Il narrare dialettico di Uwe Johnson: una lettura di Jahrestage

Sabine Schild-Vitale

Dalle prime bozze, databili all’anno 1967, fino alla pubblicazione del quarto volume di Jahrestage nel 1983 sono intercorsi sedici anni. I capitoli del romanzo di Uwe Johnson (1934-1984) consistono in annotazioni quotidiane, che coprono un intervallo cronologico esteso dal 20 agosto 1967 fino al 20 agosto 1968 – giorno dell’invasione sovietica nella Praga di Dubček. In essi si narra dalla vita di Gesine Cresspahl e di sua figlia Marie, che vivono a New York. Gesine e il “Genosse Schriftsteller”, il “compagno narratore”, raccontano entrambi, in una specie di sodalizio, il presente, ossia la vita nella metropoli americana, mentre, al contempo, Gesine narra alla figlia la storia della propria famiglia nel Meclenburgo durante il dodicennio nero e l’immediato dopoguerra, squarci di giovinezza nella Germania orientale.

Prendiamo le mosse dalle parole con cui Italo Calvino chiude il suo saggio «La sfida del labirinto» del 1962: “La Germania divisa in due immagini speculari ed estreme del nostro tempo, è presa da Uwe Johnson come tema del suo realismo a rifrazioni multiple, attraverso un freddo caleidoscopio di frantumazioni linguistico-ideologico-morali.”[1] Calvino attribuisce qui alla poetica di Johnson il valore di una risposta al processo che cerca di stabilire un nuovo equilibrio tra l’uomo e il mondo delle cose – dopo che la rivoluzione industriale ha causato un trauma dal quale “la filosofia, letteratura [e] l’arte […] non si sono ancora riavute”. Nel solco di quanto qui viene affermato, io leggerei nella poetica johnsoniana non solo un esempio paradigmatico per il processo delineato da Calvino, ma quasi un’inevitabile conseguenza, l’espressione di uno spostamento che, dal paradigma della profondità, giunge ad uno che vede i fenomeni – anche, e soprattutto, quelli culturali – su un piano schiettamente monodimensionale, ovvero di superficie.

La domanda che pertanto definisce il motivo d’interesse di queste riflessioni si rivolge al modo in cui i discorsi storici nonché estetici diventano, in Jahrestage, strutture estetiche. La risposta a questo interrogativo impone non solo di definire la funzione degli elementi della realtà extra-testuale all’interno del romanzo, ma significa, inoltre, sondare in che misura Johnson restituisca esteticamente ed eticamente le dimensioni sociali e mentali del lungo periodo in cui è sorto il romanzo.

Nello specifico si chiede fino a che punto si possa parlare nel caso di Johnson di una narrare dialettico e a quale funzione, in seno a tale processo, si possa ricondurre la figura della figlia Marie, intesa come istanza mediatrice tra il testo e il lettore. In ultima istanza, verifichiamo così se sia sostenibile l’ipotesi, secondo la quale il testo johnsoniano, attraverso il rispecchiarsi di immaginario e reale, si estenda come ‘testo aperto’ sia „entro il diffuso dell’immaginario“ sia anche „al di là del mondo del testo“[2].

I giudizi critici circa Jahrestage, pronunciati nel lungo arco temporale durante il quale i quattro volumi hanno visto la luce (1970-1983), hanno oscillato – come d’altronde ancor oggi accade – tra giudizi di leggibilità e illeggibilità del romanzo. Sia come sia, la lettura sfida il lettore evocando l’immagine di un fitto intreccio di rapporti in cui eventi e persone sono posti in relazione. Nonostante Johnson in tutti i suoi romanzi abbia intessuto richiami diretti o mediati ai macro-eventi storici del Novecento, il narrare per l’autore non coincideva affatto con un “ricostruire la verità in un formato in miniatura”. Al contrario il romanzo, a detta di Johnson, doveva creare quelle condizioni necessarie per “riassumere una realtà in tutte le sue relazioni e renderla [così] nuovamente possibile”[3].

In risposta alla domanda se egli abbia voluto indirizzare i suoi lettori, Johnson stesso rispose di non voler presentare al lettore un’opera didattica, un „Lehrstück“[4], ma “lasciare alle persone che leggono i [suoi] romanzi quanto di morale, di protesta e di collaborazione ci vogliano includere”[5]. Davanti ad una siffatta poetica, in che posizione si trova dunque il lettore? Possiamo fidarci delle ripetute affermazioni dell’autore di voler sì “interessare il lettore, ma di credere altrettanto di dover rispettare il lettore al punto da non […] tirarlo dentro il testo convincendolo, illudendolo”[6]. O è forse lecito chiedersi fino a che punto non si possa affermare che Johnson abbia indirizzato, anche se molto argutamente, i suoi lettori?

Se accogliamo il concetto di con-figurazione[7] e se, quindi, definiamo l’atto di lettura come un oscillare del lettore tra le strutture generate nel mondo testuale e quelle della realtà extra-testuale, allora siamo in grado di districare la logica che sta alla base della poetica johnsoniana: la dicotomia fra testo e lettore viene aperta dalla mediazione delle figure attraverso un modello dialogico che si rifà sostanzialmente ad una concezione socratica del domandare. “Il modo di procedere della dialettica [è] il domandare e il rispondere: il passaggio di tutto il sapere attraverso le domande”, così teorizza Gadamer in Wahrheit und Methode[8].

In Jahrestage sono le domande della figlia Marie che pongono la tematica di uno o più capitoli in uno spazio di apertura. L’essenza del porre in questo spazio, in questa “apertura”, consiste nell’essenza stessa della risposta, che è quella di rimanere aperta. Non vi è cioè una risposta certa, definitiva e perciò chiusa. Si tratta sempre e solo di risposte possibili, ed è proprio questa condizione di sospensione che permette di rendere visibile “la cosa con le sue possibilità […] contro la rigidezza dell’opinione”[9].

Di seguito illustrerò brevemente in che maniera Johnson, tramite il dialogo, sia riuscito a creare tale stato di sospensione, allo scopo di verificare se – come Johnson sostenne – non venga fornita una quintessenza, ossia se la tensione tra il presunto reale e l’immaginario non venga a sciogliersi in una sintesi.

La struttura dialogica di Jahrestage si viene a costituire progressivamente. Soprattutto alla prima parte del romanzo deve essere riconosciuto un carattere espositivo: alcuni passi palesano la loro natura meta-narrativa, la quale fa sì che le maglie del tessuto narrativo si allarghino al punto da esporre al lettore esplicitamente la funzione che compete alle singole figure. Un ruolo determinante nella costruzione della struttura dialogica spetta a Marie, le cui domande non solo contribuiscono a controbilanciare la repentina interruzione dell’arco narrativo tipica per Johnson, ma Marie esplicita il modo in cui la madre Gesine organizza le figure e la trama della sua narrazione, ossia le combina in modo da permettere che l’architettura generale del romanzo, come anche il rapporto tra le figure, possa essere “continuamente ribaltato in un equilibrio altro”[10].

A più riprese il narrare viene apertamente tematizzato come atto di finzione, oscillante nei termini di una “mediazione tra il reale e l’immaginario, tra una pretesa mimetica e una irrealizzante”[11]. Da un siffatto carattere meta-narrativo risulta una apertura del testo che equivale ad una tendenza al possibile:

 Marie insiste che io debba continuare a narrare come possa esser stato quando il nonno prese la nonna. Le sue domande rendono la mia immaginazione più precisa. […] Ciò che lei vuole sapere non è il passato, nemmeno il suo. Per lei è una presentazione di possibilità. (JT, 143-144)

La tematica del possibile come principio fondante del narrare conosce nel secondo volume di Jahrestage un’ulteriore espansione, ad esempio quando Marie “[vorrebbe] sapere come [Gesine] riesce” (JT 671), ad affiancare al possibile anche delle lacune, che ella deve “colmare con dell’altro” (JT 670).

– [Marie:] Vorrei sapere come ti riesce.
– [Gesine:] Nonostante il fatto che la storia di Jansen sia solo possibile?
– [Marie:] È la possibilità a cui nessuno può arrivare tranne te. Ciò che immagini del tuo passato, è pure reale.

Così come – a livello testuale – i fatti, sia storici sia privati, sono presentati come soggettivamente interpretabili, così – a livello meta-narrativo – viene messa in risalto la differenza categoriale tra ‘fattuale’ e ‘reale’. I meri fatti, senza il medio della finzione, si presenterebbero come un fenomeno di superficie, che di per sé rappresentano, anzitutto, un materiale incapace di esprimere le dinamiche storico-sociali. L’attenzione di Johnson era fin dall’inizio incentrata sulla dialettica tra forma e contenuto, quindi sulla modalità della trasposizione letteraria, come testimonia la seguente affermazione:

[L’autore] può considerare generale, ciò che è singolare. Egli può chiamare tipico dove vi è solo una densità statistica. Egli corre costantemente il rischio di rendere reale, ciò che è solo fattuale.[12]

Torniamo allora alla domanda che ci siamo posti poc’anzi, ovvero in che posizione si trovi il lettore. Abbiamo visto che le relazioni che il lettore crea tra la realtà plasmata dalla narrazione e il mondo non esistono a priori, ma vengono solo create nell’atto della ricezione, sia essa – come nel caso di Marie – puramente fittizia oppure – come per il lettore – una ricezione reale. Se nel primo caso, la ricezione interna al testo equivale all’estensione come ‘testo aperto’ entro il diffuso dell’immaginario, nel secondo caso, invece, l’apertura al di là del mondo del testo non si dà solo attraverso l’atto di lettura generato sempre nuovamente, ma anche dal fatto che il lettore non riesce a stabilire un rapporto di identità tra gli eventi storici citati nel testo e il proprio ricordo di essi. In entrambe le direzioni i discorsi si caratterizzano per la loro indeterminatezza, consentendo così alla dimensione del possibile di inserirsi appieno nella logica sia testuale sia reale.

Torniamo quindi alle considerazioni di Calvino. Egli parlava, a proposito della poetica johnsoniana, di un “labirinto gnoseologico-culturale [dalla] doppia possibilità”. Si riferiva con ciò, da un lato, al “fascino del labirinto in quanto tale […], del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo” e, dall’altro, gli parve “l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale”[13]. Egli descrive l’interazione tra la letteratura come sistema di simboli e la letteratura come sistema sociale. Quest’ultima per Calvino si presenta nella Germania specchio del presente e, a livello simbolico, egli definisce il realismo di Johnson come risultato di “frantumazioni linguistico-ideologico-morali”. Calvino mette così in evidenza il potenziale di tale letteratura nel richiamare implicitamente l’attenzione sul rapporto tra testo e realtà extra-testuale e nell’ascrivere al testo letterario la capacità di afferrare la complessità del reale.

A differenza di Calvino, anziché parlare di ‘labirinto’, tenderei piuttosto a descrivere il modo johnsoniano di organizzare il discorso poetico come una superficie sulla quale i singoli discorsi, ricordi, esperienze sono avvicinati, in parte sovrapposti o disposti gli uni accanto agli altri. Se supponiamo che una tale rappresentazione sia lecita, allora si spiega perché la poetica di Uwe Johnson si lascia ricondurre solo parzialmente e in maniera problematica ad una specifica corrente letteraria.

Basterebbe un raffronto tra la ricezione tedesca e quella italiana[14] per far emergere le aporie dei due campi letterari in questione ma, soprattutto, per mettere in luce la molteplicità dei tentativi della critica di ricondurre la poetica johnsoniana, di volta in volta, a questa o a quella corrente. Molti di questi tentativi, i cui esiti sono spesso assai distanti, trovano solidi appigli nel testo: ciò dà un’idea della ricchezza poetico-discorsiva che si sottrarre ad una categorizzazione storico-stilistica. Una lettura che cercasse di costringere il testo entro le strette maglie di una tale categorizzazione verrebbe sì comprovata dal testo, ma falsificandolo, piegandolo ad una logica ad esso distante.

Jahrestage è costruito per restituire un’immagine della realtà come rapporto, per offrire ‘risposte aperte’ e non per condurre ad una sintesi ultima. Una siffatta lettura non corrisponderebbe che alla nostra esigenza di ricondurre ad una univocità sia la narrazione, sia il reale, anziché tenere viva la tensione dialettica offertaci dal testo.

A questo punto mi si potrebbe obbiettare che l’apertura e la non univocità sia una caratteristica che contraddistingue qualsiasi grande romanzo del Novecento, ma in verità il caso Johnson è più complesso: si potrebbe supporre che il suo trasloco, come insistette di chiamarlo, da Berlino Est a Berlino Ovest nel 1959, coincidesse con un distacco categorico dagli interrogativi estetici del campo letterario della Ddr e con un confronto esclusivo con i temi in voga nella Brd e nell’Occidente in generale. Ma le cose non stanno così, anzi l’autore non si muove solamente tra le logiche dei due campi letterari tedeschi, ma egli si muove – se inserito in un arco temporale più ampio – in una dialettica tra pre- e postmodernismo. Ma queste riflessioni aprirebbero un altro capitolo su cui mi riservo di tornare in futuro.

Sabine Schild-Vitale

[1] Calvino, Italo, „La sfida del labirinto“, in: Saggi. 1945-1985, Marino Barenghi (a cura di), tomo I, p.122.

[2]Iser, Wolfgang, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literarischer Anthropologie, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1991, S. 43.

[3]Schmid, Christof, Gespräch mit Uwe Johnson, in: »Ich überlege mir die Geschichte…« Uwe Johnson im Gespräch, (Hg. Eberhard Fahlke), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988, S. 256.

[4]Schmid, Christof, Gespräch mit Uwe Johnson, in: »Ich überlege mir die Geschichte…« Uwe Johnson im Gespräch, (Hg. Eberhard Fahlke), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988, S. 253-256, hier S. 256.

[5]Neusüss, Arnhelm, »Über die Schwierigkeiten beim Schreiben der Wahrheit«, in: »Ich überlege mir die Geschichte…« Uwe Johnson im Gespräch, (Hg. Eberhard Fahlke), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988, S. 188.

[6]Bienek, Horst, Werkstattgespräch mit Uwe Johnson, in: »Ich überlege mir die Geschichte…« Uwe Johnson im Gespräch, (Hg. Eberhard Fahlke), Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1988, S. S. 203-204.

[7]Ricœur, Paul, Temps et récit. Paris, Edition du Seuil, 1983.

[8]Gadamer, Hans-Georg, Der hermeneutische Vorgang der Frage, in: (Ders.) Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen: J.C.B. Mohr, 1990, Bd. 1, S. 369.

[9]Gadamer, Hans-Georg, Der hermeneutische Vorgang der Frage, in: (Ders.) Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Tübingen: J.C.B. Mohr, 1990, Bd. 1, S. 273; 380.

[10]Iser, Wolfgang, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literarischer Anthropologie, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1991, S. 28-29.

[11]Iser, Wolfgang, Das Fiktive und das Imaginäre. Perspektiven literarischer Anthropologie, Frankfurt am Main: Suhrkamp, 1991, S. 26-27.

[12]Johnson, Uwe, Berliner Sachen. Aufsätze, Frankfurt/Main: Suhrkamp Verlag, 1975.S. 14; trad. it. mia.

[13]Calvino, Italo, „La sfida del labirinto“, in: Saggi. 1945-1985, Marino Barenghi (a cura di), tomo I, p.122.

[14]Cfr. Sisto, Michele, Letteratura tedesca nel campo letterario italiano (1945-1989), Torino, 2006; LORENZ/PIRRO (Hgg.), “Einleitung”, in: Wendejahr 1959? Die literarische Inszenierung von Kontinuitäten und Brüchen in gesellschaftlichen und kulturellen Kontexten der 1950er Jahre, Bielefeld: Aisthesis Verlag, 2011, S. 9-20

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