Uwe Johnson per tutti

[Questo pezzo è apparso su Alfapiù di Alfabeta2 il 26 marzo 2016, col sottotitolo “Esce per L’Orma edizioni il quarto volume de I giorni e gli anni“. Per motivi redazionali era stato un po’ accorciato. Ne do qui la versione completa. M.S.] 

Michele Sisto

Entri in libreria, da Assaggi a Roma, ma potrebbe essere Lettera 22 a Mesagne o Comunardi  a Torino, e vedi sul bancone il quarto volume dei Giorni e gli anni, di Uwe Johnson. Sussulti: fi-nal-men-te. Vorresti scrivere all’editore, mandargli un telegramma, due dozzine di rose. Entusiasmi eccessivi? Non per gli happy few che questo libro lo aspettavano da quarantacinque anni. Una piccola costellazione di lettori, critici, scrittori, germanisti, storici, giornalisti, che di quest’opera incommensurabile hanno seguito, e in parte fatto, la storia. E poiché poche altre vicende come quella della traduzione dell’opus magnum di Johnson illuminano i mutamenti dell’editoria e della letteratura italiane negli ultimi decenni, vale la pena di ripercorrerla per sommi capi.

Torniamo al 1959, quando la critica letteraria tedesca, sempre pronta a sostenere con roboanti campagne gli investimenti degli editori, acclama i romanzi di due esordienti presentati alla Fiera di Francoforte: Il tamburo di latta di Günter Grass, scritto a Parigi da un tedesco di Danzica che di lì a poco avrebbe scelto Berlino (Ovest) come città d’elezione, e Congetture su Jakob di Uwe Johnson, nato anch’egli in un porto del Baltico divenuto nel frattempo polacco, Cammin, e insediato a Berlino (Est), nella Germania comunista. Ci si potrebbe aspettare che gli editori italiani si contendano le due star a colpi di opzioni. Invece no. Ed è perfettamente normale, perché in Italia Grass e Johnson sono dei perfetti sconosciuti, e gli editori sanno benissimo che gli scrittori tedeschi, con l’eccezione di Kirst con la sua saga di guerra 08/15 vendono ben poco. Ma (ce lo hanno spiegato esaurientemente addetti ai lavori come André Schiffrin) l’editoria è un’industria sui generis: risponde non solo alla logica economica, ma anche a quella che Bourdieu chiama logica specifica, o letteraria. In altre parole, ci possono essere buone ragioni per tradurre un libro, con i costi che ciò comporta, anche sapendo che economicamente non sarà un affare: semplicemente, si decide di far prevalere l’interesse simbolico su quello economico. È questa tensione a far sì che alcuni editori si facciano un nome, accontentando non solo la massa, ma anche, quale più quale meno, gli happy few

Chi era deputato a dar voce all’interesse simbolico, ovvero agli interessi della letteratura, nell’editoria di allora? Nel 1959 in Mondadori abbiamo Elio Vittorini, Vittorio Sereni e, per la letteratura tedesca, Lavinia Mazzucchetti; in Einaudi Italo Calvino, Natalia Ginzburg e, per la letteratura tedesca, Cesare Cases; in Feltrinelli Giorgio Bassani (ancora per poco), Valerio Riva e, per la letteratura tedesca, Enrico Filippini. Mazzucchetti e Cases, che condividono poetiche legate al realismo degli anni ’30 e hanno trovato il loro autore in Thomas Mann, scartano Grass e Johnson senza rimpianti, infastiditi dalla «logorrea barocca» del primo e dal «confuso prospettivismo» del secondo. Il più giovane Filippini invece, che aderisce alla neoavanguardia – tanto che di lì a poco le troverà un nome di battaglia: Gruppo 63 –, ha invece tutto l’interesse a presentarsi come sostenitore di una nuova letteratura, e così persuade l’assai scettico Giangiacomo Feltrinelli ad acquistare e lanciare i due sconosciuti giovani tedeschi. Il tamburo di latta, che Bompiani aveva fatto tradurre ma esitava a pubblicare a causa delle scene di sesso, viene presentato puntando proprio sullo scandalo; Congetture su Jakob viene tradotto dallo stesso Filippini e pubblicato nel ’61 nella stessa collana, Le Comete, che ospiterà Capriccio italiano di Sanguineti e il volume Gruppo 63: la nuova letteratura. Acclamato sul «Verri» e sostenuto al Premio Internazionale degli Editori da Elio Vittorini nel periodo di maggior apertura del suo «Menabò» alla neoavanguardia, Johnson arriva in Italia sotto le insegne di quella «letteratura sperimentale» che intendeva relegare in soffitta le «Liale» del neorealismo.

Sono questi i few che hanno interesse a far esistere Johnson in Italia: uno scrittore come Filippini, in cerca di alleati di prestigio internazionale per il suo gruppo e di modelli per la sua ricerca poetica antirealista, un editore come Feltrinelli, che per quanto già affermato grazie ai casi del Dottor Živago e del Gattopardo ha fondato la sua casa da appena sei anni, critici come Renato Barilli, braccio militante del «Verri»; ma anche scrittori-editori aperti alle istanze dei nuovi entranti, come appunto Vittorini e Calvino. È un interesse, come si vede, tutto letterario, anche se nell’anno della costruzione del muro di Berlino qualche copia di Congetture su Jakob viene smerciata grazie ai giornali che presentano Johnson come «scrittore delle due Germanie».

Per tutti gli anni ’60 Johnson è dunque, insieme a Grass, l’autore tedesco di punta di Feltrinelli, che accanto alla Trilogia di Danzica pubblica Il terzo libro su Achim (1963) e Due punti di vista (1970). Ciò non significa che Johnson debba essere necessariamente letto entro le poetiche della neoavanguardia: se fosse stato pubblicato da Einaudi anziché da Feltrinelli, l’attenzione si sarebbe concentrata meno sulla novità formale, e sarebbe stato letto accanto a Musil e Brecht (di cui proprio Johnson cura l’edizione tedesca del Me-ti, tradotto in italiano da Cases) come precursore della «nuova sinistra». Ma storicamente è andata così: è il Gruppo 63 a portare Johnson in Italia, e, in un certo senso, ad appropriarsene.

Nel ’68 però la contestazione studentesca e operaia fa apparire obsoleta l’ipotesi neoavanguardistica che la sovversione del linguaggio possa contribuire a innescare la rivoluzione sociale, e induce molti intellettuali ad abbandonare la letteratura per la politica militante: tra questi, caso estremo, proprio Giangiacomo Feltrinelli, che entra in clandestinità e organizza Gruppi di Azione Partigiana con l’intento di contrastare un paventato colpo di stato fascista. Si consuma così il divorzio tra la casa editrice e il Gruppo 63. Anche Filippini lascia via Andegari, proprio mentre Johnson comincia a lavorare a Jahrestage, i cui quattro volumi escono rispettivamente nel 1970, ’71, ’73 e, dopo un lungo periodo di crisi, nell’83. Il primo volume viene comunque tradotto, ed esce nel 1972, col titolo Anniversari: Dalla vita di Gesine Cresspal, nei Narratori Feltrinelli: accanto a Interrogatorio all’Avana di Enzensberger e Prima del calcio di rigore di Peter Handke, altri autori portati in Italia da Filippini, nonché a Storie naturali di Sanguineti e a Vogliamo tutto di Balestrini. La traduzione è affidata a Bruna Bianchi, che in quegli anni dà una voce italiana a Handke, Enzensberger e Martin Walser per Feltrinelli, ma anche a Grass, che Giangiacomo si rifiuta di pubblicare per il suo aperto sostegno alla troppo poco radicale socialdemocrazia di Brandt. Alla morte dell’editore, nel 1972, è un’emorragia: dopo Grass, anche Enzensberger, Frisch, Dürrenmatt passano a Einaudi, Handke a Garzanti, mentre Bachmann era già passata a Adelphi. Anche Johnson scompare dal catalogo Feltrinelli, ma non viene accolto da altri editori, ma non viene accolto da altri editori, nonostante lo stesso Cases, dopo aver letto gli ultimi volumi di Jahrestage riconosca la grandezza intrinseca alla sua «follia e monomania» e interceda, invano, perché Einaudi ne porti a termine la traduzione. L’interesse simbolico dev’essere davvero grande per gettarsi nell’impresa di tradurre quasi duemila pagine di prosa, e della più ardita.

Del resto non accade solo a Johnson. Anche Peter Weiss, l’autore che dal ’65 al ’77 Einaudi oppone a Grass e Johnson come modello di impegno ‘brechtiano’, portando in Italia opere come Marat-Sade, L’istruttoria, Congedo dai genitori, Punto di Fuga, Trotzkij in esilio, perde di interesse specifico con lo scacco dei movimenti negli anni del terrorismo: anche i suoi sostenitori einaudiani, tra cui Cases e Fortini, non riescono a persuadere l’editore ad affrontare lo sforzo di tradurre i tre volumi della Ästhetik des Widerstands (Estetica della resistenza, 1975-81). Il problema delle dimensioni – che del resto rispecchia la necessità di elaborazione esteticamente la nuova cesura della modernità appena consumatasi – si pone per molti dei più audaci esperimenti tedeschi degli anni ’70, non solo letterari: si pensi a Heimat di Edgar Reitz. I tedeschi, ammette nel 1981 Cesare Cases, «sono faticosi, ma hanno uno spessore, sempre. La ‘Trilogia della resistenza’ di Weiss, per esempio, è pesantissima e anche in Germania nessuno  la vuole leggere, ma se si fa lo sforzo ci si trova un livello di riflessione storica serissimo sulla sinistra negli anni di Hitler e Stalin. Quest’impegno morale dei tedeschi, questo ethos del lavoro, con l’eccezione magari di un Grass che ha la penna troppo facile, fa sì che anche libri sbagliati siano pieni di interesse. Sono poco gratificanti, ma certamente sono molto coerenti: Johnson, Dorst, con le loro saghe, i loro cicli… Questo è un atout di fronte alla fiacchezza che caratterizza altre letterature in questo momento» (intervista con Goffredo Fofi, in «Scena»).

Un libro sbagliato, Jahrestage? Cases, che come abbiamo visto non è certo un fan di Johnson, è, al solito, provocatorio: ma il lettore italiano adesso può giudicare da sé. Nel frattempo in Germania Jahrestage è entrato stabilmente nel canone della letteratura del Novecento, e nel 2000 Margarethe von Trotta ne ha tratto un film per la tv in quattro episodi, di largo successo.

Intanto in Italia, dopo oltre vent’anni di assenza di Johnson dalla scena letteraria italiana (con la meritoria eccezione di Un viaggio a Klagenfurt, voluto da Luigi Reitani per SE nel 1988), qualcuno raccoglie il testimone di Filippini e persuade Feltrinelli a ripubblicarlo: prima Congetture su Jakob, nel 1995, poi, con il nuovo titolo I giorni e gli anni,  Jahrestage, di cui tra il 2002 e il 2005 escono, in una nuova traduzione, i primi due volumi. A dar voce all’interesse specifico questa volta è Michele Ranchetti, ma per ragioni tutt’altro che strettamente letterarie. Pur scrivendo poesie, apprezzate da Fortini, resta ai margini del mondo letterario. Aveva conosciuto bene Filippini e il catalogo della casa editrice quando, nei primi anni ’60, aveva diretto la neonata catena di librerie Feltrinelli. Passato poi all’università a insegnare storia della chiesa, partecipa alla traduzione italiana delle opere di Freud e di Wittgenstein e studia il pensiero di Benjamin, mentre continua a fare da consulente per diverse case editrici. Ad affascinarlo è l’«estremo rigore, morale e formale», quell’«esigenza di chiarezza intellettuale che poi è chiarezza anche etica» che aveva già trovato in Wittgenstein e ritroverà in Celan.

Sullo scorcio del Novecento, quando sia le poetiche dell’impegno sia quelle della sperimentazione appaiono obsolete al punto che esordienti come i cannibali trovano conveniente dissimulare l’uno e l’altra sotto scritture apparentemente piane e un’immagine pubblica improntata all’autoironia, il suo Johnson, con la sua terribile serietà, è un UFO. Ma Ranchetti insiste, trova due nuovi traduttori per Jahrestage, Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini, e nell’introduzione al primo volume lo presenta, appunto, come un’opera non solo provocatoriamente estranea all’orizzonte italiano, ma «che non ha confronti»: risponde a «un’etica diversa da quella letteraria», vuole sottrarsi alla letteratura d’invenzione per fondare un nuovo «genere», tra storia e narrativa, che trova i suoi modelli piuttosto «nella filosofia di Adorno e negli scritti di Benjamin».

È il 2002. In un momento in cui il mercato, non di rado con la complicità della critica e degli stessi scrittori, tende a relegare la letteratura entro la categoria merceologica di una fiction schematicamente contrapposta alla cosiddetta realtà (che spesso, poi, coincide col giornalismo), il modello di «ricerca storica in una narrazione» proposto da Ranchetti può risultare attraente per i nuovissimi entranti determinati a distinguersi dalla letteratura dominante, sempre più ostentatamente ‘di genere’: non a caso una delle più calorose recensioni ai Giorni e gli anni è firmata, su Nazione Indiana, da Roberto Saviano, allora impegnato a scrivere Gomorra e in cerca di una poetica e di una pozione. Ma neanche il successo di Saviano, che va a sua volta ad aggiungersi ai few in trepida attesa, induce Feltrinelli a portare a termine la traduzione, che si arresta mutila al secondo volume.

È a questo punto che entrano in scena altri due dei nostri few (che evidentemente poi tanto few non sono): Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, i fondatori dell’Orma. Entrambi formatisi all’incrocio fra una cultura critico-accademica attenta alla tradizione e il mestiere di traduttori che li ha avvezzati alle logiche del mercato librario, rientrano a Roma da una lunga peregrinazione letteraria tra Berlino e Parigi con una domanda: perché i libri più importanti di autori come Uwe Johnson e Annie Ernaux non sono presenti sul mercato italiano? Scommettono allora sulla possibilità di tradurre le carenze della grande editoria in un’occasione per la piccola: se le case editrici maggiori trascurano sempre di più autori del secondo novecento diventati canonici nei loro paesi, perché non partire proprio da questi per costruire un progetto editoriale originale? Eccome come nasce un interesse specifico, simbolico. Si potrebbe dire che l’Orma nasca, nel 2012, con l’obiettivo di portare a termine la traduzione della tetralogia di Johnson. Per questo oggi, a distanza di quattro anni, la pubblicazione dell’ultimo volume ha il sapore di una scommessa vinta. E non solo per la casa editrice: dopo quella anglo-americana (1975-87, per Harcourt Brace Jovanovich) e quella francese (1975-1992, per Gallimard) anche la letteratura italiana ha una sua versione di Jahrestage.

Non è più lo Johnson sperimentale di Filippini, né quello etico-storico di Ranchetti. Come definirlo? Gli editori lo presentano accanto a Gli anni e Il posto di Annie Ernaux nella collana di narrativa Kreuzville Aleph, che si propone di rappresentare «l’immaginario della nuova Europa» ricostruendo «tradizioni, ragioni e furori alle radici del contemporaneo». Anche le altre due collane letterarie della casa suggeriscono un indirizzo di lettura, creando intorno ai Giorni e gli anni un contesto che va progressivamente definendosi: Hofmanniana, che pubblica per la prima volta in Italia l’opera omnia di E.T.A. Hoffmann sotto gli auspici del germanista Matteo Galli (uno dei suggeritori dell’operazione Johnson); e la nuova serie di fuoriformato, in cui Andrea Cortellessa prosegue la collezione di «testi italiani irriducibili a convenzioni di ge­nere, impaginazione, stile» avviata anni fa con Le Lettere. Lo Johnson dell’Orma non ha prefazione. Forse non era necessaria. Forse non c’è, oggi, la penna in grado di scriverla. Ma il romanzo finalmente c’è. Intero. E possono leggerlo non solo gli happy few.

Michele Sisto

 

This entry was posted in LT.it, Michele Sisto, Saggi, Traduzioni and tagged , , , , , , , , , , , , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *