Studi Germanici n. 6 + Osservatorio critico

Il n. 6 di Studi Germanici è on line. Qui se ne può scorrere l’indice e leggerne gli articoli. Qui lo si può scaricare integralmente in pdf .

Studi Germanici contiene anche il nuovo numero dell’Osservatorio critico della germanistica, dal quale traiamo la recensione di Fabrizio Cambi all’ultimo fascicolo della rivista Comunicare, diretta da Paola Maria Filippi.

Fabrizio Cambi

Nell’epoca del digitale e della letteratura online continua la sua coraggiosa e brillante navigazione la rivista «comunicareletteratura», in un rigoroso cartaceo patinato, condotta con grande acume e passione dalla Direttrice scientifica Paola Maria Filippi. Nata nel 2008, la rivista ha come specificità, molto rara nei periodici, di avvicendare all’interno di ogni suo numero «contributi critici con testi di letteratura primaria, italiani e stranieri, inediti e/o tradotti nella nostra lingua per la prima volta, accompagnati da testimonianze originali degli autori chiamati a dialogare con la propria opera e con i nostri lettori». A questa finalità, originale e ambiziosa, esposta nel primo editoriale, la rivista in questi anni ha sempre pienamente corrisposto con esplorazioni e itinerari in un’ area di riferimento latamente mitteleuropea, dalla Germania alla Russia, dall’Austria ai Balcani, dall’Ungheria alla Georgia.

L’ultimo numero si distingue ulteriormente per la ricchezza dei temi, la qualità e la densità dei 25 interventi, ma soprattutto per la trasversalità dei testi la cui eterogeneità rivela comunanze e tangenze, una conferma sempre affascinante che l’intreccio di lingue, linguaggi e culture si infittisce o si allarga negli interstizi della letteratura negatrice dei confini. Scorrendo l’indice si rilevano tre ‘blocchi’ incentrati rispettivamente su Peter Handke, Tawada Yōko e Franz Kafka. 

Sullo scrittore austriaco sono pubblicati i testi delle relazioni di studiosi e traduttori delle sue opere tenute, su iniziativa di Luigi Reitani, nel 2012 all’Università di Udine, in occasione del settantesimo compleanno dello scrittore. Ė tuttavia lo stesso Peter Handke che apre e conclude questo ampio spazio a più voci a lui dedicato. Come in una sorta di esergo viene infatti riportato il testo di una sua missiva manoscritta inviata a Claudio Groff, suo valente traduttore, che insieme a Paola Maria Filippi cura la versione in italiano. La letteratura in cui lo scrittore si identifica («Die Literatur ‒ die meine? ‒ nein, die meine und die Literatur, beide in eins […]» è definita una «ferne Musik, von der Mitte der Welt, oder von ihrem Herzen», mentre «Die Übersetzer sind stille geduldige, hoffentlich auch musikalisch mitsummende Helden». Ai traduttori, qui presentati come «eroi silenziosi e pazienti», viene assegnato il compito di unirsi con il loro canto raccolto all’armonia musicale dell’originale. Difficile trovare una formulazione poetica più efficace per affermare la funzione del traduttore che in silenzio e con pazienza traghetta un testo da una lingua all’altra non perdendo mai di vista la riva di partenza e quella di arrivo. All’essenziale e illuminante miniatura poetologico-traduttologica corrisponde la traduzione, ancora ad opera di Groff, dell’incipit del racconto Der grosse Fall (2011), di imminente pubblicazione in italiano. Nel mezzo si collocano i contributi degli interpreti di Handke che in questa regia appare presente e partecipe aprendo e chiudendo la sezione.

Hermann Dorowin nel saggio Peter Handke, scrittore europeo ricostruisce nitidamente il profilo evolutivo dell’autore ripercorrendone l’itinerario dalle prime opere nella metà degli anni Sessanta, una su tutte la Publikumsbeschimpfung, «di rottura generazionale dell’avanguardia sperimentalista», ai noti romanzi Wunschloses Unglück e Der Hausierer in cui la riflessione sulla lingua conduce a nuove tipologie di struttura compositiva, fino al recupero, seppure sul piano della finzione, delle modalità della narrazione autobiografica nel romanzo Die Wiederholung. La ricostruttiva presentazione critica di Dorowin mira all’individuazione di aspetti e motivazioni che provano e alimentano la dimensione europea di Handke contrariamente al frequente giudizio su di lui considerato un autore idiosincratico e refrattario a un’effettiva rappresentatività sulla scena culturale internazionale. La critica e la verifica del linguaggio, l’esplicitazione di tutte le sue potenzialità espressive che caratterizzano le sue opere, fino all’approdo a una lingua poetica di grande purezza, l’esercizio della memoria, la proiezione del mito familiare in una riflessione sulla tragedia del ventesimo secolo nel poema teatrale Immer noch Sturm (2010), legittimano il carattere internazionale di un autore che rifiutando il ricorso alla banale oggettività ha scandagliato la storia del nostro tempo.

Luigi Reitani nel contributo «Tra la nausea del mio villaggio…e il nichilismo dell’universo». Peter Handke in Friuli affronta la dimensione letteraria del viaggio come cifra costante della produzione dello scrittore austriaco, ricchissima di descrizioni che si svolgono «al di fuori di ogni coordinata storica e geografica, puro spazio dell’esperienza del soggetto». Il viaggio, più che nei luoghi, oltre di essi, è la registrazione del movimento nomadico dell’io che li esperisce. Reitani si sofferma in particolare sul “diario” Gestern unterwegs, una raccolta di annotazioni sulle sue frequenti visite in Friuli alla fine degli anni Ottanta, rilevando il legame con la tradizione dei viaggiatori di area tedesca in Italia e il comune atteggiamento di «insicurezza e inferiorità» di fronte all’esemplarità classica della cultura italiana. Ma «il confronto con la tradizione si risolve in una dichiarazione di poetica che si riappropria della classicità capovolgendone i valori di “unità, naturalezza e forma”» (55).

La parola passa poi a tre traduttori delle opere di Handke, le cui prospettive, pur con sfumature e accenti diversi, risultano convergenti e complementari. Anna Maria Carpi, che ha tradotto Die linkshändige Frau, fra le difficoltà nel transito dal tedesco all’italiano del testo vede quella di esprimere il tasso di reticenza dato dagli spazi vuoti «fra le azioni, le battute e gli stati interiori» di fronte alla dilatazione della lingua italiana. Claudio Groff, che ha tradotto gli ultimi otto libri dell’autore, illustra la sua impostazione traduttiva di fronte alla severità del dettato poetico di Handke finalizzandola, con le parole di Benjamin, a «ridestare l’eco dell’originale» e trasponendo nella lingua d’arrivo chiarezza e precisione, comunque rispettose della «sfumata oscurità dell’insieme». Anche per Groff il salvataggio della scrittura densa e precisa dell’originale può avvenire in una lingua d’arrivo non troppo ammorbidita, ma neanche troppo ruvida. Hans Kitzmüller, che ha pubblicato il Canto alla durata, si pone come obiettivo la restituzione in italiano del «registro contemplativo della sua lingua», riponendo la massima attenzione nel dettaglio come viatico per la «riappropriazione della lingua che stiamo perdendo», perché sia significante e aderente alle cose.

L’universo della traduzione è intrinseco alla narrativa e alla lirica di Yōko Tawada che scrive in giapponese, sua lingua madre, e in tedesco, lingua di acquisizione, facendo spesso coesistere creativamente le due lingue in un unico testo, frutto del distacco da una singola lingua. Su di lei viene qui presentato un dossier che la coinvolge anche direttamente in un’intervista con Daniela Moro e con la traduzione in italiano dell’incipit del romanzo Schwager in Bordeaux, scritto in tedesco e autotradotto in giapponese. Ė singolare che di questa scrittrice bilingue, autodefinatasi exofonica, migrante da uno spazio linguistico all’altro, la cui produzione vanta più di venti titoli in tedesco e altrettanti in giapponese, sia stato tradotto in italiano solo il racconto lungo Das Bad (2003). Al di là di questo paradosso editoriale va sottolineata la suggestione della sequenza alternata dei frammenti di Schwager in Bordeaux in tedesco, tradotti in italiano da Paola Maria Filippi, in giapponese, preceduti da un sinogramma, tradotti in italiano da Caterina Mazza. L’effetto di straniamento che ne deriva si produce, come scrive Mazza, con la costruzione di «una lingua che appartiene a due polisistemi diversi e al contempo a nessuno» (78). La significanza del nuovo sistema, come luogo di incontro e di conciliazione linguistici, si avvale fortemente della valenza iconico-grafica dei sinogrammi la cui polisemia deve essere decriptata e trasposta in chiave narrativa. Viene qui posto in primo piano il rapporto genetico del linguaggio nelle sue declinazioni stranianti dalla fonte iconica, generatrice di campi semantici. Chiude la sezione la laudatio dal titolo der flammende Weg (tradotta da Paola Maria Filippi) del poeta e traduttore Peter Waterhouse, tenuta il 29 agosto 2013 in occasione del conferimento a Yōko Tawada dello Erlanger Preis für Poesie als Übersetzung. Mosso dallo stupore per la fantasmagoria di suoni che evocano i testi di Tawada, Waterhouse cattura l’ascoltatore/lettore in un dialogo funambolico con la scrittrice nel quale la distanza e l’estraneità si dissolvono nell’afflato puro delle parole e nel linguaggio universale di una melodia parlata. Ricordando il titolo Überseezungen di un libro di Tawada, i cui termini della parola composta rinviano alle «lingue», alle «sogliole», al «mare», al «lago», all’«oltremare» ma anche alla traduzione, Waterhouse chiede: «Ė questo il compito del traduttore: ampliare l’udibile, completarlo, sentire suoni e ipertoni?».

Problematiche traduttive emergono in via collaterale, ma altrettanto rilevante nella sezione kafkiana introdotta dal puntuale e incisivo saggio di Csilla Mihály, docente dell’università di Szeged su “Un sogno” di Franz Kafka. Un tentativo di interpretazione, tradotto da Francesca Boarini, nel quale il noto racconto viene capillarmente analizzato e commentato in quanto struttura autonoma, svincolato dal Processo. Proprio questo specifico metodo ermeneutico e il conseguente commentario citazioni- stico hanno determinato l’opportunità se non la necessità di presentare una nuova ed eccellente traduzione di Un sogno ad opera della stessa traduttrice del contributo di Mihály. Boarini spiega che le citazioni riprese dalle versioni a stampa esistenti non si sarebbero potute ben inserire e amalgamare nel flusso sintattico del saggio critico. Ci troviamo quindi di fronte a una traduzione la cui motivazione ed esecuzione non nascono soltanto dal rapporto immediato con il testo originale, ma anche e soprattutto da un testo critico che si interpone come medium. Sarebbe interessante verificare la natura e l’entità della sua influenza sulle scelte del traduttore.

Intorno a queste costellazioni sommariamente descritte gravitano numerosi altri contributi che trattano temi e autori da angolature spesso innovative e inconsuete. Mi limito a indicarne alcuni. Roberto Galaverni, nel saggio Conversione di Fortini, indaga il rapporto particolare di Franco Fortini con la poesia di Umberto Saba, cui dedica la poesia Saba, escludendo nell’appropriazione del suo linguaggio qualsiasi manierismo e parodia. Daria Biagi discute gli esperimenti di traduzione in inglese e in tedesco e i loro modelli di riferimento del romanzo Horcymus Orca di Stefano D’Arrigo nel cui plurilinguismo si fondono dialetti e lingue diverse e nell’interazione di italiano e siciliano si genera una «lingua inventata». La pregevole traduzione ad opera di Amelia Alesina di alcune parti dei Briefe in die chinesische Vergangenheit dello scrittore sudtirolese Herbert Rosendorfer, tanto prolifico e noto all’estero ‒ di questi giorni è la traduzione del bestseller in ungherese ‒ quanto pressoché sconosciuto in Italia, è di per sé un contributo significativo anche per la mediazione culturale compiuta dalla traduttrice e presentatrice dello scrittore. Francesca Boarini in Voce del testo, voce del traduttore affronta i nodi problematici e i criteri possibili di soluzione della traduzione della prosa saggistica di Hermann Bahr con riferimento ai ‘polifonici’ pamphlet Polemiche su Klimt da lei curati in versione italiana.

La qualità e il successo di questo numero della rivista si può in definitiva misurare con la curiosità e la voglia del lettore di andare oltre il saggio a lui utile e, sfogliando, di attingere anche agli altri inserendosi così come fruitore nel serrato dialogo di autore e traduttore.

Fabrizio Cambi

«Comunicareletteratura», n. 6, 2013, Rovereto, edizioniosiride, 2014, pp. 296

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