Le parole della pioggia – Per la lettura di Günter Eich e una versione del reale

[Questo articolo è apparso per la prima volta su Lo Straniero, n. 174-175.]

Lorenzo Bonosi

“Ciascuna delle opinioni qui espresse presumono che noi sappiamo cosa sia la realtà. Per quanto mi riguarda devo dire che non lo so.” (Der Schriftsteller vor der Realität/Lo scrittore e il reale, 1956). Basta forse questo passo per avvicinarsi all’intera opera di Günter Eich, e – verrebbe da dire dopo aver letto le sue poesie – per affrontare o riaffrontare il reale. Per Eich esiste una condizione primigenia (Urzustand) ideale, ma non si tratta tanto di capirla, quanto di leggerla ed operarne una traduzione, sempre nuova, prossima ma mai ad essa sovrapponibile. Poco sorprende che, in un’epoca dominata dalla fiducia, egli sia rimasto indigesto al pubblico tedesco coevo, che sia stato definito esponente ermetico e continuatore novecentesco della Naturlyrik romantica, e, in fin dei conti, che in Italia non sia mai arrivato. La natura di Eich e quella romantica non c’entrano niente l’una con l’altra ma da qualche parte sembra in effetti esserci un’affinità con il ‘Perdigiorno’ di Eichendorff e, vorremmo dire, con l’Ulrich di Musil: questione di saper riconoscere una condizione, un certo Zustand, e di non aspettarsi il lieto fine. 

Nato nel 1907 a Lebus an der Oder, sul confine tedesco-polacco, Eich viene arruolato nella Wehrmacht nel 1939 per finire prigioniero di guerra in un campo americano ed essere rilasciato nell’estate del 1945. Il ritorno dalla guerra segna una fase nuova nella poetica di Eich, ed egli acquisisce notorietà per poesie come Inventur o Latrine, uscite in una raccolta paradigmatica dell’anno zero tedesco, Abgelegene Gehöfte (1948), e per il radiodramma Träume (1950-53). Queste poesie gli valgono il premio inaugurale della Gruppe 47 nel 1950. A partire da Botschaften des Regens (1955), e con le successive raccolte poetiche Zu den Akten (1964), Anlässe und Steingärten (1966), Nach Seumes Papieren (1972), scritta poco prima di morire, Eich sviluppa un linguaggio poetico via via più conciso, funzionale, come dice lui stesso, a percepire la realtà. Il culmine del linguaggio poetico di Eich è rappresentato da due raccolte uniche nel panorama della lirica europea del ventesimo secolo, i Maulwürfe (1968; it. ‘Le talpe’) e Ein Tibeter in meinem Büro (1970), che nelle ‘Opere complete’ edite da Suhrkamp vengono rubricate con il sottotitolo di ‘prose’ e che la critica per lo più ha considerato a se stanti, quasi fossero un genere letterario autonomo. A ben guardare le ‘Talpe’ sono testi profondamente lirici, e solo di recente è stato osservato che essi contengono un’ampia e radicale Kulturkritik: contro il sistema che imbriglia fatalmente l’individuo e la sua libertà. Significativamente, già il discorso per il conferimento del Georg-Büchner-Preis (1959) contiene gli elementi cardine del credo artistico e politico di Eich, tanto che esso non fu pubblicato nella Frankfurter Allgemeine Zeitung che pure tradizionalmente riportava per intero i discorsi dei vincitori del premio:

Sappiamo che il potere ha interesse a che l’arte non oltrepassi i confini dell’innocuo. Il potere si oppone alla qualità. Il linguaggio che vada oltre quanto definito e permesso dal potere non è gradito. La sua semplice esistenza rappresenta una critica, rappresenta qualcosa che si oppone al controllo e con ciò al potere stesso.

Il più importante lascito di Eich è dunque la convinzione che il linguaggio sia il nostro primo strumento di conoscenza. Le sue prose liriche praticano una mnemonica sovversiva e attuano un disegno teso a scardinare i pilastri della nostra cultura e della nostra memoria storica dando un inedito valore ontologico alla scrittura. In quanto strumento di conoscenza il linguaggio, ogni volta che esso venga usato per una traduzione del reale, è anche strumento di resistenza.

Da questa riflessione, fin dagli anni cinquanta, emerge anche l’altra grande e sorprendente constatazione della poetica di Eich, il cui significato a noi è chiaro solo oggi: “Il mondo si è ingrandito nella sua misurabilità ma si è ridotto nella sua intimità.” (Rede vor den Kriegsblinden/Discorso ai ciechi di guerra, 1953). Realtà, leggere, tradurre, colori, color verde, potere, pioggia – queste sono alcune delle parole che ricorrono nella lirica di Eich e che per decenni sono rimaste incomprese se non indigeste a larga parte del pubblico tedesco e non.

Siamo giunti al punto di voler leggere Günter Eich e con lui rileggere il reale.

 

Da Botschaften des Regens/Le parole della pioggia, 1955

Verlassene Alm/La malga deserta

L’acqua piovana,
nelle impronte delle mucche.
Mosche sgomente,
prossime a novembre.
Il chiodo rosso non sopravvivrà al vento.
L’imposta che stride sui cardini e sbatte,
una volta contro il telaio,
una contro il muro.
Qualcuno la sente?

Himbeerranken /Tralci di lampone

Il bosco dentro ai pensieri,
le gocce di pioggia intorno
e l’autunno che li fa ingiallire –
ah, pronunciarlo, tralci di lampone,
bisbigliare mirtilli al tuo orecchio,
quelli rossi, caduti nel muschio.
L’orecchio non li comprende,
la mia bocca non li pronuncia,
le parole non ne fermano
il disfacimento.
Mano nella mano in mezzo a pensieri impensabili.
La traccia si perde nel folto,
la luna socchiude un occhio,
rossa e per sempre.

Da Zu den Akten/Agli atti , 1964

Nicht geführte Gespräche /Discorsi taciuti

a Peter Huchel

Noi, modesti interpreti
degli orari, del colore di certi capelli
o magari della formazione delle nuvole,
cosa possiamo dire
a quelli che consentono
e leggono gli originali?
(Così qualcuno
delle pagine di Eulenspiegel
ha còlto l’avena).
Di fronte a tanta fiducia
il nostro lutto resta ventoso,
frammisto alla pioggia.
Spazza i tetti,
cade ad ogni sorriso,
insanabile.

Verlassene Staffelei /Cavalletto abbandonato

Siamo a corto di colori.
Segreti tradotti
e ritradotti nel verde,
scambio di sapienze e prati,
sensazione di fascine,
traslucido bianco-larva.
Ombreggiature, espedienti
per ordinamenti grigi.
La fede appartiene all’arcobaleno.
Domani sarà visibile
quel che è al di là del viola.
La paura dei nostri cuori
è quella dello schermo.
Gli addii,
non riducibili oltre:
chi vede non vedrà più.

Da Anlässe und Steingärten/Occasioni, piante e sassi, 1966

Weniger/Di meno

Meno mete
e più piccole,
chicchi di riso.
Poco dispendiose,
per lo più
meditazioni.
Già pronte
per la povertà,
già sdentate.
Qualche urlo ancora,
secco, lanciato di là
dalla corsia, non visto,
pronunciato
oppure no, piccolo,
un chicco di riso.

Fortsetzung des Gesprächs/Il seguito del discorso

1 Ricordare il defunto

Ho notato
che il ricordo è un modo di dimenticare.
Si diceva:
cercare le fiamme in mezzo alla cenere,
fare della geologia
tra le sedimentazioni dell’attimo, odiose,
ricostruire la sequenza-tempo
dall’insolubile della chimica.
Si diceva:
separare lo studio degli uccelli in volo
dalla spesa mattutina
e dalle aspettative dell’amore.
Andare dove i paralleli
si intersecano.
Adempiere ai quesiti della logica
con i sogni.
Togliere i fossili dalle vetrine,
scioglierli col calore del sangue.
Cercare il segno
anziché la metafora,
dunque il solo posto
dove tu sei sempre.
Io mi appresto
a tradurre i formicai,
ad assaggiare il tè a bocca chiusa,
a tagliare i pomodori
sotto al sale dei versi.

2 Chiamarlo a sé

La vergogna per la ragione di chi sopravvive,
meno la decisione in giudizio,
con la sua superbia!
Chi nega
che il verde sia verde?
È questo che dà
piacevole sicurezza alla nostra parola,
l’importanza di un substrato solido.
Ma la stilizzazione
che un cuore intraprende
trattiene i suoi motivi
come l’ammonite
guardata dal morto.
Vorrebbe estroflettere le antenne,
trasformare la foglia di vite in spirali di felce,
far fiorire ciò che è stato un equivoco,
sentire l’autunno come odor di neve.
Non scordarti delle case
in cui tu vivi insieme a noi.
La sdraio nel giardino
o la vista degli alberi dalla finestra
andranno bene
perché tu appoggi i gomiti sulle ginocchia.
Ripara dalla pioggia ed entra, parlaci!

3 Discorrere con lui

Qui ha avuto inizio e qui non l’ha avuto,
qui prosegue,
in un rumore dalla stanza accanto,
nel click dell’interruttore,
nelle scarpe riposte dietro la porta.
Si estingue il pallore del tuo viso,
quello che confonde i colori.
Da abitudini a stento rilevate
nascono frasi.
Il nodo della cravatta
è un’obiezione decisiva,
la capacità di addormentarsi subito
una prova contro le proprie interpretazioni
e la predilezione per il tè
classifica la vita animale.

4 Trovare il filo

Interscambiabili
il tocco alla porta
con cui il discorso ebbe inizio,
e il saluto
all’arrivo del tram,
il nome sulla pietra tombale
e quello all’entrata del giardino,
i figli diventati grandi
e le cartoline da Ragusa.
Parole come vibrazioni dell’aria,
il suono dalle canne dell’organo,
la decisione
di ascoltare la canzone
o di esserla, –
rette piegate al vento,
verso la precipitazione del fosforo,
quando l’argomento ha inizio.
Nessuna variazione ammessa,
non le scappatoie del potere
o il conforto della verità.
Trovare le domande, astuti,
dietro le spalle larghe
della risposta.
[…]

Da Maulwürfe/Le talpe, 1968

Klimawechsel/Cambiamento climatico

Probabilmente la porta è aperta. Camerieri, medici, ladri e turisti possono entrare nella stanza. L’unica maniera per non far entrare nessuno è mettere i soldi davanti all’uscio. L’ho fatto da tempo. Entra solo un gatto. Più tardi un nibbio. Si accorge di aver sbagliato stanza e sbatte le ali perplesso. “48” dico io, lui ringrazia e se ne va. Io me ne resto nel letto, forse mi sono sbagliato, non era il 32? A dire il vero ricordo solo che è un numero pari.

Voglio alzarmi e rincorrerlo, ma mi rendo di nuovo conto di essere incollato alle lenzuola, e mi riprende la paura di soffocare. Sul climatizzatore un tempo dovevano esserci dei bottoni, cento o centocinquant’anni fa, quando anche la presa d’aria era aperta. Non saprei come fare se ci fossero ancora i bottoni. Di niente so come si fa, la vita, i ringraziamenti, le riunioni, come poi si assiste a un balletto e si ascoltano i tamburi, e la grafica di Meckel: la si deve vedere, la si deve sentire, toccare con le dita? Ho tre sensi, esisto solo come colla per le lenzuola, in un lenzuolo che non volevo. Quando farà giorno, tra nove o dieci ore, sarò lavatura. Buongiorno, dico.

Salz/Sale

Uno storico della musica ci spiega il baobab, grosso modo è sempre questa la situazione. Noi non ce ne meravigliamo, all’etnologia e alla geografia abbiamo fatto l’abitudine, noi invece beviamo birra. La storia contro la sete beve acqua. Qui sta la differenza, e noi ne siamo fieri.

Niente domeniche brevi, niente obblighi la sera. No, noi restiamo sui gradini della scuola dei missionari, tra le conchiglie. Quello è un posto con la vista sul ponte di legno, sul notevole cimitero, sui porcellini neri dal grugno sottile. Qui comincia il mondo. Un’aula trasparente, dal mare si vede un ombrellone svolazzare di verde. Le porte in lamiera vengono chiuse per la notte come a mezzogiorno. Facciamo dei passi, camminiamo, andiamo via? In ogni caso le cappellacce restano sole. Perseguiamo il desiderio di essere naturalizzati nella terra di Hsin, di riporre il sale in cesti di vimini, di stare ad essiccare nelle saline.

Del sale hanno bisogno di certo. Ma dei desideri?

Nach Bamako/Verso Bamako

Siamo selvaggi, siamo indietro di un paio d’anni. Vorremmo l’espresso per Bamako, due corse a settimana, con i vagoni letto, sui binari si vendono le arachidi, anche le banane se non sbaglio.

Indietro, di molto, noi ancora ci fermiamo davanti ai funghi magici del Messico, ci fermiamo presso le radure buie, senza orario, e nelle buie radure rimaniamo, qui possiamo passare di stelo in stelo, dall’età della pietra i nostri occhi sono sensibili.

Gauss pianse perché tra i numeri primi non c’è una legge. Ed è lì che ci fermiamo noi. Secondo prescrizione procediamo a tentoni fino agli steli d’erba. Li troviamo ovunque, Vöcklabruck, San Francisco, steli d’erba dappertutto, ovunque numeri primi per piangere.

Si sente un fischio, deve essere l’espresso, è la partenza che abbiamo sempre sognato. Il capostazione è provato, si passa un panno verde sugli occhi. Colore dell’erba, colore del profeta. Mi pare che adesso ci faccia segno. Lui conosce il ritardo, sa che noi non stiamo dietro ai nostri sogni, forse giusto le arachidi sono al pari con i secondi. E a noi, che ce ne viene? Sono nocive, non sono nemmeno delle noci vere.

Da Ein Tibeter in meinem Büro/Un Tibetano in ufficio, 1970

Alpinismus/Il rocciatore

La nostra terra, our country, è fatta di montagne. Nonostante siano una cavolata. Mille metri sopra il fondovalle, che sarà mai. Un quarto d’ora a piedi, la seconda dimensione ci dà il giusto metro, verso l’alto tutto risulta disordinato. Si sale, sempre per la direttissima, per vedere cosa ci si nasconde. Un ottimo nascondiglio.

Per qualche tempo prediligevo il Tristkopf, per il suo nome. La vista variegata, il tetto della nuova fabbrica di calze, stelle alpine incolori e il sibilare del marasso. Cos’è che fa la differenza, una sola di queste cose o tutte insieme? Non è dato sapere. Anche il binocolo serve solo a scovare altri alpinisti in cima ad altre vette. Sono piazzati meglio, anch’essi vedono il Tristkopf.

Per fare dell’alpinismo serve una pennellata di muscolare stolidità, che per fortuna mi è propria. Accordiamo ad altri il panorama. Quassù i pensieri sono puri. Quelli più importanti nascono in valle ed in pianura, magari col vento contro. Qui si fuma senza rimpianti, niente carta da parati a trattenere i cattivi odori. Ci si può ricordare a piacimento di San Francisco o Leopoli e semplicemente ignorare il panorama, – si è liberi in tutto. Sì, la libertà sta in cima ai monti, ma, e questo è il problema, nessuno ci resta, ne siamo tutti scesi.

Farbenblind/Daltonismi

Il mondo, già verde bottiglia, oggi è viola. Io non conosco il significato dei colori e quanto all’effetto, si fa attendere troppo. Valore gnoseologico più o meno pari a zero.

Una nuvola di cenere, che colore era , addio miei cari, che il vento vi sia leggero. Verde edera, viola aster, ma l’interpretazione è irrilevante, spazio per difetti visivi individuali, gli automatismi del reale non si lasciano tradurre con qualche sparuto colore, anche l’arcobaleno non ne ha abbastanza. Nubi di cenere ci rubano il tempo, l’interesse per persone defunte si può rimandare. Ci vuole una tombola. Per l’estrazione avremmo degli scheletri. Tombola e scheletrizzazione si possono fare con ogni colore.

Costa troppo la felicità? Basta un problema valutario e tutti giurano sulla propria unità monetaria. I colori senza la loro industria vanno male, non bisogna darci troppo peso né valore. Ma stavamo per ritirare il nostro consenso, quando ecco che questo viola penetra tutto e pure il tempo, l’affronto del vivere passa inosservato, l’affronto del morire amareggia pochi.

Amici che siete nelle nubi di cenere, reinventiamoci!

Da Nach Seumes Papieren/Secondo le carte di Seume, 1972

Stadtrand/Periferia

Neocostruzioni, aborti
di stanze. Silenzio prego,
nella bara, dopo le dieci.
Il sale, il pane
per gli inquilini soli –
posalo per terra, gli scarafaggi
sono più pazienti
e dentro al tuo pane
bisbiglieranno conforto.

(traduzioni di Lorenzo Bonosi)

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