Gli anni verdi dello sterminio


Massimo Raffaeli

È raro provare assoluta ammirazione per uno scrittore e nello stesso tempo sentirlo così prossimo, pari a un fratello maggiore, anzi a un compagno che spezzi per te il pane della sua parola. Con Heinrich Böll capita infatti al lettore di immaginarsi al centro di un incontro conviviale, di partecipare ad una mensa che è semplice senza essere ordinaria, forse un tavolo cosparso di briciole e macchie stampate sotto i boccali di birra scura, in una qualsiasi osteria della Renania. Leggi e dentro di te si fa subito silenzio ma avverti, fuori di te, il brusio di un necessario affollamento, lo stormire dialogico del mondo con tutte le voci e i rumori; nella stessa difformità dei modi (mai scrittore fu più tormentato dalle tentazioni sperimentali, dai complessi di colpa culturali che ne umiliavano la semplicità) senti cioè l’urgenza di chi vuole dirti qualcosa e dirtelo persino con monotonia, variando all’infinito la medesima ossessione, dentro un ardore che non rinuncia all’urto e allo scuotimento fisico. La lingua di Böll sa di pane perché è scabra e mai preziosa, perché si dà come un fenomeno emotivo e sensuale prima che intellettuale; e d’altra parte il suo evangelo, elementare fino a essere schematico, fino a sembrare il credo di un moderno gnostico, non ha da esprimere se non la certezza delle opere di Satana e Mammona nel mondo disertato da dio, vale a dire il trionfo della civitas diaboli e il progressivo oscuramento (in un’eclissi carica di sangue e strage) della civitas dei. Scrittore discontinuo, di estri improvvisi e squassanti, Böll pubblica d’altronde i libri decisivi (la trilogia di Biliardo alle nove e mezzo, Opinioni di un clown, Foto di gruppo con signora) fra il ’59 e il ’72, negli anni in cui si compie la ricostruzione e la rinascita economica del suo paese all’insegna dell’accecamento e della rimozione, le quali garantiscono, oltre gli alibi dell’opulenza, una sostanziale continuità col passato.

Militarismo, tabe ereditaria del nazismo, sottaciuto antisemitismo, isterico anticomunismo, asservimento delle chiese ai valori secolarizzati e alle dinamiche della società capitalista, sono infatti per lo scrittore di Colonia i contrassegni profondi (anche se non sempre percettibili) della secolare miseria tedesca, ovvero i presupposti di un lutto mai divenuto di senso comune e mai elaborato fino in fondo. Lo stesso Böll, il figlio del falegname, il monello sboccato della cattolicissima Colonia, il reduce di tutte le guerre hitleriane, dovette comprenderlo abbastanza tardi, quasi in punto di morte, leggendo nel cadavere di Ulrike Meinhof, in carcere a Stammheim, il frutto di un’abietta perfezione e, insieme, il capro espiatorio del filisteismo e dell’ipocrisia elevati a immutabile visione del mondo. Quel giorno capì davvero che gli eredi di Hitler, circonfusi di grigiore, erano i tardivi convertiti all’Occidente, gli Adenauer, gli uomini della Confindustria tedesca e i giornalisti della catena Springer; lo scrisse in pagine liberatorie, quasi riparatorie, che non gli furono perdonate, come notava anni fa in un bellissimo saggio (contenuto in L’astuzia delle passioni, Rizzoli 1995) Piergiorgio Bellocchio: “Questo diverso atteggiamento verso il nazismo presuppone lo sblocco di un trauma (tale era infatti il rapporto di Böll con il nazismo: fobico, emotivo, moralistico e antidialettico, rimasto pressoché inalterato per oltre un ventennio). Questo sblocco è in stretta connessione con la consapevolezza, pienamente raggiunta solo di recente, che il vero nemico è il capitale, e con le nuove prospettive umane e politiche a cui Böll si è aperto”.

Ha dunque, in ogni senso, valore di archetipo e di postuma restituzione il corposo romanzo che Böll scrisse appena di ritorno dal fronte e gli venne rifiutato per il crudo antimilitarismo e per l’unilaterale pacifismo, nel ’47, due anni prima dell’esordio ufficiale con Il treno era in orario: inedito fino al 2002, si intitola Croce senza amore (Mondadori) ed esce ora in italiano nell’attenta versione di Silvia Bortoli. Si potrebbe riassumerlo con la massima di un personaggio, secondo cui il nazismo altro non sarebbe che “l’ultima benedizione che la Prussia impartisce alla Germania.” E in effetti lo pervade un’atmosfera di tenebra mai squarciata, un tanfo invasivo di reclusione concentrazionaria, l’idea che la Prussia rappresenta l’ontologia del totalitarismo, che si può solo raccontarla dal basso e nella prospettiva dell’uomo divenuto verme, che infine (per chi da sempre è sequestrato dentro una divisa e ha la lingua murata nelle parole d’ordine) il messaggio cristiano equivale allo scandalo, all’irragionevolezza e alla follia: non è affatto un caso che alle reclute consegnate in caserma sia concessa la lettura di due soli libri, il Vangelo e Mein Kampf, un mistero blasfemo che l’idiozia prussiana non riesce o non vuole, evidentemente, penetrare.

Di chiara impronta autobiografica, scandito fra il ’33 e il ’45, ambientato tra Colonia e il fronte orientale, Croce senza amore è un romanzo dell’apprendistato spirituale, scritto ad alta voce, non importa se per partito preso, e alla maniera di un oratorio in cui si alternino, prima che personaggi, figure emblematiche e di ruolo. Lo strumento di Böll non è la narrativa in sé e nemmeno la saggistica, quanto invece il fluire dell’esame di coscienza; il suo scopo non è la verosimiglianza, l’attestato di natura storica o politica, ma semmai il riconoscimento di una verità morale, il disvelarsi, nel dolore e nell’infamia, di un segno elettivo, di qualcosa che alluda alla speranza senza però le autoassoluzioni tipiche di colui che invoca la speranza.

Qui si racconta di una madre e di due figli dissimili, presi entrambi nella ragnatela carnivora di quelli che Brecht definì Finsteren Zeiten, i tempi bui : l’uno è Hans, subordinato al maligno e agli sgherri della Gestapo, delatore e traditore, che espierà sul fronte russo facendosi fucilare per un gesto sublime e gratuito, finalmente di pietà cristiana; l’altro è Christoph, il credente, l’intellettuale mite, l’uomo dell’amore fraterno, che porterà per dodici anni, ad ogni capo dell’Europa bombardata al fosforo, la sua croce di individuo umiliato e rinnegato, straccio in divisa rimasto vivo solamente per amore di una donna. Fra di loro si interpone ad ogni istante, come in mente dei, l’esempio della madre Hanna, straordinaria figura di giansenista dedita al soccorso e alla carità fattiva, la cui ultima immagine, sul letto dell’agonia tedesca, benedice comunque la vita, chiede di propagarla e consegnarla all’unico figlio superstite, ormai dentro uno scenario da Germania anno zero: “Era come una passeggiata spettrale tra i cadaveri: nemmeno il desiderio viveva più in quei visi, una voracità lupesca, cadaverica, guizzava negli occhi di qualcuno e la tristezza di alcuni visi viveva ancora del sangue, del dolore, ma la massa di quella corrente continua era morta, morta.” È di lì che Heinrich Böll vedrà uscire, lungo i quarant’anni del proprio dopoguerra, i vampiri di una beffarda resurrezione; di lì chiederà il soccorso di un qualche commensale avventizio spezzando, per sé e per lui, il pane poverissimo dell’evangelo.

Massimo Raffaeli

Heinrich Böll, Croce senza amore, trad. di Silvia Bortoli, Milano, Mondadori, 2004

da: Alias, 4/IV/2004, ora in Bande à part, Roma, Gaffi, 2011

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