J. W. Goethe, Ifigenia in Tauride

Lorella Bosco

 Nel 1779 Goethe terminò la prima versione in prosa di un dramma che nel 1787, al suo ritorno dal viaggio in Italia, avrebbe rielaborato in pentapodie giambiche: l’Iphigenie auf Tauris (Ifigenia in Tauride). La ricezione dell’opera nel corso dell’Ottocento e di gran parte del Novecento celebrò il suo messaggio universale di umanità, trascurando invece il carattere ambivalente che caratterizza la ripresa del mito e dell’antico. La conflittualità e le aporie che costellano il faticoso cammino dell’eroina greca trapelano dalla celebre definizione con cui Goethe descrisse l’Ifigenia: il dramma “grecizzante” è per lui “diabolicamente umano”. La traduzione di Lievi e la prefazione di Pulvirenti sottolineano questo carattere così moderno e suggestivo dell’Ifigenia.

Mentre in Euripide l’umanizzazione della vicenda dell’eroina sullo sfondo dell’orrida catena di delitti che costituisce il destino dei Tantalidi non implica la rinuncia all’inganno e solo il provvidenziale intervento di Atena, dea ex machina, consente di sciogliere l’intreccio drammatico, Goethe attua invece un procedimento di interiorizzazione del mito che approfondisce il solco tra greci e moderni, superando la necessità ineluttabile del fato, cuore della tragedia antica. L’intersoggettività, per Peter Szondi la quintessenza del dramma classico, costituisce anche l’elemento dinamico e strutturale dell’Ifigenia, trovando la sua più compiuta espressione nei dialoghi.

 La costellazione all’interno della quale si muovono i protagonisti del dramma si articola nel conflitto fra tre diversi ordini di relazioni: quella fra sudditi e sovrano che rispecchia il problema, ampiamente dibattuto nel Settecento, della possibilità di formare, mediante un’opportuna paideia, un monarca “illuminato”; quella tra proprio ed estraneo, altra costante del dibattito antropologico settecentesco; quella tra azione e parola. Tutte queste opposizioni sono solcate da un aspetto che potremmo chiamare di “genere”, in quanto, come illustra efficacemente Pulvirenti nella sua introduzione, che offre un innovativo approccio al testo goethiano, il processo di trasformazione da una dimensione “politica” a una dimensione “etica” dell’agire si compie mediante “il confronto con la diversità del pensiero femminile” che si articola nella strategia del discorso e “induce a rinunciare alla violenza, al potere e alla sopraffazione”, comuni tanto ai greci quanto ai barbari. Il risultato è un “dramma della civiltà” (Adorno), povero d’azione esteriore, che mette in scena la problematica genesi di una coscienza matura e autonoma nell’eroina greca, “anima bella”, ma non priva di turbamenti e palpiti.

La traduzione di Lievi è pensata per l’allestimento scenico (l’Ifigenia è stata rappresentata a Brescia e a Palermo), e risente quindi della concreta esigenza di un uomo di teatro di far rivivere un testo così complesso e affascinante. Del resto, non è possibile accostarsi a un testo teatrale prescindendo dalla sua destinazione eminentemente scenica. La traduzione rende giustizia al pathos dell’originale, in un linguaggio moderno e lineare, dall’andamento paratattico, che non imbriglia il fluire del discorso, né la complessa strategia retorica in cui risiede l’azione drammatica.

Lorella Bosco

 J. W. Goethe, Ifigenia in Tauride, a cura di Grazia Pulvirenti, trad. dal ted. di Cesare Lievi, con testo a fronte, Venezia, Marsilio, 2011, 256 p.

da: L’INDICE, giugno 2012

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