possibile evitare l’inevitabile, e il coro, sempre unanime nelle sue voci, annunciò al malfattore che con giusto verdetto il suo destino era stato deciso, che gli sarebbe toccata la morte degli infami, e che, vivo, sarebbe sceso nella tomba sotto il tempio della sdegnata divinità. (MM  959-960)

A questo punto la parafrasi narrativa si interrompe poiché Hans Castorp deve “cambiare disco” (MM 961), e quella successiva inizia con il duetto finale di Radamès e Aida nell’ultima scena. Questo espediente narrativo permette all’autore di passare direttamente dal motivo della morte e della tomba appena evocato a quello del luogo degli avvenimenti, vale a dire il sotterraneo in cui si svolge l’ultima scena dell’Aida. Ma qui, nella parafrasi di questa precisa scena, muta la modalità della narrazione, dapprima in misura quasi impercettibile, poi in maniera sempre più evidente. In altre parole, si determina un passaggio dalla parafrasi degli accadimenti alla loro riflessione commentata. Nelle successive due pagine dedicate alla scena del sotterraneo non si trova più una rinarrazione degli eventi, bensì una descrizione dell’effetto che la musica esercita su Hans Castorp. E nel caso di Thomas Mann non stupisce di certo che tale effetto sia descritto in chiave schopenhaueriana. Com’è noto, l’effetto consolatorio della musica dipende, per Schopenhauer, dal fatto che in essa – in quanto sedativo della volontà – è anticipata la redenzione. E a tale concetto, unito a quello della consolazione, si fa abbondantemente riferimento nei passaggi dedicati alla scena del sotterraneo:

Si parlava di cielo in quei canti, ma erano essi stessi canti celesti, e celestiale era il modo in cui venivano eseguiti. La linea melodica che le voci di Radamès e Aida disegnavano insaziabili, prima da sole, poi insieme, quella semplice e beata curva oscillante tra la tonica e la dominante che nell’ascendere dalla nota fondamentale indugiava con un marcato ritardando sul semitono antecedente l’ottava e, dopo aver brevemente sfiorato quest’ultima, ripiegava sulla quinta, pareva all’uditore la musica più trasfigurata e mirabile che mai gli fosse accaduto di ascoltare. […] Ma ciò che in ultima analisi egli sentiva, capiva e godeva, mentre osservava con le mani giunte la piccola persiana nera dai cui listelli tutto questo sbocciava, era la vittoriosa idealità della musica, dell’arte, dell’animo umano, l’alto e irrefutabile abbellimento che essi concedono all’orribile volgarità delle cose reali. (MM 961-962; il corsivo è mio)

L’esperienza musicale di Castorp qui descritta è, del tutto evidentemente, un’esperienza che nella sua intensità confina con un’esperienza religiosa. Conseguentemente non è l’aspetto sobrio e oggettivo della scena a commuoverlo principalmente, ma assai più la capacità di trasfigurarlo che la musica dimostra:

Bastava che uno si raffigurasse lucidamente ciò che sarebbe accaduto in quella tomba! Due sepolti vivi avrebbero trovato la morte insieme, o, peggio ancora, uno dopo l’altro, per i crampi della fame, coi polmoni ingombri dei gas della cripta, dopo di che la putrefazione avrebbe compiuto sui loro corpi la sua impronunciabile opera fino a quando, sotto quelle volte, non sarebbero rimasti che due scheletri, del tutto indifferenti e insensibili, sia l’uno che l’altro, al fatto di essere soli o in compagnia. Questo era il lato reale e concreto delle cose … ma quel lato e quella realtà non venivano di per sé presi in considerazione dall’idealismo del cuore, messi com’erano trionfalmente in ombra dallo spirito della bellezza e della musica. Per gli animi operistici di Radamès e Aida ciò che concretamente li aspettava non esisteva affatto. Le loro voci si levavano all’unisono fino al beato ritardando dell’ottava, nella certezza che il cielo si sarebbe dischiuso, e al loro struggente desiderio avrebbe arriso lo splendore dell’eternità. La forza consolatrice di questo abbellimento faceva incredibilmente bene all’uditore […]. (MM 962)

Tramite la scena finale dell’Aida vengono quindi descritte e attribuite a Hans Castorp la concezione e l’esperienza della musica schopenhaueriane. È evidente che in questo modo viene conferita a Verdi e alla sua opera un’importanza di prim’ordine. Tale importanza appare ancora maggiore grazie alla presenza indiretta di Wagner: già nel diario il “finale dell’Aida” era stato definito, con chiaro riferimento a Tristan und Isolde, “amore e morte all’italiana”. E Wagner torna ancora, come già si è accennato, nell’ultimo dei pezzi prediletti da Hans Castorp, nel Lied Der Lindenbaum. Richiamandosi nuovamente al Tristan, Mann definisce il Lied “un frutto vitale generato dalla morte e gravido di morte” (MM 973). Ma c’è di più: la descrizione del Lied avviene chiaramente sulla base di un inventario concettuale desunto dalla critica manniana a Wagner. L’ “inclinazione amorosa” (MM 972) che Hans Castorp sente verso quella sfera cui appartiene il Lied è fuor di dubbio, assicura il narratore. Castorp è tutto fuorché immune nei confronti di tale “incantamento dell’anima” (MM 973), inscenata per l’appunto da quel “magico incantatore d’anime” che mira a “soggiogare il mondo” (MM 973). Ma conseguentemente emergono qui anche quei concetti che Thomas Mann ha opposto per tutta la sua vita alla tentazione wagneriana: “simpatia per la vita” e “vittoria su se stessi” (MM 973). I due concetti possono essere tradotti nella loro personificazione: antagonista (‘simpatia per la vita’ contro ‘simpatia per la morte’) e superatore (‘vittoria su se stessi’), in altre parole: Verdi e Nietzsche, del quale Thomas Mann parla spesso, com’è noto, definendolo il ‘superatore’ di Wagner. E per quanto riguarda la simpatia per la vita di provenienza verdiana, già l’annotazione del diario monacense del 1919 aveva sottolineato a proposito dell’esecuzione del Requiem non solo l’insito “culto della morte”, ma per l’appunto anche l’insita “pienezza di vita sensuale”. L’antagonista Verdi e il superatore Nietzsche sembrano essere i due antidoti che l’autore mette a disposizione del suo eroe Hans Castorp per fronteggiare la tentazione ‘Wagner’.

Alla genesi di questa immagine di Verdi ha sicuramente contribuito il romanzo di Franz Werfel Verdi. Roman der Oper.[22] Il libro appare nel 1924, proprio mentre Thomas Mann lavora all’ultimo capitolo della Montagna magica e quindi alla sezione Dovizie di armonie. Nel giugno dello stesso anno egli scrive a Ernst Bertram che raramente un romanzo l’ha catturato tanto quanto quello che ha letto negli ultimi giorni, cioè proprio il romanzo di Werfel su Verdi. Mann ritiene il libro “straordinariamente interessante” e lo consiglia “incondizionatamente” a Bertram: “Immagini l’ambiente: Venezia. I personaggi principali: Verdi e Wagner. L’oggetto spirituale: sud e nord”.[23]

Qui si parla di una sfera spirituale comune, nel 1924, sia all’autore delle Considerazioni sia a quello del libro mitologizzante su Nietzsche. Oltre a ciò però il giudizio entusiasta di Mann è indubbiamente motivato anche dal fatto che egli poteva trovare nel lavoro di Werfel stimoli per il capitolo sulla musica del proprio romanzo in fieri. In seguito Mann esprimerà ripetutamente un giudizio positivo a proposito del romanzo werfeliano. Nel saggio Cosmopolitismo (1925) scrive ad esempio (e anche in questo caso vengono contrapposti Verdi e Wagner):

Il caso Wagner, un caso eternamente affascinante, dimostra inoltre quale parte abbia già svolto nel mondo quel germanesimo che si è abituati a considerare un elemento conservatore, una forma di pia ingenuità: quella cioè del dissolvimento, del più inquietante europeismo. È questo il tema del romanzo su Verdi di Franz Werfel, un romanzo forse non del tutto riuscito, ma di straordinario interesse, e Lesser, il mio maestro, ne parla nel saggio […] da cui cito: ‘L’assoluta diversità’, dice, ‘tra la popolare, antica, santa melodia italiana di Verdi, e la musica metafisica e dialettica, l’intellettualistica raffinatezza europea di Wagner … La profonda diversità anche tra i due uomini: la timidezza impacciata, il distacco dalla realtà di Verdi; il desiderio del mondo, la peccaminosa volontà di vittoria di Wagner …’. Sono cose che leggo con una simpatia che confina con la passione. ‘La musica metafisica e dialettica’ –  non si può dir meglio. Ma forse che nella stessa Germania, Wagner, maestro e incantatore, ha mai esercitato un influsso diverso da quello che esercitò allora in Italia, quando distaccò da Verdi la gioventù di quel paese, attirandola nella sua europea, intellettualistica montagna magica? La sua missione, anche tra noi, nonostante un eccesso di anima tedesca con la quale inumidiva il suo bell’occhio azzurro, è mai stata altra che quella del dissolvimento e della metamorfosi cosmopolita […]? È una domanda storica, non solo, ma una domanda che rivolgiamo alla nostra coscienza.[24]

In termini simili, anche se meno ampiamente, Mann si esprime nel 1929 all’interno della prefazione a un catalogo svedese di libri stranieri (Vorwort zu dem Katalog ‘Utländska Böcker 1929’), quando afferma che poche opere degli ultimi anni lo hanno catturato tanto quanto il romanzo di Werfel, “grazie alla contrapposizione appassionata e magistrale dello spirito d’arte del sud e quello del nord”.[25]  E ancora nel ricordo di Werfel redatto nel 1945 emerge il medesimo filo rosso, quello dell’antinomia culturale tra nord e sud. “Verdi”, scrive Mann, è un “romanzo ricco di sapere sull’arte e di psicologia dell’artista e infinitamente interessante che tratta della dialettica culturale europea rappresentata dalla persona di Verdi e da quella di Wagner, tutte e due colte con grande profondità e alla pari”.[26]

Con la categoria di ‘psicologia dell’artista’ siamo giunti al terzo e ultimo livello della ricezione di Verdi da parte di Thomas Mann, vale a dire all’interesse, citato all’inizio, per l’artista Verdi. È interessante notare che un ruolo decisivo lo gioca qui, ancora una volta, Franz Werfel. Nel 1942 proprio Werfel, insieme al compagno d’esilio Paul Stefan, pubblica a New York una scelta di lettere di Verdi in lingua inglese.[27]Il libro ha una sua storia. Quasi vent’anni prima, a Vienna, nel 1926, i due curatori avevano pubblicato una scelta di lettere di Verdi in tedesco,[28] basata quasi esclusivamente sulla raccolta italiana del 1913 intitolata I copialettere[29]. All’epoca le lettere erano state tradotte da Paul Stefan. Successivamente erano usciti diversi epistolari di Verdi in italiano, che l’edizione inglese del 1942 prende in considerazione: le Lettere inedite di Giuseppe Verdi pubblicate a Milano nel 1929,[30] le due antologie, apparse anch’esse a Milano nel 1931, intitolate Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene[31] e Giuseppe Verdi nelle lettere di Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi,[32] oltre ai Carteggi verdiani pubblicati a Roma nel 1935 dalla Reale Accademia d’Italia.[33] Nel 1942 l’edizione inglese dei carteggi e quella precedente viennese costituiscono le uniche due traduzioni esistenti di epistolari verdiani.

Franz Werfel e sua moglie, Alma Mahler, sono frattanto emigrati negli Stati Uniti nel 1940. In California fanno parte della cerchia più intima degli amici di Thomas Mann. Ma l’esilio americano di quest’ultimo è a sua volta legato strettissimamente al nome di Agnes E. Meyer, una giornalista e storica dell’arte e della letteratura tedesco-americana, moglie di Eugene Meyer, proprietario del “Washington Post”. Fu lei a intervenire in modo decisivo per convincere Thomas Mann a emigrare negli USA, contribuendo in maniera essenziale a far sì che lì le sue condizioni di vita si distinguessero profondamente (e vantaggiosamente) da quelle degli altri emigranti. Mann le ha dedicato due monumenti letterari: la figura di Thamar nel Giuseppe e la signora von Tolna nel Doktor Faustus. Tuttavia il più importante documento relativo al loro rapporto, non sempre privo di screzi, è il carteggio che racchiude in più di 800 pagine un periodo di circa vent’anni.[34] In esso si trovano anche rimandi a Verdi che appaiono estremamente significativi nel nostro contesto.

All’inizio del maggio 1942 Mann lavora all’ultima parte della tetralogia di Giuseppe e scrive a Agnes E. Meyer:

Bermann e Landshoff hanno pubblicato un bel libro: le lettere di Verdi con una sentita introduzione di Werfel. Una stupenda figura, tutto sommato, infinitamente più nobile di quella del suo formidabile antagonista R.Wagner. Rimasi profondamente commosso dalla lettera ch’egli scrisse a Ricordi sotto l’impressione della morte di Wagner: ‘Triste, triste, triste!’. E poi parla della ‘potente’ influenza dell’opera wagneriana sulla storia dell’arte, dove cancella la parola ‘potente’ e la corregge in ‘potentissima’. Magnifico! Eppure aveva veramente sofferto per quel genio straniero e sapeva che Wagner lo aveva disprezzato.[35]

Finora abbiamo seguito le tracce della musica di Verdi nella ricezione letteraria e extraletteraria di Thomas Mann. Nel carteggio con Agnes E. Meyer, l’accento cade sulla persona di Verdi. E di questa persona a Mann interessano tre aspetti: l’antagonista di Wagner, l’artista e il politico.

Dell’antagonismo Verdi-Wagner si è già parlato in relazione alla loro musica. Qui, nel carteggio con l’amica americana, tale antagonismo appare trasfigurato a un altro livello, universale-umano. E perciò ora, in Thomas Mann che da sempre è interessato al conflitto tra fratelli, inteso non tanto in senso strettamente familiare, quanto piuttosto come dinamica fra due soggetti che entrano in contrasto a causa di un’eccessiva (e inconfessata) vicinanza o somiglianza reciproche, subentra l’identificazione.

Nel caso di Verdi, da che cosa è “profondamente commosso” Mann? Dalla sua grandezza di uomo che appare interamente proprio nel confronto con la statura umana di Wagner. Ma che cosa contribuisce in modo decisivo a questa sua grandezza? Il riconoscimento del genio a lui estraneo che, si sa, non era reciproco: quando nel 1904 al figlio di Wagner, Siegfried, fu chiesto cosa suo padre avesse pensato di Verdi, egli rispose che di cose del genere non avevano mai parlato.[36]

Ecco in seguito il testo originale della lettera di Giuseppe Verdi del 14 febbraio1883 aGiulio Ricordi e il testo in traduzione inglese letto da Thomas Mann:

Triste Triste Triste!

Wagner è morto!

Leggendone jeri il dispaccio ne fui, stò per dire, atterrito[.] Non discutiamo. – È una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un’impronta potentissima nella Storia dell’Arte![37]

Sad sad sad!

Wagner is dead!

When I read the news yesterday, I may truly say I was completely crushed. Let us not discuss it. It is a great personality that has disappeared. A name which leaves a mighty imprint upon the history of art.[38]

Nell’ introduzione di Franz Werfel questa lettera è esplicitamente messa in risalto e commentata:

It is impossible to study the facsimile of this letter long enough. First, the ‘Triste triste triste’, with no commas, the words breathed on paper in almost tremulous script. It is unquestionably a magnanimous expression of true regret, behind which no secret satisfaction can hide. […] most striking of all, Verdi has crossed out the adjective ‘mighty’ (potente), replacing it with the superlative ‘most mighty’ (potentissima).[39]

Nella lettera ad Agnes E. Meyer dunque, Mann si richiama implicitamente all’introduzione di Werfel (citazione di parole italiane, la cancellazione di “potente” e la sostituzione con “potentissima”). Una settimana dopo egli scrive di nuovo alla Meyer, e nuovamente si parla di Verdi: “Le lettere degli artisti hanno sempre esercitato un particolare fascino su di me, e queste in modo speciale.”[40] Ma Mann prova un sentimento di identificazione non solo con riferimento alla parola-chiave antagonista, bensì anche e naturalmente con riferimento al concetto di artista, che tocca la sua stessa identità. Può casomai sorprendere maggiormente che tale identificazione si estenda anche a un’ulteriore dimensione, quella politica. Le lettere di Verdi, prosegue Mann nella lettera, sono “anche in campo politico […] assai commoventi. Il suo cruccio per l’abbattimento della Francia, nel 1871, è profetico”. È la dimensione europea della visione politica di Verdi che lo interessa. La libertà che notoriamente caratterizza il rapporto di Mann con le fonti, non si arresta neanche di fronte alle lettere di Verdi: per comunicare alla sua interlocutrice le visioni di Verdi sugli equilibri politici europei, egli fa ricorso alla tecnica del montaggio a lui cara da sempre e fonde due lettere di Verdi – una a Opprandino Arrivabene del 13 settembre 1870 e l’altra a Clarina Maffei del 30 settembre 1870 – in un’unica citazione: “The european war is unavoidable, and if France were saved we should be safe too”, cita Verdi in inglese. Mann commenta: “Teme tutto dai tedeschi”, e dà poi di nuovo la parola a Verdi:

‘They are monstruously proud, hard, intolerant, rapacious beyond measure and scornful of everything that is not German. A people of intellect without heart – a strong people but they have no grace. […] What now? I should have preferred to have our government follow a more generous policy, and pay a debt of gratitude. A 100.000 of our men might have saved France. Anyhow I would rather have signed a peace after being defeated along with France, than to have been a passive spectator. That we are doing this will expose us to contempt some day. We shall not escape the European war and it will engulf us’.[41]

Qui termina la citazione. Ma la lettera di Thomas Mann prosegue:

Come ha visto giustamente la situazione, un semplice compositore d’opere ma con l’istinto dell’europeo della cultura. È stata una mancanza d’istinto il fatto che la civilizzazione non si sia unita già contro quel cannibale geniale di Bismarck. E che progressi ha fatto, da allora, nella mancanza d’istinto![42]

Lo spunto per queste riflessioni sono le riflessioni politiche di Verdi, la cui persona, per Mann, rappresenta un complesso concettuale del tutto nuovo rispetto alle Considerazioni: quello che unisce cultura, Europa e civilizzazione. Il fatto che Giuseppe Verdi, dal punto di vista politico, sia un rappresentante della civilizzazione occidentale è relativizzato, nella prospettiva di Mann, già dalla sua arte che, lo si è visto, ha a che fare assai più con la cultura che non con la civilizzazione. Ma questa antinomia – non i concetti in quanto tali – risulta obsoleta nel 1942. E per tale ragione, nel mezzo di una guerra che, al confronto con la precedente, si fonda su presupposti ideologici completamente diversi, Giuseppe Verdi può apparire a Thomas Mann come il rappresentante di una sintesi europea che vent’anni prima sarebbe stata inimmaginabile.

Elisabeth Galvan

La prima versione del presente saggio, “Verdi, una sorgente primigenia, risulta talvolta tedesco, a paragone di Puccini”. Riflessioni su Thomas Mann e Giuseppe Verdi, è apparsa nel volume Verdi e la cultura tedesca – La cultura tedesca e Verdi. Verdi und die deutsche Kultur – Die deutsche Kultur und Verdi, a cura di Markus Engelhardt, Pierluigi Pietrobelli e Aldo Venturelli, Istituto Nazionale di Studi Verdiani/Centro italo-tedesco Villa Vigoni, Parma 2003, pp. 163-179.


[1] Thomas Mann, Tagebücher 1918-1921, a cura di Peter de Mendelssohn, Frankfurt a.M., Fischer 1979, p. 380 (17 febbario 1920) (in seguito come Tb. 1918-1921).

[2] Franz Werfel, Verdi. Roman der Oper, Berlin, Zsolnay 1924; Verdi. Romanzo dell’opera, trad. it. di Willy Dias, Milano, Treves 1929.

[3] Verdi. The man in his letters, edited and selected by F. Werfel and P. Stefan, New York, L.B. Fischer 1942.

[4] Tb. 1918-1921, p. 347 (21 dicembre 1919).

[5] Thomas Mann, Tagebücher 1940-1943, a cura di Peter de Mendelssohn, Frankfurt a.M., Fischer 1982, p. 527 (23 gennaio 1943).

[6] Thomas Mann, Tagebücher 1953-1955, a cura di Inge Jens, Frankfurt a.M., Fischer 1995, p. 312 (6 febbraio 1955) (in seguito come Tb. 1953-1955).

[7] Ivi, p. 55 (2 maggio 1953).

[8] “A sera ascoltammo una sconosciuta opera di Verdi ‘Nebukadnezar’.“ (Thomas Mann, Tagebücher 1951-1952, a cura di Inge Jens, Frankfurt a.M., Fischer 1993, p. 71 [9 giugno 1951]) (in seguito come Tb. 1951-1952).

[9] Tb. 1918-1921, p. 347 (21 dicembre 1919) (come nota 4).

[10] Tb. 1918-1921, p. 403 (21 marzo 1920).

[11] Thomas Mann, Tagebücher 1935-1936, a cura di Peter de Mendelssohn, Frankfurt a.M., Fischer 1978, p. 165 (26 agosto 1935).

[12] Ivi, p. 313 (9 giugno 1936).

[13] Tb. 1951-1952, p. 90 (12 agosto 1951).

[14] Tb. 1953-1955, p. 190 (5 marzo 1954).

[15] Tb. 1918-1921, p. 347 (21 dicembre 1919) (come nota 4).

[16] Thomas Mann, Considerazioni di un impolitico, a cura di Marianello Marianelli e Marlies Ingenmey, Milano, Adelphi 1997, p. 539.

[17] Tb. 1918-1921, p. 380 (17 febbraio 1920).

[18] Thomas Mann, Tonio Kröger, trad. di Emilio Castellani, in Th. M., Tutte le opere, a cura di Lavinia Mazzucchetti, Milano, Mondadori 1956, vol. II, p. 488. Il termine bellezza nel testo originale in italiano.

[19] Benedetto Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari, Laterza 1967, p. 200.

[20] Tb. 1918-1921, p. 375 (10 febbraio 1920).

[21] Thomas Mann, La montagna magica, a cura e con un’introduzione di Luca Crescenzi, trad. di Renata Colorni, Milano, Mondadori 2010, p. 958 (in seguito come MM, seguito dalla pagina, direttamente nel testo dopo la citazione).

[22] Vedi sopra nota 2.

[23] Thomas Mann an Ernst Bertram. Briefe aus den Jahren 1910-1955, a cura di Inge Jens, Pfullingen, Noske 1960, p. 128.

[24] Thomas Mann, Cosmopolitismo, trad. di Italo Alighiero Chiusano, in Th. M., Nobiltà dello spirito e altri saggi, a cura di Andrea Landolfi, pp. 1585-1592, qui p. 1591 sg. Traduzione da me leggermente modificata.

[25] Thomas Mann, Gesammelte Werke in dreizehn Bänden, Frankfurt a.M., Fischer, vol. X, p. 724. La traduzione – anche nel caso della citazione seguente – è mia.

[26] Thomas Mann, Franz Werfel †, in ivi, p. 500 sg.

[27] Cfr. sopra nota 3.

[28] Giuseppe Verdi, Briefe, a cura e con un’introduzione di Franz Werfel, trad. di Paul Stefan, Wien, Zsolnay 1926.

[29] I copialettere di Giuseppe Verdi pubblicati e illustrati da Gaetano Cesari e Alessandro Luzio e con prefazione di Michele Scherillo, Milano, Stucchi Ceretti 1913.

[30] Giuseppe Verdi, Lettere inedite raccolte e ordinate da G. Morazzoni, Milano, La Scala e il museo teatrale 1929.

[31] Verdi intimo. Carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), raccolto e annotato da Annibale Alberti, con prefazione di Alessandro Luzio, Milano, Mondadori 1931.

[32] Giuseppe Verdi nelle lettere di Emanuele Muzio ad Antonio Barezzi, a cura di Luigi Agostino Garibaldi, Milano, Treves 1931.

[33] Carteggi verdiani, a cura di Alessandro Luzio, Roma, Reale Accademia d’Italia 1935.

[34] Thomas Mann – Agnes E. Meyer, Briefwechsel 1937-1955, a cura di Hans Rudolf Vaget, Frankfurt a.M., Fischer 1992.

[35] Thomas Mann, Lettere, a cura di Italo Alighiero Chiusano, Milano, Mondadori 1986, p. 474 (lettera del 5 maggio 1942). Nell’originale tedesco le parole „triste“, „potente“ e „potentissima“ sono riportate in italiano (Th. Mann – A. E. Meyer, Briefwechsel, op. cit., p. 395).

[36] Cfr. Gilles de Van, Verdi. Un teatro in musica, Scandicci, La Nuova Italia 1994, p. 8.

[37] I copialettere, op. cit., p. 323.

[38] Verdi. The man in his letters, op. cit., p. 365.

[39] Ibid., p. 58.

[40] Th. Mann, Lettere, op. cit., p. 477 (lettera del 12 maggio 1942).

[41] Th. Mann – A. E. Meyer, Briefwechsel, op. cit., p. 397 sg. Nell’edizione curata da Franz Werfel la citazione si trova a p. 289. Qui di seguito il passo originale in italiano: “Sono di uno smisurato orgoglio, duri, intolleranti, sprezzatori di tutto ciò che non è germanico, e di una rapacità che non ha limiti. Uomini di testa, ma senza cuore; razza forte, ma non civile … e noi? Io avrei amato una politica più generosa, e che si pagasse un debito di riconoscenza. Centomila de’ nostri potevano forse salvare la Francia … In ogni modo avrei preferito segnare una pace vinti coi francesi, a questa inerzia che ci farà disprezzare un giorno. La guerra europea, non la eviteremo, e noi saremo divorati”. (Th. Mann, Lettere, op. cit., p. 477).

[42] Ibid. Traduzione da me leggermente modificata.

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