Walter Benjamin, Breve storia della fotografia

Valentina Savietto

Walter Benjamin, Breve storia della fotografia, trad. e a cura di Sabrina Mori Carmignani, Bagno a Ripoli (Firenze), Passigli Editori, 2014, 96 p.

Benjamin FotografiaDalla seconda di copertina (estratto): «Può forse apparire singolare che uno studioso del calibro di Walter Benjamin si avventurasse nel 1931 a stilare la storia di una tecnica, quale quella fotografica, che non aveva allora che un centinaio d’anni o poco più, avendo Niépce e Daguerre fondato solo nel 1829 la prima società per lo sviluppo delle tecniche fotografiche. E ancora più singolare che il filosofo tedesco già parlasse in queste sue pagine di periodo d’oro e di declino dell’arte fotografica. Questa singolarità cessa tuttavia di essere tale non appena si cominci a riflettere su quanto sempre vi è di originale nella ricerca di Benjamin, costantemente tesa a individuare le origini, e insieme le potenzialità grandi o piccole, positive o negative, di ogni fenomeno studiato. Da questo punto di vista il lettore non mancherà certo di avvertire in queste pagine pioneristiche una forte vicinanza, e una prima messa a fuoco, a quell’indagine a tutto campo che costituisce uno dei capolavori del filosofo tedesco: L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che vedrà la luce solo cinque anni più tardi.»

Nella collana Le Occasioni di Passigli Editori troviamo quest’anno la traduzione di tre saggi benjaminiani, altrimenti non molto noti, dedicati al tema della fotografia. Si tratta della Breve storia della fotografia, della recensione Novità dal mondo dei fiori, infine del saggio Lettera da Parigi, che mira ad un confronto sintetico fra fotografia e arti figurative.
Il primo testo, che venne pubblicato in tre sezioni nel corso del 1931, nella nota rivista Die literarische Welt, prefigura caratteri e costellazioni motiviche che si ritroveranno, come sottolinea la curatrice Sabrina Mori Carmignani, nella produzione più tarda di Benjamin, in particolare ne Lopera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936). Significativi sono in tal senso molteplici concetti che verranno approfonditi successivamente, come ad esempio la categoria di “aura”; la questione della rappresentazione; il decadimento della fotografia a produzione industriale; la sua mercificazione all’interno delle dinamiche della media borghesia.

Una sorta di “epoca adamitica” della fotografia è riconosciuta dal filosofo nella dagherrotipia, tecnica non seriale inventata nel 1837. Benjamin definisce le fotografie di Daguerre come «lastre argentate trattate con iodio sottoposte a sviluppo in camera oscura […]. Erano pezzi unici […]. Non di rado venivano custodite in appositi astucci, come si fa con i gioielli.» (p. 25). La particolarità dei ritratti ottenuti mediante dagherrotipia si basava essenzialmente sui tempi lunghi di esposizione, il cui risultato era una tale sobrietà dei volti, una sorta di auraticità della persona ritratta, che «tutto in quelle antiche immagini era concepito per durare» (p. 32). I primi ritratti di Louis Daguerre, David Octavius Hill e Carl Dauthendey possedevano, grazie alla massima esattezza tecnica, un valore magico, scopribile solo mediante la fotografia, che viene definito da Benjamin “inconscio ottico”. Questo è caratterizzato da «aspetti fisiognomici […], mondi di immagini che abitano lo spazio del minuscolo, avvertibili, ma nascosti quanto basta da riuscire a infilarsi nei sogni a occhi aperti, e che ora, riportati su scala più grande e divenuti enunciabili, fanno apparire lo scarto tra tecnica e magia una variabile storica.» (pp. 28-29). Benjamin pensa qui non solo al ritratto, bensì anche alla fotografia naturale di Karl Blossfeldt, le cui tavole (Urformen der Kunst. Photographische Pflanzenbilder, 1928), saranno oggetto della recensione Novità dal mondo dei fiori. Con l’intento di una ricostruzione quasi “archeologica” della fotografia, Benjamin traccia poi il graduale subentro del ritratto fotografico rispetto al ritratto miniato, nonché la diffusione dei primi album fotografici e la conseguente «immediata decadenza del gusto» (p. 34). L’“aura” delle prime fotografie, indissolubilmente legata alla profonda sintonia fra oggetto rappresentato e tecnica, viene infatti perdendo quel «singolare intreccio di spazio e di tempo: unica apparizione di una lontananza» (p. 41), che solo la fotografia pioneristica di un Eugène Atget e i suoi scatti di Parigi furono parzialmente in grado di ritrovare. In ambito ritrattistico invece, svolse un’illuminante funzione il lavoro di August Sander, il quale si dedicò nuovamente al volto umano, ma con una tenacia pressoché scientifica e d’inaspettata attualità: Benjamin pone infatti in evidenza come le serie di volti scattate da Sander si carichino di valenza immediatamente politica: «I mutamenti di potere, come quelli ormai ricorrenti da noi, fanno della conoscenza e dell’approfondimento della percezione fisiognomica una necessità vitale. Che si arrivi da un posto o dall’altro, bisognerà comunque abituarsi all’idea di essere guardati in faccia da chi vuole capire da dove veniamo. […] L’opera di Sander è ben più di una raccolta di immagini: è un atlante su cui esercitarsi.» (p. 46). Un ulteriore punto d’interesse è costituito dalla riproduzione fotografica di opere d’arte, che modifica essenzialmente il rapporto fra la “fotografia in quanto arte” e l’“arte in quanto fotografia”. La ricezione della fotografia fra i pittori e gli intellettuali che ne hanno esperito la piena fioritura è tratteggiata dal filosofo attraverso incisive citazioni, scelte all’interno di un repertorio che spazia da Baudelaire a Tristan Tzara, a László Moholy-Nagy, ai surrealisti e al cinema russo: se il primo rimprovera alla fotografia una certa hybris nei confronti dell’arte e l’ammonisce di «tornare al suo compito vero e proprio, che consiste nel servire le scienze e le arti» (p. 53), gli altri si accostano al medium fotografico, definito da Antoine Wiertz “gigante bambino”, con entusiastico compiacimento e ne riconoscono il genio – «l’analfabeta del futuro non sarà chi non sa scrivere, ma chi ignora la fotografia» (p. 54) riporta Benjamin sulla scia di Moholy-Nagy.

A circa novant’anni di distanza dall’invenzione della dagherrotipia, Benjamin si confronta con l’“ottava arte” ricostruendo i momenti salienti del suo sviluppo e del suo scadimento a merce industriale. Il nocciolo duro che interessa tanto il lettore contemporaneo quanto lo studioso di formazione benjamiana consiste proprio in quell’esplorazione dei poli concettuali che si annidano nella Breve storia e che preludono alla grande critica a L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, di poco posteriore, trasformando questa sommaria trattazione in un testo chiave all’interno della filologia benjaminiana. Non a caso, la curatrice fa rientrare in questa costellazione gli altri due testi che compongono il volume. In Novità dal mondo dei fiori Benjamin si relaziona alla gigantografia del mondo vegetale nella posizione di critico e recensore, poiché «recensire è un’arte sociale» (p. 57). A riconferma di quanto già nella Breve storia mutuava da Moholy-Nagy circa l’“analfabetismo del futuro” e l’imprevedibilità dei confini della fotografia, il filosofo sottolinea l’affinità fra il microcosmo delle gemme e le forme stilistiche proprie dell’arte, essendo il primo costituito da «forme, dunque, che non furono mai un puro e semplice modello per l’arte, rivelandosi invece, fin dall’inizio, all’opera in tutto il creato» (p. 60); questo singolare fenomeno si fa ricondurre al principio della “variazione” e si ricollega in tal senso alle osservazioni di «fraterni spiriti giganti dagli occhi solari» (p. 61), quali furono Herder e Goethe.

Per concludere, la panoramica benjaminiana accoglie in Lettera da Parigi, che sintetizza i risultati dei due convegni tenutisi a Venezia e a Parigi nel 1934, l’ampio dibattito fra pittura e fotografia. Il filosofo mette qui in luce la «rappresentazione priva di compromessi della crisi della pittura» (p. 71), che muove dalla questione sollevata da André Lhote circa l’“utilità” del quadro, e, trasversalmente, dell’immagine fotografica. Nonostante lo scandaloso «tentativo di strutturare la riflessione sulla storia della pittura procedendo dalla storia della fotografia» (p. 73), è proprio un simile confronto che permette, seguendo gli studi di Gisèle Freund, d’instaurare non solo una diretta correlazione fra l’ascesa della fotografia e quella della borghesia, bensì di carpire quest’evoluzione indagando i presupposti per cui una forma d’arte acquista un simile statuto: a differenza del ritratto miniato infatti, il ritratto fotografico era più accessibile a più ampi strati della società, e proprio in seguito alla sua grande diffusione, che ha fatto della fotografia un’attività commerciale, essa ne ha determinato altresì la qualità artistica. Momenti singolari della lotta intestina delle due arti visive furono poi la tecnica fotografica di André Disdéri, che sfruttò il potenziale commerciale della fotografia riproducendo con mezzi fotografici opere site al Musée du Louvre, come anche le conquiste della pittura surrealista, la quale riuscì ad affrontare l’arte avversaria mediante un’integrazione dei due media, come spiega Louis Aragon ne La sfida alla pittura (1930). Tuttavia, sottolinea Benjamin, la vera rivincita della pittura consiste nel suo intrinseco impulso critico, nella forza di contrasto e opposizione che si sprigiona dal «modo di dipingere degli artisti» (p. 87) e che più colpisce la logica cieca dei fascismi. La pittura ritrova dunque la sua funzione non tanto in opposizione alla fotografia, quanto piuttosto nella responsabilità politica di cui essa si fa carico e nel riconoscimento della «forte ispirazione sociale» (p. 85) che può unire le due arti.

This entry was posted in Immagini, In vetrina, Recensioni, Traduzioni and tagged , . Bookmark the permalink.

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *