Tradurre Paul Celan

Dario Borso

Appartiene ai tratti essenziali del poetare sapersi
esposto al malinteso. Con ciò esso si sa in cammino
verso quanti sono ancora disposti a mettersi in gioco.
P. C.

Una breve stroncatura di Luca Crescenzi alla mia recente edizione dei Microliti su Alias del 30 giugno e una mia brevissima replica sempre lì la settimana dopo hanno lasciata inevasa una domanda che andrebbe preliminarmente posta, soprattutto nel caso di Celan: cosa significa tradurre? Parrebbe il gioco dell’oca, non fosse che la stroncatura, articolata in quattro esempi, mi dà l’opportunità di rispondere coi fatti, ossia facendo, o meglio rifacendo in accelerata il percorso che mi aveva condotto alle scelte contestate. Gli esempi della mia insensibilità “nel rendere gli scambi, i giochi, le sostituzioni, le deformazioni che danno forma all’antilingua di Celan”, sono nell’ordine:

1. Il primo proviene dalla Storia dello scoiattolo che desiderava un guscio di vetro e da ultimo l’ottenne, del 1949. “Scoiattolo” si dice in tedesco Eichhörnchen, cioè letteralmente “cornetto della quercia”. Celan popola la sua storia anche di inesistenti e fiabeschi Erlhörnchen, Eibhörnchen, Haselhörnchen, cioè cornetti dell’ontano, del tasso e del leucisco[1]. Forse per mantenere l’unità della parola, Borso procede per sottrazione, facendo dei tre scoiattoli rispettivamente un “coiattolo”, uno “iattolo” e un “attolo”. Non sarebbe stato più semplice e rispondente allo stilema fiabesco chiamare questi strani esseri “scoiattolo della quercia, dell’ontano, del tasso” e così via?

Il titolo del microlito annuncia una fiaba a lieto fine, sennonché già l’incipit delude parzialmente l’attesa: “Però era vecchio e cieco, quando infine l’ottenne”. C’è un doch, un piccolo particolare minaccioso, in grado cioè di destabilizzare il tutto[2]. E infatti: il vecchio cieco non crede sia di vetro, vuole una prova sonora i.e. che sia fatta cadere, ma i tre consimili si negano e lui muore d’incredulità. Lieto fine tristissimo quindi, non fosse sopravanzato da un ulteriore, definitivo ribaltamento: il guscio di noce “desiderava uno scoiattolo. Ma non l’ottenne” – con finalissimo commento dell’autore: “Meno male!”, che attenua solo un poco la tristezza.

Un’antifiaba, dunque, sorretta da una logica iperdialettica, iperparadossale del ribaltamento continuo che ha radici profonde nella bucarestina belle saison des calembours[3].

Celan si proverà in un esercizio di stile analogo nel 1957, col microlito apologetico di una lingua inesistente: “L’ibolitico non ci sarebbe affatto, dite! Allora non ci sarebbe neppure il litico […]. E paleo, meso e neo, poveretti, anche loro sarebbero come cancellati […]? Io chiedo, non rispondo. Rispondano gli altri, gli antiboliti. Noi due però, Strepitolino, […] canteremo a costo di venir presi per eoliti”[4]. Celan si associa a Rumpelstilzchen, il folletto cattivo della fiaba dei Grimm che cantando una filastrocca, come lui pubblicando una raccolta, svela il suo nome e fa perciò una fine più tragica e acrobatica di Münchhausen: “prese [packte] il suo piede sinistro con ambo le mani e si strappò in due metà [mitten entzwei]”. E lo stesso accade nell’antilingua alle parole, si “fendono per lo mezzo”: ibo/antibo/paleo/meso/neo/eolitico, e infine solo litico[5].

Tornando alla nostra storia: Eich-/Erl-/Eib-/Haselhörnchen e infine solo Hörnchen (detto verso la fine dei tre consimili), termine di cui i Grimm danno quattro accezioni, nell’ordine: cornetto di animali, cornetto acustico, cornetto-croissant e sciurino, sottofamiglia degli sciuridi comprendente gli scoiattoli arboricoli, volanti e di terra. La serie inizia quindi con un termine comune (Eichhörnchen, l’italiano scoiattolo), prosegue con tre neologismi (Erl/Eib/Haselhörnchen), finisce con un termine specialistico (Hörnchen). Sul lettore tedesco medio, essa produrrà perciò un effetto misto tra ilarità e sorpresa, ovvero: “costretto a considerare successivamente, una dopo l’altra, le soluzioni e dissoluzioni poetiche del linguaggio celaniano, il lettore finisce per ritrovarsi in un dominio inusitato in cui nulla è più fermo, stabile, consueto”. Peccato che l’autore di questa bella frase proponga subito dopo di tradurre la serie con: scoiattolo di quercia/ontano/tasso/leucisco e infine (presumo) solo scoiattolo – con un effetto così piattamente fiabesco da rasentare il soporifero[6].

Per riprodurre alla bell’e meglio l’effetto-sorpresa, sono retrocesso al babbo dell’Eichhörnchen: “Eichhorn: sciurus vulgaris, altfranz. escurieu, it. schiriuolo. Sono chiaramente tutte alterazioni del gr. σκίουρος, così detto poiché fa ombra con la sua grande coda”. Questa ha funzione termica, fa da ombrello contro il maltempo e per gli antichi greci contro il solleone; pensandola come una specie di meridiana, ho immaginato la sua ombra-σκιά accorciarsi col progredire del giorno, e così ho accorciato progressivamente il nome del suo possessore[7].

2. In un’altra difficilissima e bellissima prosa del 1951 la successione di aggettivi, davvero ardua e stupenda, Betrunken, betaut, behimmelstaut, behimmelt è resa con “ubriaco fradicio, irrorato dal cielo, evaporato in cielo”. A parte l’omissione inspiegabile della prima virgola, che stravolge il senso dell’insieme, betaut significa “bagnato di rugiada”, la quale proviene dal cielo e spiega il successivo behimmelstaut cioè, correttamente, “irrorato dal cielo”, ma non spiega affatto la traduzione di behimmelt con “evaporato in cielo”, poiché il significato proprio e logico della parola è “toccato dal cielo” (bastava controllare sul dizionario dei Grimm): colui che viene irrorato dalla rugiada è dal cielo medesimo sfiorato.

A parte l’A parte cui già replicai su Alias, il tipo in questione è descritto così subito prima: “Ubriaco perso [betakelt]. Gli è successo qualcosa di bello ecc. Si è incorporato e inspiritato [einverleibt und  einverseelt] qualcosa di liquido. Qualcosa di buono, un succo, un succhino, il concentrato, la sua essenza [Essenz]”.

I Grimm non contemplano l’ultimo termine perché latino (il Duden sì, che accanto all’accezione filosofica dà quella tecnica di konzentrierte alkoholische Lösung di sostanze vegetali ottenuta per distillazione), né il primo perché austriaco (il Duden sì, che di Betakeln dà l’accezione pulita di imbrogliare e quella sporca di fotterebescheissen); si rifanno però con “Einverleiben: mangiare, (più raro) bere in quantità” e con Einverseelen che non spiegano ma corredano di un calembour blasfemo dei Lebensläufe nach aufsteigender Linie (1781) di Th. G. von Hippel: sich dem christenthume einverleiben und einverseelen – darsi anima e corpo quindi, sennonché il liquido mi è parso qui di una pregnanza tale da spingermi a tradurre “inspiritato”, con l’equivoco italico che “spirito” comporta.

Della raffica di be che Crescenzi vorrebbe tradotta: “ubriaco, bagnato di rugiada, irrorato dal cielo, toccato dal cielo”, l’arcano sta nel behimmelt da me reso con “evaporato in cielo”. Eppure bastava controllare sul dizionario dei Grimm: “Behimmeln: tegere, curvare una copertura sopra qualcosa. Behimmelt sein: annebbiatobenebelt, betrunken, come dire coperto, bedeckt di vino”.

La soluzione più logica ed elegante parrebbe dunque: “ubriaco fradicio, irrorato[8], irrorato di schnaps”. Però, c’è un però… che sta nella frase successiva ai be, senza a capo: “Uno su, un Hochgereister, Höhengereister”. Sono due neologismi modulati sul sostantivato Weitgereister (gran viaggiatore in lunghezza) e arricchiti di valenze metaforiche: frequentatore di ambienti su, navigatore delle alte sfere… Ma come fa uno su a esser giù, irrorato?

Bisogna risalire alla matrice di behimmeln: “Himmeln: streben al cielo, giungere al cielo”, intransitivo che col prefisso be- diviene riflessivo[9], e da qui tornare all’equivalenza behimmelt-benebelt. “Benebeln: nebula tegere, nebulam inducere”, tanto cioè annebbiare quanto nebulizzare, processo intermedio tra l’evaporazione e la condensazione, il quale porta alla formazione di minutissime gocce o stille – come per la rugiada e i distillati.

Il nostro ubriaco insomma, da un lato è quasi steso al suolo, “coperto di schnaps” e rugiada, dall’altro tende a evaporare, a salire al cielo. Perciò dopo behimmelt leggiamo: “Uno su, uno esperto in altezze, un astronavigato. / E nondimeno: qui, quaggiù, uno del nostro tempo e del nostro pianeta”. Su e quaggiù, come la nebbia agl’irti colli[10].

3. Come si conciliano la doverosa attenzione del traduttore con arbitrii grammaticali come: “Che bello! Che solenne!” o un “Te stesso” anziché “Tu stesso”?

Sul primo arbitrio perpetrato in un microlito del 1950 che inizia con un esortativo “Ascolta” e si mantiene sul registro colloquiale, lo storico della lingua e socio dell’Accademia della Crusca Luca Serianni in una Garzantina del 2000 affermava: “Si tratta probabilmente di uno spagnolismo penetrato nel Cinque o nel Seicento nel ducato di Milano e di lì poi passato nell’italiano comune (spagnolo ‘¡Qué bonito!’ ital. di Milano ‘Che bello!’). L’attuale frequenza di questo costrutto in ogni registro stilistico renderebbe vana qualsiasi opposizione da parte dei grammatici”.

Il secondo arbitrio è nel microlito dell’ubriaco, che Celan presenta in avvio così: “Un uomo, maschio, maschietto – da dove? / Da lontano. Da lontano? Sì, da lontano, è tutto ciò che in questo istante sappiamo di lui”. L’uso della prima persona plurale, secondo me mutuato al pari del tema dal raccontino kafkiano Die Vorüberlaufenden, annuncia  un tu che sbuca appena dopo la descrizione del maschietto betrunken: “La distanza fra voi due? Trenta passi, non di più. Chiamalo, udrà!”. Il tu chiamerà, ed esattamente come coi passanti di Kafka, non succederà niente, se non un “silenzio doppio” da cui in chiusa viene tratto un bilancio: “Lui: non puoi vedere il suo volto, non sai niente di lui. / Te stesso: un viandante, nient’altro”.

I due doppi punti stanno a indicare che si tratta di definizioni/descrizioni di due oggetti, il cui soggetto nel primo caso è esplicitamente l’interlocutoretu (“non puoi”) e nel secondo implicitamente il narratoreio. Detto in termini meno drastici, Lui e Te sono in funzione di tema, stando almeno al linguista Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, il quale trent’anni fa affermò che l’uso delle forme oblique dei pronomi personali in funzione di soggetto, “presente già nel ’300, si ampliò molto nel ’400 e da allora permane vivo nella lingua effettivamente parlata e nelle scritture più direttamente comunicative. […] Assodata l’antica esistenza di quest’uso, occorre darne una spiegazione, per poter formulare una regola che non sia di pura ‘autorità’. La linguistica odierna lo spiega […]. In molte espressioni linguistiche l’elemento che consideriamo ‘soggetto’ in realtà ha una doppia funzione: come elemento della frase fornisce al verbo il suo principale punto di riferimento (che determina anche la persona e il numero del verbo stesso), ma nell’ambito dell’intero discorso che si sta svolgendo, cioè con riferimento al senso dell’intero messaggio prodotto in una determinata situazione, lo stesso elemento indica più ampiamente il cosiddetto ‘tema’, sul quale si viene a dare una nuova informazione. In questo caso è come se la menzione di quell’elemento fosse accompagnata da espressioni quali per quanto riguarda…, o riferendoci a… e simili. E queste espressioni comportano l’uso di una forma obliqua”[11].

“[Per quanto riguarda] te stesso: [sei] un viandante”…

4. Quale riflessione ermeneutica fa sì che un importante appunto di poetica del 1954 sia reso così: “Riga in prosa sino al margine / riga in poesia – / lo spazio libero. / L’uomo rimane disponibile, però devi saperlo prendere”, mentre dovrebbe suonare secondo logica e grammatica in questo modo: “Riga di prosa fino in fondo / riga di poesia – / lo spazio vuoto / l’essere umano resta disponibile ma tu devi saperlo catturare”?

In tedesco il microlito suona: Prosazeile bis ans Ende / Gedichtzeile – / das Ausgesparte / der Mensch bleibt ansprechbar, doch mußt du ihn zu packen wissen. E dunque:

 – Riga in prosa o di prosa?

Io scrivo una pagina in prosa (a parte subiecti) / io leggo una pagina di prosa (a parte obiecti). “In prosa” è cioè performativocinematografico, indica un movimento di scrittura, mentre “di prosa” è descrittivofotografico. Ora, che la prima sia la soluzione congrua lo rivela l’accusativo di moto bis ans Ende, che esprime il moto della penna stessa come mezzo “locomotorio” del soggetto, mentre una riga di prosa la si può vedere già arrivata bis am Ende, con un dativo di stato. E Celan lo conferma dando una dimostrazione performativa nella seconda riga, dove invece di continuare per simmetria con la prima, dopo Verszeile interrompe la scrittura con un trattino lungo disgiuntivo e va a capo.

Ende: punta estrema, acies. locus: dal concetto di puntapunto sorge quello di luogo-ort, di punto fisso. ora, margo”, orlo, margine[12]. I Grimm danno quattro grandi accezioni, ma il movimento è sempre orizzontale, mentre fondo è in verticale: a fondo pagina.

– Spazio libero o vuoto?

Per Aussparen i Grimm danno solo: reservare. Si potrebbe dire destinare a, tenere per, con riferimento implicito all’altro. L’esempio che fa il Duden, unico, è significativo: einen Raum für die Zuhörer aussparen, come lo è quello del Sansoni: “lasciare libere alcune righe”. Lasciar vuoto invece, accezione non contemplata, è disinteresse, non essere interrelato all’altro: ancora stasi invece di movimento, la sedia invece dello spettatore.

– L’uomo o l’essere umano?

Questione di lana caprina, a meno di pensare che qui Celan intenda  discriminare le lettrici rispetto ai lettori.

– Però o ma?

Il primo rispetta la valenza concessiva del doch, che manca all’avversativo ma. In ogni caso però ci va una virgola prima.

– Prendere o catturare?

Innanzitutto, il mußt du chiarisce quanto ancora implicito o incerto nel microlito dell’ubriaco, che il tu facitore di versi è il poeta in generale ma più specificamente Celan stesso, in dialogo con sé [13]. Da ciò il suo senso forte, di imperativo attinente all’etica prima ancora che alla poetica, la quale compare nondimeno subito nel wissen modale, nell’essere capace di “Packen: degli uomini, ergreifen vigorosamente con la mano; traslato, begreifen, comprehendere”. Prehendere, con la mano e con la mente. Se l’apertura diminuisce, subentrerà il tasten del cieco; se cresce, il prendere per mano, fino a “nessuna differenza di principio tra una stretta di mano e una poesia”[14]. Catturare invece, fangen, è  più per gli animali che per gli uomini, più con trappole e reti che con le mani, più prigioni che spazi liberi,  e si avvicina a packen solo alla fine, nel significato più traslato, di attirare l’attenzione (ma si dirà seine Zuhörer packen, un packender Buch che prende, avvince, non cattura).                                                                                  

Crescenzi premette alle quattro obiezioni di voler dare “solo qualche esempio illustrativo”, e chiude con “Lo spazio obbliga a fermarsi qui”. Se questi sono gli esempi cattivi, ce ne sarebbe parecchi di più, o epitomando: io do il cattivo esempio. Giusto per rimarcare, a contraltare aveva in avvio elogiato “il volume dei ‘Meridiani’ esemplarmente curato da Giuseppe Bevilacqua”.

Lungi da me entrare qui nel merito delle traduzioni ivi contenute. Una parola sola sul paratesto, anzi su una sua sola parte: le note. Per 660 pagine di traduzioni il Meridiano Mondadori reca 30 pagine di note, dove delle 575 poesie tradotte ne risultano commentate 87, una su sei e mezzo, con sbalzi enormi tra silloge e silloge (dall’una su ventotto di Papavero e memoria  all’una su due e mezzo de La rosa di nessuno.Se c’era in Amleto, un metodo ci sarà pure qui[15].

Subito dopo l’elogio, arriva una descrizione asettica della “ampia silloge curata da Dario Borso dei Microliti(‘Lo Specchio’, pp. 202, € 20,00) nome attribuito dagli editori dell’edizione critica di Barbara Wiedemann e Bertrand Badiou alle prose, agli aforismi” ecc.

Il nome, o meglio il titolo corretto dell’edizione critica è Mikrolithen sinds, Steinchen, e fu attribuito nel 2005 dai due curatori dell’edizione critica (non dagli editori della loro edizione critica ovvero da Suhrkamp!) ricavandolo dall’incipit di un frammento del 1956, dove Celan scrive a se stesso: “Microliti sono, pietruzze appena percepibili, lapilli minuscoli nel tufo denso della tua esistenza”. I singoli testi vennero suddivisi in quattro sezioni (disposti poi entro ciascuna secondo l’ordine cronologico): aforismi; prose narrative; prose teoretiche; prose sparse pubblicate e interviste. Quest’ultima sezione, di 40 pagine, oltre che di interviste è composta di recensioni, prefazioni a libri da Celan stesso tradotti, da una lettera aperta e dalla trascrizione di una trasmissione radiofonica. Inoltre, le ultime 25 pagine della terza sezione costituiscono un capitolo intitolato “Testi sull’affaire Goll”, per lo più lunghe lettere spedite e non, dove Celan si difendeva dall’accusa di plagio.

Ho tralasciato le 65 pagine perché non propriamente microlitiche, e mi sono concentrato sulle altre 135. Queste contengono, soprattutto nella sezione teoretica, frammenti testuali a volte minuscoli. Prendendo a metro l’altro termine usato da Celan di lapillo (concrezione lavica della misura minima di 2 mm di diametro)[16], essi andrebbero classificati più come cenere vulcanica. Un esempio instar omnium, a inizio della sezione, Denker der Spätzeit: facilissimo da tradurre, ma per inquadrarlo i curatori impiegano una pagina intera di commento.

Scartata perciò anche la cenere, il testo tradotto è risultato di un centinaio abbondante di pagine, che richiedevano un titolo diverso perché diverso il contenuto, ridotto appunto. Perciò ho ridotto il titolo a Microliti, con la benedizione di Badiou. Senza più sezioni e con una sola vita a scorrere, il volumetto ha forse acquistato in pregnanza e leggibilità, anche perché, non essendo la mia un’edizione critica, ho deciso sciogliere le abbreviazioni e uniformare l’interpunzione avvisandone in Premessa il lettore, che col testo a fronte potrà individuare i miei radi interventi.

Dario Borso

P.S. Trattando della quarta obiezione, ho risposto partitamente a tutte le soluzioni lessicali alternative proposte da Crescenzi, che però biasima anche una contravvenzione mia a “logica e grammatica”, di cui non ho trovato prova da lui né traccia da me – finché, scrivendo queste ultime righe, m’è balenata una lugubre illuminazione: che il danno grave al costrutto grammaticale al senso logico sia effetto della mia inserzione di un punto dopo “spazio libero”, con conseguente maiuscola del successivo “L’uomo”.

Logica vorrebbe che sia Crescenzi a motivare il biasimo, ma siccome lo immagino uomo della nostra epoca, proverò io a calarmi nella sua testa come finora mi sono calato in quella di Celan. Egli avrà considerato i due lemmi surriportati come sinonimi, per cui la frase dovrebbe correttamente suonare: “lo spazio vuoto [,] l’essere umano resta disponibile, però devi saperlo catturare”, con soggetto duplice ma verbo al singolare. Per dirimere la questione, bisogna interrogare le due proposizioni della frase.

Prima: disponibile è qui predicato di spazio vuoto ed essere umano, o solo dell’essere umano?Qui soccorre il Discorso di Brema di poco successivo, proprio nel suo passaggio topico della poesia come messaggio in bottiglia “inviato nella convinzione – certo non sempre salda – di poter chissà dove e chissà quando venire sospinto a riva, alla riva del cuore forse. Le poesie anche in tal modo sono in cammino: si dirigono verso qualcosa. Verso cosa? Verso qualcosa di aperto, di occupabile,  verso un tu disponibile forse, verso una realtà disponibile”[17]. Sostituendo a spazio vuoto “realtà disponibile” e a essere umano “tu disponibile”, il ragionamento di Crescenzi regge, anche se non più del mio, che collega spazio libero a “riga in poesia”.

Seconda: il -lo oggetto del catturare è spazio vuoto ed essere umano o solo l’essere umano?  Qui ho dalla mia l’ipse dixit: Il chasse aux vents avec des rets, et y prend escrevisses decumanes.


[1] Leucisco è un pesce, il cyprinus dobula, cfr. il Wörterbuch  dei fratelli Grimm alla seconda voce Hasel, mentre la prima dà corylus, nocciòlo. Segnalo in nota il granchio perché non interferisce sul nocciolo del suo ragionamento né del mio.

[2] “Abbassamento ironico” è detto questo stratagemma in Sul concetto di ironia in riferimento costante a Socrate (a cura di D. Borso, Rizzoli, Milano 20183) di Søren Kierkegaard, il filosofo più presente in assoluto nel catalogo P. Celan, La Bibliothèque philosophique. Die philosophische Bibliothek, a cura di A. Richter, P. Alac e B. Badiou, Éditions ENS rue d’Ulm, Paris 2004. Esempio fulgido di tale abbassamento è il “C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno”. Il estoit une fois è l’incipit canonico delle fiabe di Perrault, come Es war einmal lo è di quelle dei Grimm.

[3] A questa breve stagione si devono i primi microliti in romeno, del 1947, tipo: Muzică de anticameră : Solo de Petronom cu acompaniament  de Paoloncel”. L’antilingua, antifiaba, è qui anche anticamera (musica suonata in anticamera per polemica con quella da camera, metronomo protagonista dell’assolo invece che accompagnatore), con tanto di crasi dell’amico Petre Salomon e dell’autore, che aveva assunto il nome romenizzato Paul Ancel. Passione perdurante, questa di Celan per i calembour, se pochi mesi prima di morire ne congedò uno analogo: herzliche Grüße und alles Paulige! (variazione dell’usuale alles Gute), da me tradotto: “Saluti di cuore e di paulmoni!” – e passione che s’infiltra ben dentro il corpus poetico in senso stretto (cfr. in primis P. Celan, Poesie sparse pubblicate in vita, a cura di D. Borso, Nottetempo, Milano 2011).

[4] Excipit cancellato nel manoscritto.Heinz Gültig aveva chiesto a Celan di partecipare a un’antologia di fantasiose “traduzioni dall’ibolitico” che uscì con i contributi di Arp, Eich, Enzensberger et al., ma senza il suo.

[5] L’art du faiseur de calembourgs ne consiste pas à jouer sur le double sens d’un mot, mais à forcer l’équivoque, soit par la décomposition d’un mot en plusieurs, soit par la réunion de plusieurs mots en un seul, sans plus respecter le bon sens, É. de Jouy, L’Hermite de la Chaussée d’Antin, V, Pillet, Parigi 1814, prima definizione di calembour, termine che, come noto, deve la sua comparsa nella letteratura mondiale a Diderot.

[6] Va detto, a sua parziale discolpa, che le fiabe servono anche ad addormentare i bambini, e che forse con leucisco un qualche stupore in essi lo desta.

[7] L’effetto-sorpresa l’ho ottenuto di certo almeno su un lettore, Crescenzi stesso, anche se non nel senso desiderato. Celan, che abusava del dizionario dei Grimm (nessuna opera presente nella sua biblioteca, ora allo Schillerarchiv di Marbach, risulta ugualmente sottolineata), avrà apprezzato il seguito della voce, dove si dice che l’onomatopeico Eichhorn rivitalizzò l’astruso termine greco associandolo alla quercia: “ma l’incongrua idea del corno-horn veniva solo dal fraintendimento della desinenza. Il popolo si spiegò il nome ricorrendo ad eichharm”-armellino della quercia, un calembour involontario insomma.

[8] Aggiungere “di rugiada” è un pleonasmo, stante la radice ros roris.

[9] Come bestreben. Del resto, nell’alto-tedesco medio himelen era elevare al cielo.

[10] Sull’anfibolia della nebbia, cfr. i versi ortonimi di Fernando Pessoa: Mais vale a névoa que a vida / Desce, ou sobe: enfim, existe.

[11]La Crusca per voi”, (1) 1990. Sulla valenza performativa dell’antilingua celaniana cfr. A. Colin, Paul Celan: Holograms of Darkness, Indiana University Press, Bloomington 1991.

[12] Treccani: “Margine: La parte estrema di una superficie qualsiasi. In partic., ciascuno dei quattro spazî bianchi che delimitano al suo contorno una pagina scritta o stampata”.

[13] A illuminare questo aspetto, imprescindibile J. Bollack, Paul Celan. Poetik der Fremdheit, Zsolnay-Verlag, Vienna 2000, dove tra l’altro campeggia il termine “antilingua”.

[14] Lettera a Hans Bender del 18 maggio 1960. “Ergreifen, arripere, packen a) con la mano (dell‘ergreifenden), b) per la mano (dell‘ergriffenen),  c) già di reciproco abbraccio”. Poesia prensile, quella di Celan?

[15] Il Meridiano Mondadori è 1998; un lustro dopo uscirono i Gedichte a cura di Barbara Wiedemann, con 530 pp. di poesie e 430 pp. di note, senza esclusione di alcuna poesia. Quanto all’esemplarità delle traduzioni bevilacquee in genere, si troverà qualcosa nel mio imminente Celan in Italia, Prospero Edizioni (compreso il giudizio di Celan).

[16] Uno dei libri più sottolineati in assoluto nella biblioteca di Celan conservata allo Schillerarchiv di Marbach è R. Brauns, K. F. Chudoba, Allgemeine Mineralogie, De Gruyter, Berlin 19559.

[17] aufgegeben in dem – gewiß nicht immer hoffnungsstarken – Glauben, sie könnte irgendwo und irgendwann an Land gespült werden, an Herzland vielleicht. Gedichte sind auch in dieser Weise unterwegs: sie halten auf etwas zu. Worauf? Auf etwas Offenstehendes, Besetzbares, auf ein ansprechbares Du vielleicht, auf eine ansprechbare Wirklichkeit. Bevilacqua traduce “lanciato nella fiducia, certo non sorretta da ferma speranza, che la corrente la spinga comunque in qualche luogo, ad una terra; terra del cuore forse. Le poesie si dirigono verso qualcosa. Che cosa? Qualcosa di aperto, occupabile, il tu a cui si può parlare, forse una realtà a cui si può rivolgersi”. Gli arbitrii lessicali (a partire da un’inesistente corrente) e non solo sono tanti e tali, che mi limito a segnalare l’obliterazione di una frase intera.

This entry was posted in Interventi, Traduzioni and tagged , , , , , . Bookmark the permalink.

3 Responses to Tradurre Paul Celan

  1. Dario Borso says:

    Al punto 2:

    “A parte l’A parte cui già replicai nella nota n. 1”

    leggi

    “A parte l’A parte cui già replicai su Alias”
    https://ilmanifesto.it/celan-il-traduttore-risponde-alle-critiche-del-recensore/

  2. Dario Borso says:

    lasciar/tener libero, non vuoto si diceva.
    Forse merita una riflessione ulteriore il seguente passaggio:
    “Per Aussparen i Grimm danno solo: reservare.”

    il re- è un intensivo, di servare/serbare.
    il servare latino significa custodire intatto.
    che senso ha il re-allora? di custodire intattissimo?
    direi di no, qui il re-ha piuttosto valore iterativo, servare due volte – per sé e per altro (direbbe Hegel).

    la seconda volta è la ripetizione arricchente di Kierkegaard, l’aprirsi al mondo di un avaro (o sadico-anale direbbe non ricordo chi).

    lo stesso vale, forse più chiaramente ancora, per
    rispetto, da re-spicio.
    spicio/specio è guardare, fissare lo sguardo su una meta. c’è già l’intenzionalità (come direbbe l’allievo di Heidegger, se lo fosse), ma debolissima.
    il re- la intensifica fino al rispetto per la meta guardata, ovvero riguardata (da cui aver ri-guardo).
    ri-spetto insomma è soffermarsi, ri-considerare, con ri-servatezza.
    altrimenti si parla solo perché si ha la bocca (come dicono al mio paese).

  3. Dario Borso says:

    Mi sono accorto che qui è rimasto fuori il primo atto della tragicommedia, quello del guanto. Eccolo:

    https://ilmanifesto.it/celan-geniali-concrezioni-di-una-antilingua-tradotta-in-arbitri-lessicali-e-non-solo/

    al qual proposito, resto ancora a bocca asciutta sull’errore di logica e di grammatica al punto 4 – fortunatamente però non sono un pesce, e pur boccheggiante sopravviverò.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *