Comunicare n. 6: Laudatio a Yoko Tawada

[E’ uscito il n. 6 di «Comunicare letteratura». Ne riportiamo qui l’editoriale firmato da Paola Maria Filippi e, in pdf, il testo della Laudatio a Yoko Tawada pronunciata da Peter Waterhouse in occasione del conferimento alla scrittrice dell’Übersetzerpreis der Kulturstiftung Erlangen. M.S.]

Paola Maria Filippi

L’esplorazione dell’intreccio di lingue, linguaggi e culture di cui la letteratura è depositaria, da sempre leitmotiv di «Comunicare letteratura», in questo numero 6/2013 risulta particolarmente proficua. Fin dal primo intervento di Roberto Galaverni, che indaga lo speciale rapporto di Fortini con Saba, la cifra dell’appropriazione creativa del linguaggio altrui si rivela chiave necessaria per meglio intendere la riscrittura del poeta fiorentino e allo stesso tempo «pre-testo» per la rimeditazione saggistica dello studioso del nuovo millennio.

L’italiano innervato di antico siciliano nell’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo è all’attenzione di Daria Biagi che interroga i traduttori inglese e tedesco di quella lingua sperimentale, ardua e affascinante al tempo stesso, per individuare il filo rosso che accompagna e condiziona, in scelte espressive e significanti di una variante italiana inventata, chi vuole renderla fruibile in altre culture.

Peter Handke, il maggior autore austriaco vivente, non soltanto ha regalato a Comunicare un breve scritto inedito, che, unico, basterebbe a giustificare il lavoro di tanti poeti e interpreti, ma ha raccolto attorno alla propria opera alcuni fra gli studiosi e traduttori italiani più attenti e sensibili: Hermann Dorowin che ne delinea il profilo autenticamente europeo e plurinazionale; Luigi Reitani che, di contro, lo confronta con la ricerca di proprie radici dimenticate nella più prossima, circoscritta regione friulana; Hans Kitzmüller, Anna Maria Carpi e Claudio Groff che rivelano le proprie strategie di appropriazione e resa di testi di uno spessore linguistico che talvolta arriva a sfiorare il cripticismo.

Il multilinguismo si fa «nuova lingua» in Yoko Tawada, una delle voci più autenticamente trasgressive nel panorama mondiale. La lingua materna – il giapponese – così come quella acquisita – il tedesco – divengono strumento nuovo e unitario per ripensare e ridire il mondo e l’esperienza che di esso si fa. Una esperienza molto sensoriale, marcatamente uditiva, nella quale i suoni, nella loro purezza, trasmettono significati nuovi e solo in apparenza incongrui. La pura lingua dice quello che il segno significante misconosce. Peter Waterhouse, poeta e traduttore, a sua volta nato e cresciuto fra più mondi e più lingue, riprende le parole di Tawada non solo per lodarne la sapienza. La sua laudatio si fa essa stessa fantasmagoria di suoni e suggestioni, gioco funambolico, nel quale con sguardo da estraneo e compartecipe al medesimo tempo, e perciò più disposto alla «meraviglia», esplora le infinite potenzialità che la «straniera» Tawada gli ha rivelato.

Molte sono le voci poetiche importanti nel mondo d’oltralpe, per altro tanto vicino, che faticano a trovare lettori in Italia. Fra esse, Herbert Rosendorfer, scrittore sudtirolese di lingua tedesca, vissuto a lungo in Germania e che in Amelia Alesina ha trovato la mediatrice ideale: il confronto multiculturale oggetto dei Briefe in die Chinesische Vergangenheit molto rivela delle difficoltà e incomprensioni che la lontananza non solo spaziale, ma anche temporale, può generare.

Gli studi di Károly Csúri e Csilla Mihály, nella personale lettura ermeneutica, rivelano quanto il taglio di scuola possa rendere diverso e nuovo l’approccio a testi e autori. Kafka e Trakl, voci del canone recepite e discusse innumerevoli volte in Italia, sono letti e commentati dai due studiosi di Szeged con un taglio che ha reso necessario un adattamento delle versioni e, per Kafka, addirittura ha richiesto una nuova traduzione che desse conto, in italiano, della particolarissima lettura ungherese del racconto.

Quanto sia necessario coordinare la voce del testo con quella del traduttore è indagato e ribadito da Francesca Boarini nel suo intervento sulla traduzione della prosa saggistica di Hermann Bahr: non di rado solo con attitudine «plastica e organica» è possibile rendere giustizia a un testo «di contenuto» fortemente connotato in senso autoriale.

Sandzar Janysev, proposto e tradotto da Federica Boscariol, poeta uzbeco che scrive in russo, con assoluta padronanza della tradizione poetica sia della propria regione d’origine che del paese di formazione, è un altro mirabile esempio della vivacità produttiva che si genera dalla contaminazione. Sempre per l’area slava, grazie allo studio di Giacomo Foni, apprendiamo come una suggestione poetico-musicale metastasiana, nel processo di appropriazione che passa dalla traduzione, si trasformi in Vladimir Solov’ëv, assumendo connotazioni marcatamente filosofiche, e venga assimilata e rielaborata in modo originale: ciò che sembrava inizialmente estraneo si rivela espressione privilegiata di ciò che è proprio e familiare.

I due testi teatrali di Almir Imširević e del Collettivo di Ipermnesia, infine, proposti da Elisa Copetti, nella plurivocità che li connotano, offrono uno spaccato inquietante e incalzante di un passato vicinissimo, che pure vorremmo remoto, e dove l’intreccio di popoli e nazioni sembra non essere ancora riuscito a trovare una modalità per far coesistere parole di lingue diverse e culture di diverse nazioni.

Paola Maria Filippi

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