Jan Peter Bremer, L’investitore americano

[Ripeschiamo dall’Indice dei libri del mese la recensione di Anna Chiarloni a questo libro sorprendente uscito qualche tempo fa. M.S.]

Anna Chiarloni

Bremer (n. 1965), pluripremiato a cominciare dal prestigioso premio Bachmann, è oggi al suo settimo romanzo. Nato ad Amburgo, alla recente fiera di Lipsia, dove ha letto brani dall’ultimo testo, compariva in maglia corsara, orecchini, anelli e braccialetto. L’autore vive oggi a Berlino, città in cui è ambientato questo intrigante racconto,  mirabilmente curato dal traduttore nonché co-fondatore della neonata editrice “L’orma”. Tutto cambia nella vita del protagonista quando uno speculatore americano compra un intero quartiere berlinese. Bremer filtra una sequenza frequente nella capitale riunificata – il passaggio di mano proprietaria di vecchi edifici  da ristrutturare – attraverso un unico sguardo, quello di un inquilino che in quel quartiere ci vive: un giovane scrittore in crisi, sia coniugale che creativa. Una voce monologante, appesa al silenzio della scrittura, che  nel tempo di una giornata si articola in un caleidoscopico fantasticare di ipotetiche iniziative e trame letterarie, moltiplicando i registri narrativi: c’è la vita quotidiana di una famiglia, il lento scivolare verso un trasloco, i linguaggi delle consulenze legali, l’idea surreale di una petizione cifrata rivolta via internet all’investitore americano. 

Ma chi è costui? Una sfuggente autorità suprema che vive perennemente in aereo, un deo volente e volante, sovrano sui destini della capitale tedesca? O magari un briatore alla crozza – mi si passi la contaminazione – col quale, chissà, infocarsi in differita condividendo qualche femmina “golosa e gattina”, meglio se “con gli slip ouverts”? Nello stralunato elucubrare del protagonista Bremer sgrana le immagini del potere di un io eccitato che si aggrappa agli ultimi empiti di orgoglio. Infatti, perché non chiedere clemenza con una lettera alla pari – il libero pensatore tedesco che scrive ad un Mr. Investor dalle “larghe tese e gli stivali a punta”? Che magari, e perché no?, potrebbe essere illuminato da Berlino sul suo stesso orientamento sessuale – “Are you maybe homosexual, my friend, and you don’t know it by now?”.

Sono le infinite tragicomiche varianti di un’erranza visionaria attorno ad una missiva mai scritta. Perché è la penna che da tempo ormai si nega allo scrittore. La pagina è una parete di ghiaccio che gli sfugge sotto le unghie, vorrebbe cavalcarla “facendo surf con azzurri occhi d’acciaio”, ma dentro gli lavora l’ansia di un mercato librario mirato a titillare gli animalisti, mentre lui  – sì, per la pagnotta progetta persino l’epistolario tra un cane e la sua canina innamorata – ma lui è convinto di essere pur sempre, fino all’ultimo inebetito farfuglio, l’artista vero, il “nomade” sotto il cielo stellato, col sogno imperituro di un’ebbrezza di “prati e nuvole, senza ieri e senza domani”. Un uomo che vorrebbe inscriversi “nel cuore del mondo”. E della moglie. Con cui sogna l’avventura africana, ed ecco la coppia che ciangotta arrampicata sulla palma  – “Gradisci un’altra noce di cocco,cara?” –,  mentre nella realtà  lei, medico in carriera, è donna glaciale che mantiene lui, i figli, il cane e, all’occasione, il marito lo manda “a fanculo”.

Come in una visione di Escher il racconto transita, attraverso ribaltamenti repentini della coscienza, dal  tentativo di rivolta contro il mondo famelico della speculazione edilizia, ad una vogliosa  identificazione con il fantomatico  americano, fino al progressivo squagliarsi dell’anonimo scrittore nell’alcol e nella  rinuncia. Ma non è solo la storia di un soccombente: di mezzo  scorrono illusioni, lampi e ossessioni  che fungono da  lente d’ingrandimento, non priva di esiti comici, sul  nostro stesso vivere e sentire. Nella sapiente  partitura di Bremer si legge la solitudine di un intellettuale perso nell’emulsione dei ricordi, recluso in uno scricchiolante spazio domestico e consegnato alla sua giungla interiore. Novello Oblomov, il protagonista sprofonda alla fine nel suo letto. Un essere appannato, in fuga dalla vita. Ma il testo segnala anche la ferocia della vittima, la sua disposizione al servilismo in cambio di lustro e lusso. Per questo Bremer chiude il  racconto con la situazione dell’incipit, in un rassegnato daccapo: è il rondò esistenziale di un giovane scrittore che tutto ricorda – ma non sa più perché.

Anna Chiarloni

Jan Peter Bremer, L’investitore americano (2011), trad. dal ted. di Marco Federici Solari, L’orma, Roma 2013, pp. 137, euro 15.

This entry was posted in Anna Chiarloni, Recensioni and tagged , , , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *