Libri in cerca di editore: Gli incompiuti di Jirgl

[Con questa scheda su Die Unvollendeten di Jirgl, scritta nel 2012 per una casa editrice che alla fine decise di non pubblicarlo, prosegue la rubrica Libri in cerca di editore: brevi schede, quasi dei pareri di lettura, su opere che i redattori di germanistica.net sarebbero felici di vedere (o veder tornare) in libreria. Romanzi, poesie, drammi, saggi, opere canoniche e rarità della letteratura tedesca, studi e ricerche dei suoi maggiori mediatori italiani, che potrebbero (e dovrebbero) far parte di un’ideale Biblioteca germanica. Segnaleremo in particolare le traduzioni già eseguite ma tenute ‘nel cassetto’ e le curatele progettate ma non ancora realizzate. Con l’auspicio che qualcuno di questi libri incontri il suo editore. Per maggiori informazioni: info@germanistica.net.]

Michele Sisto

Reinhard Jirgl, Gli incompiuti
traduzione di Daniel Abbruzzese e Gigi Corsini

Premetto che all’inizio avevo dei pregiudizi, perché avevo ascoltato Jirgl al Literaturhaus di Wannsee e ne avevo avuto l’impressione di un narratore istituzionale, che posa da rivoluzionario mentre non è altro che un pezzo ben integrato del Literaturbetrieb. Invece questo romanzo uscito in originale nel 2003, che peraltro secondo Matteo Galli è il suo migliore (v. L’invenzione del futuro, pp. 247-48), mi è piaciuto non poco.

La materia è distribuita in tre parti. La prima racconta la Vertreibung da Komotau, nei Sudeti, delle quattro donne superstiti della famiglia Rosenbach, tra il ’45 e il ’47: la capostipite Johanna viene accompagnata dalle figlie Hanna e Maria verso ovest, con varie traversie, fino ad approdare a Birkheim (Salzwedel, oggi in Sassonia-Anhalt), mentre Anna, la figlia diciannovenne di Hanna (le donne hanno tutte lo stesso nome, a sottolineare la continuità del sangue al di là dei singoli individui), riesce a ricongiungersi con loro solo un paio d’anni più tardi, dopo essere stata internata in vari campi di lavoro e aver conosciuto il giovane contrabbandiere ed ex-SS Erich. L’ultimo capitolo della prima parte, il n. 8, descrive questo incontro e segna l’irrompere di una sensualità e di un sentimento autentici in un modo altrimenti scisso tra il rigido cattolicesimo delle donne della famiglia e le gelide leggi della brutale sopravvivenza. Pur concedendo molto al sentimentalismo e a uno schema da spy story d’appendice (cosa di cui Jirgl è ben consapevole, ma è lui stesso un sentimentale, come Böll o, in altro modo, Johnson), questo lungo capitolo è davvero molto bello. 

La seconda parte racconta gli anni successivi, 1947-53, e in particolare gli sforzi di Hanna per trovare un lavoro nell’amministrazione ferroviaria, tra Magdeburgo e Birkheim, e di mantenere la figlia agli studi, sullo sfondo del consolidarsi del sistema socialista nella Zona d’occupazione sovietica, con la collettivizzazione delle campagne, ecc. Il capitolo è distribuito in paragrafi che recano il nome di vie (fermate dell’autobus?) di Birkheim. Anche qui ci sono pagine molto belle, come la pudica dichiarazione d’amore del capoufficio a Hanna, e il rapporto di questa con la vecchia affittacamere di Magdeburgo, dove si dimostra nel modo più potente uno degli assunti del romanzo: che dove l’amore è sostituito dal dovere non può che prosperare la violenza (per lo più psicologica, ma anche fisica). Alla fine la giovane Anna, trasferitasi a Berlino, ritrova il contrabbandiere Erich e ne ha un figlio.

È questo figlio, alter ego dello stesso Jirgl, a raccontare nella terza parte, dalla prospettiva del presente (l’anno 2000), il resto della storia (il che fa supporre che sia sua la terza persona a raccontare anche le prime due parti). La narrazione è in forma di monologo interiore o lettera che il «paziente Reiner K.», malato di cancro, rivolge dalla sua stanza d’ospedale della Charité di Berlino a sua moglie. Il monologo, che si protrae per alcune notti, è scandito dalle ore e dai minuti, da «giovedì, 22.30» a «martedì, 30 minuti prima delle 8». Questa parte, un poco più lunga delle altre, è anche più faticosa, perché Jirgl non resiste alla tentazione di far dire all’io narrante quello che pensa della Germania riunificata e della sua scena letteraria, sputando parecchio veleno. Si apprende comunque che Anna si è sposata con un grigio arrivista della SED, tale Günter Nosse (Jirgl non ci risparmia il gioco di parole Ge-Nosse), dal quale poi si è separata per dedicarsi notte e giorno alla sua professione di interprete (sempre discriminata, come la madre), che la nonna Johanna è morta nel ’61, che le sue figlie Hanna e Maria muoiono nell’88, che K., dopo aver fatto per anni il dentista a Lichtenberg, dopo la Wende ha aperto una libreria a Prenzlauer Berg, e che, deluso anche dalla letteratura, si appresta, sopravvissuto al cancro, a una vita da solitario, non senza prima aver riempito di gas la libreria, che dunque al mattino potrebbe esplodere.

Il romanzo è bello e piuttosto potente, a patto però che non lo si legga in chiave politica: un po’ come Céline, che peraltro è uno dei modelli dichiarati di Jirgl. La tentazione di leggerlo come invettiva contro la DDR (ma non solo) è certo forte, perché il discorso su guerra, deportazione, discriminazione, totalitarismo, Heimat ecc. è spesso in primo piano. Ma le posizioni di Jirgl rischiano di apparire scontate, a causa dell’unilateralità della sua posizione, un coerente anarchismo alla Arno Schmidt per cui ogni potere è malvagio: il disprezzo del narratore abbraccia equanime tanto il nazismo quanto il comunismo e il capitalismo, senza risparmiare il cattolicesimo, in una notte gelida e violenta in cui tutte le vacche politiche sono nere. Su questo piano Jirgl mostra, anzi, tutte le sue debolezze, a partire da certi scontati calembour che costellano le sue pagine, come «LA SED TI CHIAMA / LA SED TI CHIAVA» o il già ricordato «G. Nosse».

Il pregio del romanzo sta altrove, in una problematica molto tedesca che vede contrapposti da una parte l’individuo (la spontaneità della vita) e dall’altra la società (la rigidità delle legge: che sia la brutale legge della sopravvivenza o i vari tentativi, tutti ovviamente fallimentari, di soppiantarla con un’organizzazione più umana). Il meglio di Jirgl sta nella sua capacità di rappresentare le forze oscure e inaddomesticabili che muovono l’esistenza umana: il sesso, la morte, la decadenza del corpo, la lotta per la sopravvivenza. Questo biologismo, che tende a trascendere l’individuo nella specie, ricorda Hans Henny Jahnn, che del resto è più volte citato. A differenza del suo maestro, Jirgl non riesce a liberarsi da una certa repulsione puritana per l’organico, e pur considerandolo in ultima istanza positivo, tende a rappresentarlo nelle forme della decadenza, un po’ come avviene nel Mann della Morte a Venezia e soprattutto nel Koeppen della Morte a Roma. L’ossessione per lo sporco e il disordine pervade tutto il romanzo: «Ciò che è vivo vuol mangiare & accoppiarsi – & commerciare trafficare rubare contrabbandare, valigie borse con la bocca avida aperta, pantaloni gonne giù/su & alla svelta».

Ma, dall’altra parte, le poche pagine rischiarate da un barlume di gioia sono le scene di sesso tra Anna e il contrabbandiere, e poi tra Reiner e sua moglie: scene in cui dominano lo sporco e il disordine, sia morale che legale. Questa idea della sessualità come vitalità e disordine allo stesso tempo si trova anche in Günter Grass, benché declinata in modo meno pessimista e più vitalistico. Anche l’insistenza sulla «O nera» della parola «morte», nell’ultimo capitolo, ricorda la figura della «cuoca nera» del Tamburo di latta. Mi sembra che il potenziale scardinante del romanzo stia in questa capacità di rappresentare la nuda vita, e di metterla in conflitto con la Storia attraverso le vicende dei personaggi (non a caso quasi tutti femminili) della famiglia Ronsenbach. Il sostrato della vita incrina la superficie della storia, ridimensionando notevolmente il peso di quest’ultima. Si può non essere d’accordo, ma l’effetto complessivo è, nonostante il pessimismo, liberante.

Coerentemente a questa visione del mondo, la narrazione si articola in lunghe scene molto dense di particolari: se il romanzo fosse un film vi prevarrebbero lunghi piani sequenza e lenti movimenti di macchina. Anche gli scarti, ripresi da Arno Schmidt, rispetto all’ortografia convenzionale, che a tutta prima possono apparire manieristici, svolgono bene la loro funzione di Stolpersteine, impedendo a lettore di abbandonarsi al flusso della narrazione e stimolando l’attenzione al dettaglio. (Questo peraltro non impedisce che il romanzo si legga con piacere, e persino con trasporto. Al di sotto degli artifici modernisti, infatti, Jirgl è un narratore piuttosto tradizionale, peraltro incline a intervenire nella narrazione anche quando è in terza persona, come prima di Flaubert.)

A Jirgl non interessa la grande Storia quanto la piccola vita, una morale che è esplicitata nel finale: «Duri i tempi per i piccoli sogni; solo i grandi sogni, spinti dalla voracità del cancro, garantiscono la promessa di un momento di realtà. Allo stesso modo la fortuna truffaldina come fortuna-del-truffatore: non rischiare niente del proprio corpo interiore, in compenso voler vincere tutto della realtà……» Gli ‘incompiuti’, così mi sembra di poter interpretare, sono coloro che non assecondano la corrente dei grandi sogni (delle ideologie, si direbbe nel gergo politicamente corretto di oggi), ovvero di una civiltà considerata per se distruttiva e pertanto paragonata a una metastasi. Questo però non implica, nei personaggi, se non in Reiner, la coscienza della proprio straordinarietà e, per fortuna, nemmeno l’esaltazione del loro supposto eroismo. Ciò che li caratterizza è piuttosto l’ostinata fedeltà a un principio, anche sbagliato, come il senso del dovere di Hanna, la schietta sensualità di Anna o la vocazione letteraria di Reiner, e la condanna a scontare questa fedeltà al prezzo della discriminazione, della marginalità e del disprezzo. Non c’è tanto da stare allegri, ma questo mi pare sia il sugo della storia, che Jirgl sa cucinare indubbiamente bene.

Io sarei senz’altro per pubblicarlo, badando a presentarlo non solo o non tanto come romanzo familiare e storico sulla Germania del Novecento, quanto come tentativo céliniano di rappresentare la vita e i rapporti tra gli uomini nella loro nuda (e spietata) elementarità. Privilegerei, insomma, una lettura più antropologica che storico-politica.

Non ho confrontato con il testo originale, ma la traduzione mi sembra buona. Certo, data la complessità del testo, una revisione è indispensabile. P.es. il titolo del capitolo primo, Vor Hunden & Menschen, non andrebbe tradotto «Prima dei cani & degli uomini» bensì «Davanti ai cani & agli uomini» (il perché è ben spiegato nella voce di Wikipedia dedicata al romanzo).

Michele Sisto

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