«Come fai a sapere chi sei, se non capisci da dove vieni?» Heimat di Nora Krug

Francesca Di Tonno

Nel 2018 il titolo di miglior graphic novel dell’anno per il NY Times viene assegnato a Heimat, a firma di Nora Krug, autrice ed illustratrice tedesco-americana, classe 1977, e una esistenza già trascorsa tra vecchia Europa e Stati Uniti. Fino a 19 anni vive infatti in Germania per poi trasferirsi in Inghilterra e successivamente a New York, e da questo momento le sue storie illustrate iniziano ad apparire periodicamente sul New York Times, The Guardian, Le Monde e altre testate internazionali.

Heimat, il cui sottotitolo è «L’album di una famiglia tedesca», si apre e si chiude con le controguardie anteriori e posteriori che ospitano gli alberi genealogici delle famiglie dei genitori dell’autrice. In queste genealogie, che sono per metà illustrazioni e per metà collage (i volti dei familiari sono infatti ritagli in bianco e nero di foto reali) il lettore può ritrovare sin da subito le coordinate storiche, sociali e geografiche della storia nella sua interezza. Apprende infatti che la madre di Nora proviene da Karlsruhe, il padre da Külsheim, entrambi sono di estrazione medio-borghese, entrambi nati nel 1946 e di professione insegnanti. Per ogni familiare è riportato il nome di battesimo, le date di nascita e morte, il grado di parentela e la professione: l’unico commento è riservato a Luise Anna, bisnonna dell’autrice e «ebrea si vociferava», come si legge sotto la sua immagine per metà foto e per metà fumetto.

Ma l’autrice, dopo questa premessa che sembrerebbe introdurre un romanzo familiare, ci stupisce sin dalla prima pagina: che si apre sull’immagine di un cerotto Hansaplast che ricorda in tutto e per tutto le esercitazioni di disegno e scrittura dei primi anni della scuola. Questi brevi inserti intitolati proprio «Cose tedesche», otto in totale, conservano dell’infanzia tutta la nostalgia degli oggetti perduti, come perduta sembra essere la loro patria di origine: il Gallseife, un sapone diffuso in Germania sin dall’800 e ricavato dalla lavorazione della cistifellea del bue, la Wärmflasche, la borsa dell’acqua calda un po’ sciatta ma indistruttibile , e poi ancora i raccoglitori ad anelli Leitz e l’inconfondibile tubetto giallo della colla ultrapotente Uhu, che può ricomporre tutto ma «non riesce a nascondere le crepe». Un inventario di oggetti che accompagna la narrazione con un atteggiamento non tanto nostalgico quanto investigativo e archivistico.

La ricerca si snoda tra storia individuale e storia collettiva, dal punto di vista distanziato della nuova vita che la protagonista conduce negli Stati Uniti, finalmente immersa in quella cultura che lei e il fratello, negli anni ’80, avevano pregustato vivendo nei pressi di una base militare americana nella Germania meridionale. «Gli americani masticavano le gomme; mettevano i piedi sul tavolo e leggevano Topolino a letto senza togliersi le scarpe»: un insieme di mezze verità e luoghi comuni che nella percezione della bambina protagonista si mescolano a scottanti scoperte: «Non ricordo la prima volta che ho sentito la parola Konzentrationslager, ma l’ho scoperta molto prima di venire a sapere dell’Olocausto. Avevo capito che i campi di concentramento erano luoghi sinistri e immaginavo che chi ci viveva fosse obbligato a concentrarsi fino a stare male». L’ingenuità salva i bambini dalla verità che è nascosta dietro le parole.

Ormai adulta tuttavia la protagonista, che ormai da dodici anni vive a New York, intuisce di dover tornare indietro, cercare la Heimat perduta e per far ciò sa di doversi porre delle domande difficili sul passato della propria famiglia.

La ricerca ha un commovente centro focale, nella ricostruzione della biografia dello zio paterno, Franz Karl, giovane soldato di Hitler caduto in guerra a 18 anni e sepolto in un cimitero militare in Italia, di cui il padre della protagonista prenderà il nome, ma non il posto nel cuore dei genitori, alla sua nascita alcuni anni dopo. Anche la figura del nonno materno desta nella protagonista non poche inquietudini, tanto da indurla a indagare in un andirivieni di scatole di latta piene di vecchie foto e cimeli il suo passato di disertore che nel suo piccolo ha salvato il datore di lavoro ebreo dai rastrellamenti, ma che ha fatto parte, come molti tedeschi, del Partito Nazista (senza mai trarne, pare, alcun beneficio).

Ogni passaggio di questa ricerca è corredato da oggetti, privati o rinvenuti nei mercatini dell’usato, vecchie stampe, scartoffie e tutte quelle povere cose che popolano le esistenze di ciascuno. Ma le cose assumono qui il potere dell’indizio e della prova, attraverso i quali l’autrice prova a scagionare sé stessa dal senso di colpa, la Schuld, raccontandosi in prima persona con un linguaggio quasi infantile, ma che restituisce bene la stratificazione delle emozioni che da più generazioni sono giunte fino a lei.

Il cerchio si chiude con un collage di foto dello zio scomparso: i volti del bambino che era stato fino a divenire un giovane uomo, e poi nulla più, hanno il potere di ricucire i fili spezzati di una famiglia che, decenni dopo, per tramite dell’autrice, deve smettere di porsi domande, perché più di così alla verità non ci si potrà avvicinare.

La lettura di Heimat, con il proprio carico di riferimenti storici, permette ad ogni lettore un approfondimento leggero, ma non superficiale, su un pezzo di storia recente che ha cambiato per sempre il nostro presente. Al tempo stesso, il flusso narrativo che ripercorre le vite di persone comuni, prima fra tutte quella dell’autrice, consente a ciascuno di rivedersi nella propria individuale condizione di ricerca di quei luoghi familiari, immaginari o reali, che possiamo chiamare la Heimat.

Di Francesca Di Tonno

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