Per una storia rapsodica dell’intellettuale moderno

[Pubblichiamo con molto piacere il testo della Lectio magistralis tenuta da Fabrizio Cambi all’Università di Trento il 3 dicembre 2014, un ampio estratto della quale è uscito sull’ultimo numero dell’Indice dei libri del meseL’immagine di Heine, tratta dalla copertina di un fascicolo del 1906 della rivista “Jugend”, viene da qui. M.S.]

“Nel rissoso chiasso d’oggi / la tua voce andrà sommersa” (H. Heine).
Per una storia rapsodica dell’intellettuale moderno dall’Ottocento ad oggi

Fabrizio Cambi

Periodicamente, a distanza di anni, spesso in concomitanza di snodi politici o di contingenti contingenti riflessioni a bilancio di epoche trascorse si ripropongono la questione del ruolo, della funzione e quindi dell’utilità dell’intellettuale e a corollario poi l’interrogativo della sua definizione. Così nel 2010 sollevò notevole dibattito il numero monografico di “Alfabeta2” dal titolo Intellettuali senza, in particolare lo scritto di Umberto Eco Alfabeto per intellettuali disorganici, nel quale, con una strategia dialettica con la posizione di Gramsci dell’intellettuale organico, stabiliva dei punti fermi che è difficile non condividere: “ricopre la funzione di intellettuale chi svolge un’attività critica e creativa. In tal senso Edison, che inventava (sia pure pasticciando con le mani) la lampadina, era un intellettuale, e svolge funzione di intellettuale il coltivatore che mette in questione i metodi di coltivazione in uso per inventare un modo nuovo per produrre pomodori”. Gran parte dell’articolo di Eco è incentrato sulla questione del “perché l’attacco agli intellettuali viene sempre da destra e mai da sinistra” come se a destra non esistessero grandi intellettuali. Nel 2013 è uscito su “MicroMega” (n. 6) un altro numero monografico cui hanno contribuito noti studiosi fra i quali Salvatore Settis, Adriano Prosperi, Gianni Vattimo, Piergiorgio Odifreddi. Già i titoli dei contributi confermano la difficoltà ma anche l’intenzione di tentare di ridefinire il senso della presenza dell’intellettuale nella sua funzione pubblica come già aveva affermato Kant distinguendo fra “uso privato” e “uso pubblico” della ragione: “Splendori e miserie degli intellettuali”, “Alla ricerca dell’impegno perduto”, “Per un impegno a progetto”, “Il declino dell’intellettuale impegnato è inarrestabile?, “Intellettuali o clown”, “Il creativo intellettuale del futuro”, “Apologia dell’intellettuale organico”. Questi titoli vogliono essere il viatico per prese di posizione se non per possibili risposte alle questioni di fondo se “ha ancora senso, oggi, la figura dell’intellettuale engagé. Come concepire nell’era globalizzata della visibilità e di internet, dell’intrattenimento di massa e del capitalismo finanziario, l’impegno politico e sociale dello scienziato e dell’uomo di cultura e se è vero, come si sente dire, che l’essenziale, per l’intellettuale, è scrivere buoni libri, dirigere buoni film, produrre opere d’arte”, cioè far bene il proprio lavoro, legittimando una sorta di razionalizzazione del disimpegno.

Non si intende tuttavia sviluppare oltre questa premessa per evitare di restare invischiati in una astratta trattazione sulla Begriffsbestimmung, su una definizione possibile dell’intellettuale, come specifico fenomeno sociologico e psicologico, sulle sue dinamiche di intervento critico-interpretativo sulla società. Conosciamo la letteratura basilare in proposito di Gramsci, Karl Mannheim, Le Goffe, Bourdieu, per fare qualche nome fra i tanti, che in epoche diverse e da prospettive diverse hanno compiuto una fenomenologia dell’intellettuale, senza dubbio una figura centrale per incisività e visibilità nel Novecento. Si cercherà di compiere qui una rassegna molto parziale di alcuni noti scrittori del mondo tedesco il cui impegno civile e la dimensione pubblica e morale si sono svolti parallelamente, anzi si sono intrecciati con la loro opera letteraria. In una prospettiva di carattere diacronico, in linea con un indirizzo attuale in Germania (cito solo due volumi di successo: Intellektuelle in der Frühen Neuzeit, a cura di Luise Schorn-Schütte, Berlin 2010 e Kritik in der Frühen Neuzeit, Intellektuelle avant la lettre, a cura di Rainer Bayreuther, Wiesbaden 2011), si farà riferimento a Heinrich Heine, Goethe, Romain Rolland, Hermann Hesse, Thomas Mann, questi ultimi per il loro ruolo avuto durante la Prima guerra mondiale. Al di là della sua parzialità questa può apparire una scelta arbitraria, in alternativa a molte altre. Perché non Lessing, Schiller, Büchner, Brecht? Tuttavia qualsiasi scelta, per non peccare di arbitrarietà, deve essere in qualche modo motivata. Si proverà a farlo proponendo un percorso rapsodico, cioè frammentario, per salti in avanti e a ritroso nella cultura tedesca segnato da passaggi e snodi a mio avviso fondamentali che si richiamano in una dialettica ermeneutica pur nella scansione di mutati contesti storici.

Nel 1987 il germanista Paolo Chiarini pubblicò da Editori Riuniti un libretto, tanto esile quanto prezioso, oggi irreperibile, dal titolo ambizioso e impegnativo: Alle origini dell’intellettuale moderno. Saggio su Heine. A Chiarini non interessava certo risalire cronologicamente all’inizio dell’uso semantico di un termine praticamente inesistente nella Germania dell’Ottocento, quando era in uso il termine der Gelehrte, a differenza della Francia dove lo si può individuare già in Saint Simon nel 1821, nel Chevalier des Touches (1864) di Barbey d’Aurevilly, in Maupassant nel 1879 e soprattutto a seguito dell’affaire Dreyfus nel J’accuse di Zola e nel manifesto di Clemenceau. Nel lessico del tempo Heine, l’autore tardo romantico del Buch der Lieder, dei Reisebilder, dei reportage culturali di viaggio, di opere dissacranti e graffianti di saggismo come Die romantische Schule, di poemetti intrisi di storia e attualità politica (Deutschland ein Wintermärchen, Atta Troll), era e resta un Dichter, un artista. Chiarini faceva evidentemente riferimento non al segno ma al significato del termine “intellettuale” da attribuire a un poeta che della penna fa consapevolmente uno strumento di lotta senza quasi mai recare offesa alla poesia. Si pone quindi la questione di fondo con quali generi letterari, con quali modalità compositive, retoriche, stilistiche Heine conduce i suoi Federkriege, le sue guerre di e con la penna, che occupano lo spazio letterario, sono letteratura autentica, modificandone però il suo canonico statuto tradizionale.

Heine fa uso di un ampio spettro di forme di comunicazione letteraria, in cui spesso coesistono l’infranta poesia romantica e la militante prosa realistico-borghese, utilizzando molteplici tastiere retorico-stilistiche (parodia, satira, celia, grottesco, umorismo, polemica, l’arte sofistica nella quale si declina l’agonalità intellettuale). Nella fenomenologia poetologica della scrittura satirico-polemica Heine non persegue soltanto l’obiettivo, di ascendenza protestante e illuministico-voltairiana, di denunciare il sopruso e l’ingiustizia della Deutsche Misère (immagine che conia prima di Marx), ma gli permette di tracciare un percorso della società tedesca dalla Goethezeit al Congresso di Vienna, alla fine della Kunstperiode con la morte di Goethe nel 1832, al Vormärz e al ’48, evidenziando l’arretratezza e i pesanti limiti in Germania degli spazi di discussione pubblica. Come scrive Chiarini “La miseria tedesca e più specificatamente la miseria politica dei regnanti e la miseria sociale sono quindi da assumere come elemento strutturante di un’ipotesi storiografica a partire dalla quale è possibile intendere il rapporto intellettuale-società e intellettuale-potere come è venuto configurandosi di volta in volta nella storia tedesca degli ultimi due secoli”. Con la Deutsche Misère i tedeschi hanno dovuto fare sempre più i conti, nel Novecento, sul versante morale e umano. L’azione intellettuale di Heine è mirata alla possibile, futura costruzione di una società di diritto in quanto fondata sui diritti reciprocamente condivisi dai popoli.

Egli intende conferire alla dimensione del politico e del sociale una dignità la cui verità, fatta di contraddizioni e di sofferenze, può essere rappresentata con gli strumenti di cui dispone lo scrittore. Nuova è la prospettiva della plausibilità che il privato possa, anzi debba essere pubblico. Con Heine hanno inizio “la difficile coabitazione dell’artista e della sua coscienza civile (…) sentita come profonda e dolorosa lacerazione”, la percezione della scissione del letterato nel poeta e nel suo impegno nella sfera pubblica, l’ascolto delle due voci, quella democratica del contributo ideologico-politico e quella aristocratica dello spirito. Di questo il poeta era consapevole, quando fra il rassegnato, il vittimista affermava con narcisistico compiacimento nella prefazione all’edizione francese di Lutezia del marzo 1855: “Il mio Libro dei canti servirà al droghiere per farne cartocci in cui versare caffè o tabacco da fiuto per le vecchiette del futuro” e ancora, nel capitolo conclusivo di Atta Troll:

Forse questo è il canto estremo
del romantico ideale!
Nel rissoso chiasso d’oggi
la tua voce andrà sommersa.

Ha poco senso rilevare incoerenza e oscillazioni sul piano ideologico e politico. L’insofferenza per il filisteismo e per i regnanti si esprimono sempre attraverso il medium dell’arte nata dalle ceneri della Kunstperiode e declinata nelle sue molteplici tipologie di espressione. Nella pratica innovativa della pubblicistica e del feuilletonismo Heine pone infatti in primo piano il rapporto politica-cultura e la funzione da assegnare al lavoro intellettuale, usando categorie di natura politico-operativa (come la dialettica di strategia e tattica), ideologica (la critica dell’impazienza rivoluzionaria, l’elogio ironico dell’autocensura), progettuale nella prefigurazione di quell’anticipazione utopica che nasce dalle ceneri del romanticismo: “Il poeta è uno storico con lo sguardo puntato verso il futuro”; “il poeta è un beniamino bislacco della sorte, vede i boschi di querce che ancora sonnecchiano nella ghianda, conversa con le generazioni che ancora devono nascere”, scrive nella prefazione alla terza edizione dei Neue Gedichte, afferma il primato del sociale legittimato dalla formulazione netta e inequivocabile di una teoria dei bisogni:

Oh! Il popolo, questo povero re straccione, ha trovato degli adulatori che più svergognatamente dei cortigiani di Bisanzio e Versailles lo colpiscono alla testa con il loro incensiere. Questi lacché del popolo ne lodano di continuo pregi e virtù ed esclamano entusiasti. Com’è bello il popolo! No, voi mentite. Il povero popolo non è bello, al contrario è orrendo. Ma questo orrore nasce dalla sporcizia, e scomparirà assieme ad essa non appena costruiremo dei bagni pubblici dove Sua Maestà il Popolo potrà bagnarsi gratuitamente. (…) Il popolo talvolta è cattivo (…). Ma la sua cattiveria viene dalla fame; dobbiamo preoccuparci che abbia sempre da mangiare. (…) Il motivo della perversità risiede nell’ignoranza; bisogna cercare di eliminare questo male nazionale per mezzo di scuole pubbliche, ove vengano date lezioni gratuitamente, e insieme panini al burro e tutte le altre vivande necessarie.

Sulla base di queste sintetiche e cursorie affermazioni dovrebbe risultare più che plausibile che Heine, dalle radici ebraiche recise, esule senza patria sul confine del Reno tra Francia e Germania, possa essere considerato un intellettuale moderno ante-litteram, senza dubbio in linea con quanto indicato da Eco nel suo già citato Alfabeto per intellettuali disorganici: “Ė proprio dell’intellettuale, e tanto più in quanto sia libero e ‘disorganico’, ritenersi impegnato nell’occuparsi della cosa pubblica, anzitutto in quanto cittadino che per mestiere è abituato a sottoporre i fenomeni al vaglio della riflessione e della critica”. Ma il poeta Heine si rivela ancora più figura di intellettuale scomodo e ingombrante, lui allergico alle nascenti nomenclature di partito, in rapporti conflittuali con gli esponenti della sinistra hegeliana e con Marx.

La sua rilevanza ulteriore di intellettuale post-mortem è fissata da un altro intellettuale, il filosofo Theodor Adorno, che nel 1956, per il centesimo anniversario della morte del poeta, in un anno per altri versi tanto drammatico, tenne una storica conferenza radiofonica, sferzante e chirurgica, La ferita Heine, un titolo divenuto un elemento congenito all’autore e non cicatrizzabile: “Il suo nome è un fastidio e soltanto chi accetta di constatarlo senza abbellimenti può sperare di dare un aiuto per superarlo”. Ė motivo d’onore e di dignità per il poeta Heine che nella Germania nazista, non potendo né volendo il regime rimuovere il canto della Loreley dalle antologie scolastiche, l’autore fosse menzionato come “poeta sconosciuto”, perché innominabile e assimilato all’arte degenerata. Ma l’aura di Heine aveva cominciato a sanguinare ben prima, già fra Otto e Novecento e nella repubblica di Weimar, si pensi al duro verdetto di Karl Kraus. Sono trascorsi altri cinquant’anni, è crollato il Muro, di recente sono stati festeggiati i 25 anni del suo abbattimento in un clima di pressoché raggiunta armonizzazione fra est e ovest avvenuta grazie al tempo e alle nuove generazioni che quando va bene, del passato anche recente, coltivano curiosa memoria. Ma alla domanda: la ferita Heine in Germania si è chiusa? Forse non è stata data ancora sufficiente risposta e le parole conclusive di Adorno, che vanno oltre Heine, mantengono la loro validità:

La sua parola sta a rappresentare una mancanza di patria: non c’è più altra patria che un mondo in cui nessuno più venga espulso, il mondo di un’umanità completamente liberata. La ferita Heine si chiuderà soltanto in una società globale che realizzi la conciliazione.

Heine ci sollecita ad affrontare un’altra questione: Goethe il poeta tedesco più grande, “l’ultimo uomo universale a camminare sulla terra”, secondo la definizione di George Eliot, può essere considerato un intellettuale? L’attribuzione dell’aggettivo intellettuale a Goethe suona come impropria e forzata. Secondo le coordinate appena tracciate e secondo i consueti giudizi tranchant di Heine formulati nella Scuola romantica la risposta non può che essere per lui negativa: “Anche Goethe cantò alcune grandi lotte per l’emancipazione (che è la grande missione del nostro tempo), ma la cantò da artista (…) I capolavori goethiani adornano la nostra cara patria come belle statue adornano un giardino, ma sono statue. Ci si può innamorare di esse, ma sono infeconde: le poesie di Goethe non generano l’azione come quelle di Schiller. L’azione è figlia della parola, e le belle parole goethiane sono senza prole”. Nel capitolo 26, ambientato a Verona, della Reise von München nach Genua compiuta nel 1828, Heine sottolinea parodisticamente la fedeltà descrittiva di Goethe nella sua Italienische Reise (1816-17-29):

La natura per sapere qual era il suo aspetto creò Goethe. (…) Un certo signor Eckermann ha scritto un libro su Goethe nel quale assicura gravemente che se il buon Dio, al momento della creazione, avesse detto a Goethe: ‘Caro Goethe, grazie al cielo ho finito, ho creato tutto tranne gli uccelli e gli alberi, mi faresti un gran piacere se ti volessi occupare in vece mia della creazione di queste ultime bagattelle’, Goethe avrebbe creato queste bestie e queste piante con la stessa abilità del buon Dio, rispettando lo spirito del resto del creato.

La severità del giudizio di Heine, che riesce a filtrare e a trasmettere la sua intellettualità di autore engagé senza scendere tuttavia dall’aristocratico piedistallo dello spirito, si spiega anche con il trand generazionale. Heine nasce nel 1797 quando Goethe è ormai sulla cinquantina. Ma quando nel 1828 Heine scrive il suo giudizio sarcastico su di lui non poteva conoscere una delle scene conclusive della seconda parte del Faust completato da Goethe nel 1831, in particolare l’ultimo monologo prima della morte di Faust che nel compimento della sua riformatrice missione sul piano economico-sociale si illude di aver assolto al più alto e redentivo compito umano e umanitario strappando al mare fertili terre da coltivare:

Sì, mi sono dato tutto a questa idea,
qui la sapienza suprema conclude:
la libertà come la vita
si merita soltanto chi ogni giorno
la dovrà conquistare.
(…)
In una terra libera fra un popolo libero esistere!
Potrei dire a quell’attimo:
‘Fermati dunque, sei così bello!”
(trad. di Franco Fortini)

Auf freiem Grund mit freiem Volke stehn!
Zum Augenblicke dürft ich sagen:
‘Verweile doch, du bist so schön!
(vv. 11573-11582).

Il vecchio Goethe, che rappresenta la rivoluzione industriale, pagata al prezzo della morte di Filemone e Bauci, in questo testamento vibrante di tensione utopica di Faust redento prima che i Lemuri lo afferrino o ancora molti anni prima la sua proposta di traduzione del versetto del Vangelo di Giovanni “Am Anfang war das Wort”, all’inizio era il logos, con “Am Anfang war die Tat”, non attesta tutto questo una dimensione intellettuale, poeticamente sublimata, che contrasta con il giudizio heiniano di indifferentismo e di auratico distacco? Del resto dobbiamo a Goethe il congedo irreversibile dal grande ideale di una cultura estetico-individualistica di eredità settecentesca in grado di dominare onnicomprensivamente la natura, come il poeta scriveva in modo sofferto nel suo secondo romanzo di formazione Wilhelm Meisters Wanderjahre (1821): “Ė ormai finita l’epoca delle unilateralità; beato colui che lo comprende e opera per sé e per gli altri in questo senso”.

Se come scrive Gramsci “tutti gli uomini sono intellettuali” perché “non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens” e “ogni uomo partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale”, non tutti gli uomini ovviamente svolgono nella società la funzione dell’intellettuale. Se il compito dell’intellettuale consiste ai fini di una comprensione critica della realtà nell’intelligere, nel “seminare dei dubbi – qui cito una serie di definizioni di Bobbio – non già di raccogliere certezze, esercitando misura, ponderatezza, circospezione, valutando tutti gli argomenti prima di pronunciarsi, controllando tutte le testimonianze prima di decidere, e non pronunciarsi e non decidere mai a guisa di oracolo dal quale dipenda, in modo irrevocabile, una scelta perentoria e definitiva”, occorre aggiungere che per essere intellettuali non basta essere intelligenti (e comunque si può essere intellettuali senza essere intelligenti) per arrivare al paradosso musiliano della “stupidità intelligente” o alla constatazione del protagonista dell’Uomo senza qualità che “l’intelligenza stessa non è intelligente”. Di un brillante enigmista o di un campione di scacchi non diciamo che sono degli intellettuali. Occorre infatti affacciarsi, pronunciarsi di fronte a una collettività producendo un pensiero critico che sia esprimibile, comunicabile, reso pubblico e messo a disposizione con una documentalità che nel presente è sempre meno cartacea e sempre più telematicamente estesa e delocalizzata.

L’attività dell’intellettuale ha comportato, almeno a partire dall’Illuminismo ad oggi, una componente di engagement, pagato a volte anche a caro prezzo, ma anche esercitato, per usare di nuovo l’espressione di Heine, da lacché del potere. Una delle fasi più drammatiche in cui una minoranza di intellettuali di vari paesi conduce nella sfera pubblica una lotta di impegno civile e morale è quella della Prima guerra mondiale. Una delle figure più note per il suo antimilitarismo e umanitarismo transnazionale è lo scrittore Romain Rolland, premio Nobel nel 1915 per il suo romanzo-fiume Jean-Christophe il cui protagonista, è bene ricordarlo, il compositore tedesco Jean-Christophe Krafft, stabilitosi e integratosi in Francia, assurge a simbolo ammonitore di una possibile convivenza pacifica dei popoli che sarà spezzata via di lì a poco dalla guerra. Proprio nel 1915 Rolland, trasferitosi in Svizzera, rifugio di esuli come Hermann Hesse, Stefan Zweig, Ferruccio Busoni, crocevia nell’intrecciata rete di rapporti di artisti e intellettuali di molti paesi, pubblica la raccolta di 16 articoli, usciti sul “Journal de Genève”, nota con il titolo tanto discusso e spesso frainteso di Au-dessus de la mêlée, divenuto una locuzione pregnante pronta per l’uso nelle situazioni più diverse. Merito di Rolland, che dovette far fronte a pesanti attacchi fra i quali quelli di Maurice Barrès, Gerhard Hauptmann (premio Nobel nel 1912) e soprattutto Thomas Mann (futuro premio Nobel nel 1929).

Ma che cosa significava effettivamente per Rolland collocarsi al di sopra della mischia e più in generale come dovrebbe posizionarsi un intellettuale: al di sopra della mischia, né di qua né di là, e di qua e di là, al di fuori, dentro la mischia? In breve, Rolland con au-dessus de la mêlée intendeva l’assunzione di un’equidistanza super partes ma non per chiamarsi fuori, non prendendo partito né per l’una né per l’altra parte, ma per comprendere, con imparzialità e serenità di giudizio, le ragioni dei contendenti allo scopo di uscire dalla guerra non rinnegando comunque una solidarietà patriottico-identitaria per il proprio paese di appartenenza. Rolland mira a una prospettiva omnilaterale inserendo gli elementi parziali e congiunturali in una dimensione globale. Egli progetta una “union purement spirituelle entre les penseurs libres de toute les nations” e aderisce a una “Déclaration d’indepéndance de l’esprit” sottoscritta fra gli altri da Bertrand Russel, Benedetto Croce, Stefan Zweig, Henri Barbusse. Anche Hesse, che in Svizzera stabilisce un forte rapporto di amicizia con Rolland negli anni del conflitto, condivide queste posizioni e animato anche da un forte pragmatismo contribuisce all’accordo fra tedeschi e francesi per ricoverare in Svizzera i prigionieri di guerra feriti e da uomo di lettere dà il suo apporto specifico procurando letture ai prigionieri grazie al sostegno di riviste come la “Deutsche Interniertenzeitung” da lui diretta e il “Verlag der Bücherzentrale für deutsche Kriegsgefangene”.

Resta il problema di fondo della collocazione strategica più adeguata da parte dell’intellettuale che, pur in forza della sua notorietà di artista, intende prendere posizione sul piano pubblico. Norberto Bobbio, nel libro Politica e cultura (1955), è stato uno degli interpreti più acuti dell’impostazione di Rolland e a seguito del recente passato del Fascismo, della Seconda guerra mondiale, della Resistenza, cui prese parte come membro del Partito d’Azione, estende e aggiorna criticamente l’essere “al di sopra della mischia” in una problematica prospettiva ancora attuale che merita di essere discussa in un confronto con l’oggi. L’atteggiamento di Rolland viene in parte giustificato perché in esso Bobbio riconosce “il compito dell’intellettuale, custode della verità, di non lasciarsi contaminare dalle passioni che accecano i contendenti, di guardare dall’alto il campo di battaglia in attesa della pace o della tregua che gli permetta di scendere dal piedistallo e di mescolarsi tra la folla con animo puro”. Il rischio è che “la cautela nel giudizio, la precisione nell’accertamento dei fatti, il parlare a ragion veduta” determini un distacco eccessivo dalla realtà. C’è poi l’atteggiamento di chi non sta né di qua né di là, rifiutando “di lasciarsi strappare un consenso dall’una e dall’altra parte” e osservando “l’incendio senza fare niente per spegnerlo”. Poi c’è anche chi sta di qua e di là sceverando possibili valori positivi dell’una e dell’altra parte purificandoli della componente passionale. Si può intuire che Bobbio non condivida pienamente queste tre posizioni vedendo in ognuna di esse dei limiti e ne proponga una quarta da lui praticata come filosofo del diritto e politologo e con la quale dovremmo confrontarci:

L’intellettuale ha il compito della sintesi. Ė un modo di porsi al di sopra delle parti, non con un atto di distacco o di sfida, ma con pretesa di guida. Coloro che sono immersi nella lotta politica, vedono un solo lato della questione, difendono punti di vista parziali, sono portatori di ideologie. L’intellettuale, invece, abbracciando in uno sguardo più puro le singole prospettive, presume di proporre una considerazione globale o totale della realtà, che, appunto perché globale o totale, non è più ideologia; e in questo compito sintetico prepara il futuro.

Chi si gettò invece a capofitto nella mischia ideologica fu durante la Prima guerra mondiale Thomas Mann che, giudicato non idoneo al servizio militare, si arruolò in servizio spirituale armato motivando e legittimando, negli scritti Pensieri di guerra, Federico e la grande coalizione e soprattutto nelle Considerazioni di un impolitico (prima ed. 1918) le ragioni difensive della necessaria campagna aggressiva tedesca, esaltando il vitalismo ancestrale e al tempo stesso romantico della Kultur germanica, il poetico dinamismo novalisiano della guerra, la sua dimensione agonistica come è definita da Ernst Jünger. Il richiamo da parte di Rolland a Goethe quale patrimonio dell’umanità, “perché aveva mantenuto il suo animo calmo, a quelle altezze a cui si percepisce la felicità e la sventura degli altri popoli quanto la propria”, è ripreso da Hesse che nell’articolo O Freunde, nicht diese Töne! aveva scritto: “La gioia provata da Goethe per la tedeschità che conosceva e amava era però da lui superata da quella per l’umanità. Era un cittadino e patriota nel mondo internazionale del pensiero, della libertà interiore, della coscienza intellettuale”. Al contrario Mann rigetta con parole sferzanti Mann l’opposizione stabilita da Rolland e Hesse fra una Germania buona e ideale, rappresentata dai valori etico-artistici del classicismo weimariano e una intollerante e guerra fondaia e riafferma con forza l’unità di Macht e Geist della Germania perché “Federico e Bismarck non sono meno tedeschi di Goethe, Lutero e Kant”.

“Non vogliamo indulgere alla banale e già stantia distinzione tra una Germania ‘cattiva’ e una ‘buona’, per poi presentare il figlio sublime (Goethe) come rappresentante di quella ‘buona’. La grande natura tedesca ha in sé tanto bene quanto può averne la grandezza in generale, ma in essa vi è anche, e sempre, la ‘cattiva’ Germania”. Queste parole ancora di Thomas Mann furono pronunciate il 25 luglio 1949 nella Paulskirche di Francoforte per il bicentenario della nascita di Goethe, al rientro dopo sedici anni di esilio in una Germania divisa e sprofondata nelle sue macerie materiali e morali. Riaffermando la volontà di presentarsi come tedesco al di sopra delle parti, au-dessus de la mêlée, il 30 luglio, accompagnato dallo scrittore Johannes Becher, Ministro della Cultura della RDT, si reca a Weimar dove, nel Nationaltheater, ripete il discorso celebrativo di Francoforte e riceve il Premio Goethe. Subito dopo lascia di nuovo la Germania per vivere in Svizzera. Mann, che non si era calato direttamente nella mischia né nella Prima né nella Seconda guerra mondiale, che hanno causato 49 milioni di morti come ci ha ricordato di recente ancora Eco nel suo discorso al Quirinale, vuole rappresentare come scrittore e intellettuale l’unità della Germania “la cui vera patria è la lingua tedesca che non conosce occupazione”, anticipando e preparando il futuro, secondo la posizione di Bobbio, che si sarebbe compiuto quarant’anni dopo con la caduta del Muro.

Ormai, anche nell’uso corrente, la parola “intellettuale” con il relativo target ha perso non solo la sua aura, ma anche il significato identitario, pur nella sua frastagliata eterogeneità, di una ‘categoria’ vocata all’engagement che, partendo spesso dalla disciplina praticata professionalmente, sconfinava e si proiettava in una presa di posizione di orientamento critico. L’intellettuale si dimostra in definitiva una delle figure più emblematiche e rappresentative del Novecento che in moltissimi casi è rimasta vittima, in una lotta impari, di ideologie che hanno determinato le più grandi catastrofi della storia. Da più parti si sostiene che “gli intellettuali non moriranno, perché per farli morire sarebbe necessario un mondo senza scrittura” e quindi senza memoria. Della memoria si parla molto di quella storica, ma quella in realtà dominante è la memoria del computer nella sua esponenziale velocità proiettiva, motore delle future e sofisticate macchine intelligenti. Per opporsi al rischio che il prodotto della ragione sfugga alla ragione stessa si deve sperare in un rinnovato impegno dell’intellettuale, comunque vogliamo chiamarlo nel terzo millennio, che sappia inquadrare in un equilibrato bilanciamento interpretativo la sophia e la conoscenza scientifica nella phronesis, garanzia per l’essere umano di dignità e di una autentica memoria storica.

Fabrizio Cambi

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