Walter Nardon,L’illusione e l’evidenza

Enrico De Vivo: «Illusione» ed «evidenza» sono i due termini che fanno da cornice, fin dal titolo, al tuo libro. Mi sembra che rappresentino un’opposizione visibile anche in altre coppie, come fantastico/realistico, immaginazione/ra-zionalità, e così via. Tuttavia la tua declinazione, per molti versi antichissima, mi sembra che provi a sfuggire a tutte le connotazioni di parte, positive e negative, compiendo uno sforzo verso una definizione di ciò che è oggettivo in quanto appartenente al mondo extralinguistico e di ciò che è oggettivo in quanto appartenente alla dimensione estetica o formale. In particolare, tu parli di «forma concreta di un’illusione» in riferimento a una storia, a un racconto o a un romanzo. Puoi illustrare meglio di come ho appena fatto io questa questione?

Walter Nardon: Cosa racconta un romanzo? Qual è la realtà che mette in gioco? L’illusione è data dall’avventura, dalla storia che viene raccontata sullo sfondo di una «realtà» riconoscibile, oppure illusoria è proprio questa realtà, mentre evidente è solo la volontà di chi racconta la storia? Insomma, per riprendere il libro, la realtà è chiara e distinta, cartesianamente evidente o non è invece confusa, in perenne divenire, mentre evidente è solo la forma narrativa che la mette in luce seguendo un personaggio? Sono interrogativi che si presentano sempre quando si racconta una storia e che costituiscono l’incanto di un romanzo, il sortilegio che ci spinge a seguirlo pagina dopo pagina. Certo, io credo che la cosa più evidente sia la forma narrativa, ma devo dire che a questo riguardo ho l’impressione di muovermi in un contesto paradossale: l’evidenza «tecnologica» della realtà, ossia quella della sua rappresentazione sui dispositivi digitali – che è sostanzialmente una rappresentazione ancora cinematografica – è tanta e tale che molti narratori, anche affermati, saltando a piè pari la rappresentazione la assumono come unica «realtà», la danno per scontata, dedicandosi poi alle vicende di questa evidenza. È un po’ come se dicessero, davanti a un pubblico che li sta filmando con lo smartphone: «Se è evidente per loro, perché non dovrebbe esserlo per noi?». Così il tanto inflazionato «ritorno alla realtà» non è altro che un ritorno alla dimensione della cronaca, al paradigma storico-giudiziario, dove le grandi scoperte letterarie, quelle che dovremmo celebrare, sono le inchieste sui lati oscuri o inediti della Storia, sui crimini impuniti, sulle ragioni sociali di un delitto. Tutte indagini lodevoli, ma che di per sé non producono una novità letteraria. Non solo, ma quando agli occhi di questi narratori la Storia sembra imboccare una svolta, alcuni di loro vi intravedono subito, con uno strabiliante rapporto di dipendenza, un mutamento parallelo nella narrazione. Qualche giorno fa su un quotidiano ho letto questa affermazione: «Dopo l’11 settembre il nostro modo di raccontare è cambiato», mi aspettavo un argomento a favore di questa posizione, ma nel testo non c’era. Anzi, si dava la cosa per scontata. Verrebbe da chiedere: «Come? Lo spazio del dialogo nella narrazione, l’alternanza dei tempi verbali sono cambiati? Dove sono queste novità, in testi che presentano descrizioni e storie che nel loro sviluppo sembrano prese da un romanzo dell’Ottocento?». Insomma, per chi scrive l’evidenza resta sempre un’ottima domanda. L’oggettività extralinguistica di cui parli è un argomento molto interessante: il rapporto di ciò che è oggettivo in termini extralinguistici con ciò che è oggettivo perché appartiene alla dimensione estetica è di fatto decisivo. Quando scriviamo, mentre seguiamo lo sviluppo di una storia, diamo forma a un mezzo per l’interpretazione della realtà, che resta in fondo oscura, inattingibile. Quando abbiamo finito, consegniamo il tutto in mano al lettore, perché produca la sua interpretazione. Per quel che riguarda «la forma concreta di un’illusione» mi riferivo al fallimento. I personaggi, ma in fondo tutti noi, conosciamo nel fallimento la forma concreta delle illusioni: è il nostro limite,ma va detto che la vicenda e il racconto di un fallimento possono essere memorabili. E bisogna poi aggiungere che fallire per non aver raggiunto l’ideale non significa fallire rispetto all’esistenza. Per questo bisogna ricominciare e fallire meglio, come diceva Beckett.

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