Maria Luisa Wandruszka, Ingeborg Bachmanns “ganze Gerechtigkeit”

[Dall’ultimo numero dell’Osservatorio critico della germanistica. M.S.]

 Camilla Miglio

Ingeborg Bachmanns “ganze Gerechtigkeit” (Wien, 2011) di Maria Luisa Wandruszka è un libro importante e nuovo sotto diversi aspetti, per la nuova luce che gettano soprattutto sull’ultima produzione bachmanniana che, come scrive l’autrice proprio nelle conclusioni, fa rimpiangere una volta di più la fine precoce di una scrittrice che stava probabilmente imboccando una strada estetica veramente nuova.

Questo libro si potrebbe anche rinominare Estetica del paria. Altre donne, donne altre.

Wandruszka – in un serrato dialogo non solo con i testi di Bachmann ma anche con quelli di molte autrici del pensiero e della scrittura femminile del Novecento (Hannah Arendt, Marguerite Duras, Virginia Woolf, Simone Weil) – cerca di determinare un perimetro estetico che Bachmann traccia proprio misurandosi con questi modelli, indicando un percorso di etica e dello scrivere che la porterà a rivisitare un autore come Hofmannsthal, lo Hofmannsthal capace di ritrarre le voci e gli aspetti più autentici della società viennese, con una forma di ironico “affetto”.

Wandruszka rileva innanzitutto un elemento scaturito dalla ricezione bachmanniana di Hannah Arendt, in particolare del saggio sul “paria” come figura chiave della condizione ebraica, ma anche femminile. Rahel Varnhagen dalla sua ambizione di parvenu giunge alla consapevolezza di essere e restare comunque un “paria”, ma proprio da questa cognizione trae forza di scrittura e acutezza di sguardo critico sulla realtà. La condizione di paria è acquisita, già nel caso di Rahel, nella posizione di subalternità nei confronti degli uomini, in particolare degli uomini amati.

Parimenti determinante è in Bachmann la condizione delle donne non emancipate, eppure forti di una consapevolezza propria, da una logica-altra che le protegge. Le sue “Wienerinnen” si muovono, leggere nonostante tutto, negli “Schauplätze” duri e violenti dei romanzi e dei racconti bachmanniani. Wandruszka riconosce in esse una paradossale possibilità di affrancamento dalla violenza maschile e dai modelli di cui esse sono anche vittime. Rovescia così ogni cliché di pensiero, sia maschile sia femminile.

La conquista di questa consapevolezza è un fatto di lunga durata, e Wandruska ne segue le tappe. Usando una categoria mutuata dai post-colonial studies, sotto il titolo Mimikry Wandruszka identifica il valore e/o il senso di una “Männermaske”, per il modo di esprimersi delle donne.

Osserva Wandruszka a proposito del primo grande successo narrativo di Bachmann, Das dreißigste Jahr: «Die Helden der darin enthaltenen Erzählungen sind überwiegend Männer, so als ob die Autorin, wenn sie über die “Sprache” (Alles), die Kränkungen im gesellschaftlichen Leben (Das dreißigste Jahr), die “Wahrheit” (Ein Wildermuth), den politisch kommunikativen Engpass Wien, zehn Jahre nach dem Krieg (Unter Mördern und Irren) reflektiert, dies nur unter Männermaske könnte».

Una nuova, eccentrica rilevanza assumono le figure di donne non intellettuali, via via che Bachmann approfondisce la sua vocazione di scrittrice, soprattutto in prosa. La loro situazione è paradossale: sono vittime della propria subalternità familiare, ma ricompongono comportamenti e fantasie nel segno del rimprovero, dell’odio, della fantasia di uccisione del marito, e nello stesso tempo il dolore per la perdita dei mariti, nel momento della loro morte (violenta o non violenta che fosse). Osserva giustamente Wandruszka come questa situazione fosse tipica degli anni Cinquanta. Di donne rimaste sole durante la guerra, che si ritrovano, ricacciate nei loro antichi ruoli al ritorno dei mariti dal fronte – e quale fronte.

Puntuale è la rilevazione compiuta da Wandruszka sul linguaggio di queste donne, cercando di distinguere una identità linguistica al di là della «männliche Tarnkappe». Già in questa fase c’è la presenza di donne che, come osserva Charlotte, con le loro “Plaudereien”, con la loro attitudine alla chiacchiera quasi in forma di ghirigoro viennese,  sarebbero arrivate ad acquisire, nel sistema dei personaggi bachmanniani,  a nuova dignità, ma solo nell’opera tarda.

Bachmann intuisce dunque già nelle prose giovanili, come nel Trentesimo anno, alcuni personaggi femminili che nell’opera tarda prenderanno forma più consapevole, dopo il suo “Tremendum” – la crisi personale ed estetica che l’ avrebbe portata alla quasi totale rinuncia alla poesia  per metter mano alla sua “grande incompiuta”, il Todesartenprojekt.

Wandruszka identifica, nella poesia Böhmen liegt am Meer, il zugrunde gehen come voluta morte sociale. Ne è segno e figura poetica l’identificazione con i Boemi. Questa denominazione etnica, insieme alla determinazione geografica della Boemia, pur persistendo nel lessico storico, è del tutto “zugrunde gegangen” negli ordinamenti politici contemporanei, e gode di una leggendaria identità letteraria grazie alle allusioni shakespeariane che rimandano al Winter tale.

Identificarsi col vagante, con la gente del porto e della navigazione, con le donne da marciapiede e con gli uomini di strada assume in sé la vis sovversiva di chi sceglie consapevolmente la marginalità, la vita e le istanze del paria. In questo modo l’esperienza più personale, il dolore psichico, diventa strumento per smascherare la legge scandalosa che regola quella che Robert Altman, scrive acutamente Wandruszka, ha chiamato «l’Arena» – il circo mediatico, sociale, editoriale cui ciascuno viene esposto, ogni volta che “si espone”.

Wandruszka osserva come solo dopo la sua «schlechteste Zeit» – il tempo della crisi con Max Frisch 1962-64, Bachmann riesca a rendere «tutta la giustizia dovuta» alle sue figure femminili.

L’osservazione, e anche l’irritazione di Wandruszka, è puntata sulla posizione di Bachmann «prima del suo Tremendum», che resta affascinata, come molti, dall’estetica della sofferenza, per cui, come icasticamente stabilito da Kafka, la buona letteratura è sempre quella che ci procura dolore e ci rende infelici.

Inversamente proporzionale alla sua reale infelicità relazionale e psichica, la penna di scrittrice di Ingeborg Bachmann insegue, con intermittenze e contraddizioni, una situazione di “felicità”. In questo senso è paradigmatica la ricezione del Buon Dio di Manhattan. Viene paragonato da molti a Hiroshima mon amour di Alain Resnais/Marguerite Duras, entrambe impegnate in una radicale rappresentazione dell’amore femminile che finisce tragicamente nel destino di distruzione dell’amore, nella morte tragica dell’amante tedesco.

Wandruszka osserva con grande intelligenza critica, con una incursione niente affatto biografistica nella biografia di Ingeborg Bachmann, le reazioni degli uomini di riferimento per la scrittrice (riferimento amoroso non meno che estetico).

Paul Celan le telegrafa: «das hoerspiel ist so schoen und wahr und schoen du weisst es ja das helle und hellste Ingeborg ich den an dich immer». Max Frisch trae da quell’occasione lo spunto per contattarla, con le note conseguenze (nefaste per la scrittrice austriaca). L’unico a rispondere con qualche perplessità, nonostante tutta l’ammirazione, è Hans Werner Henze – forse l’unico uomo che con tutti i limiti della loro relazione, l’ abbia voluta «vedere e capire» nella sua complessità di donna-artista con un diritto alla giusta felicità.

Le scrive infatti: «ausserdem hat mich der Gute Gott der eichhoernchen sehr beeindruckt, zum sterben schön. Du bist großartig, und ich will, daß du auch glücklich und wunderbar und strahlend und tüchtig und ein engel bist – » [corsivi miei, C.M.]

La bellezza estetica viene avvertita dall’amico Hans Werner Henze come minaccia alla felicità della donna Ingeborg Bachmann. Gli amanti Paul Celan e Max Frisch sono attratti proprio dalla «unbedingte, notwendig tragische weibliche Liebe». Con l’aggravante – per Frisch –, come scrive Wandruszka, che egli vede nella protagonista del radiodramma una autorappresentazione della scrittrice, cosa che per Celan, almeno, non entrava in questione.

Ma – osserva ancora Wandruszka – un punto distingue le due protagoniste rispettivamente di Hiroshima mon amour e Il buon dio di Manhattan: la protagonista del film è attanagliata dalla «Unmöglichkeit, nicht zu vergessen, Hiroshima und die Liebe», mentre nel radiodramma Bachmanniano il «Vergessen» è una delle possibilità del superamento del dolore, ancorché momentanea, e comunque riservata solo agli uomini. Il radiodramma di Bachmann è allegorico, mentre il film/script di Duras Resnais è legato a una ricerca di concretezza nel reale.

La scrittura allegorizzante, per esempio quella di Undine, che decide di “andare via” – permette alla stessa Bachmann di reinterpretare non solo il ruolo della scrittura, ma il suo stesso ruolo nell’ «arena». Quell’arena mediatica, editoriale, della nascente industria culturale europea che l’aveva trasformata in icona – un fenomeno che nel volgere di quegli anni coinvolgeva altre artiste sovresposte – pensiamo a Maria Callas,  ma anche  mutatis mutandis, a Marilyn Monroe. Il motto di Celan, la poésie ne impose plus, elle s’expose, assume nel caso di Bachmann, e in generale delle donne artiste, una piega sinistra e mortale, non disgiunta dalla componente di “scherno” che la stessa ”arena” riserva loro non appena escano dal cerchio magico descritto dall’aura del loro “personaggio”, della loro “maschera” – per lo più costruita a immagine del desiderio maschile e dei media.

E così Marie Luise Wandruszka segue con attenzione il percorso che comincia con la splendida poetessa universalmente riconosciuta, letteralmente travestita da Ondina-sirena alla prima del balletto Undine, accanto a un forse preoccupato Henze. Non a caso la serata cade nel 1958, agli albori della sua relazione distruttiva con Max Frisch. Qui Bachmann interpreta fino in fondo la sovrapposizione tra aspettative dell’arena (che si sovrappongono con le aspettative dell’uomo – carnefice, in questo caso non certo Henze ma Frisch, anche se il nome invocato ed evocato nel racconto di Undine è … Hans).

Nelle figure di identificazione, vere e allegoriche a un tempo, di due “donne-altre”, Gaspara Stampa e della Tosca di Puccini (interpretata da Callas), Bachmann trova una strada per andare oltre alcuni cliché femminili. Lo fa soprattutto nelle poesie “private” ora pubblicate in Non conosco mondo migliore (traduzione italiana di Silvia Bortoli, per i tipi di Guanda, Parma 2004). Entrambe, osserva Wandruszka, sono costruite intorno alla figura dell’ “odio” nei confronti dell’uomo carnefice, rispettivamente l’uomo amato e ingrato che abbandona la poetessa veneziana – Collalto Collatino , e il terribile Scarpia, lascivo e crudele carnefice dell’amato pittore Mario Cavaradossi. La prima capace di “superare”, dimenticare il male, la seconda in grado di perdonare (ma solo “di fronte a Dio”, e dopo avere consumato la sua vendetta).

Il motto di Gaspara Stampa, «Vivere ardendo e non sentire il male», viene interpretato e tradotto a suo modo da Bachmann. Il male non è «Schmerz» (dolore) ma «das Böse» (il male come sostantivo assoluto). La questione del male e del perdono – osserva acutamente Wandruska, è – negli anni di Bachmann, al centro della riflessione di un’altra “sorella” in spirito, Hannah Arendt, che nella sua trattazione sulla banalità del male e la sua esplorazione delle soluzioni per superarlo, anche nella memoria e nella coscienza ferita delle vittime, individua un unico rimedio all’Odio: la punizione (Strafe): «se non siamo in grado di perdonare, non ci resta che punire».

Anche Bachmann, in molte poesie, porta in giudizio i suoi imputati. E va oltre la stessa Arendt: riesce a “ent-tabuisieren” l’odio e vendicarsi, da un lato, e a rappresentare la corresponsabilità “Mit-verantwortung” della “vittima” femminile.

La strada di una vivibilità del sé «tra pazzi e assassini» è – per esempio – in modo paragonabile a certe scelte di Virginia Woolf – rinunciare a un Io unitario, e disaggregarsi, in diverse funzioni psichiche. Anche in questo caso la lettura di Wandruszka è molto acuta, nel differenziare diverse modalità, modulazioni della disgregazione dell’io. Con una differenza importante: nella narrazione di Woolf in To the Lighthouse la Signora Ramsay è animata da un amore che la porta alla dispersione del sé ma non alla autodistruzione,  cosa che accade invece alla protagonista di Malina. L’amore, nella Bachmann di Malina, è legato indissolubilmente alla distruzione, secondo categorie di pensiero che Wandruszka individua come tipicamente maschili.

Ma la tarda Bachmann, ed è questo il punto d’arrivo sorprendente del libro di Marie Luise Wandruszka, conosce anche un altro modo di “zugrunde gehen” – che non è “andare a fondo” (come in Malina, come per Franza, e come per la protagonista parabiografica del viaggio in Sudan del Wüstenbuch).

Zugrundegehen, già  nella poesia di svolta Böhmen liegt am Meer, non è solo andare a fondo, ma andare fino in fondo. E dunque oltre i confini della Boemia geografica, molto lontana dal mare, e procedere fino in fondo, fino al mare.  O ancora, come Wandruszka osserva, richiamando Meister Eckhart, un «Auf-den-Grund-kommen», alla comprensione del fondo, del fondamento delle cose. È dunque “un segno di forza”: «quando si vede il mondo senza se stessi, lo si vede meglio» – sono parole di Bachmann a Erich Fried, proprio a proposito della sua poesia “boema”.

La via alternativa significa per Bachmann un recupero di modelli “di fondo” della sua stessa identità, in un recupero dell’eredità letteraria austriaca. Per esempio una ripresa di modulazioni hofmannsthaliane, nell’esplorazione del microcosmo della società viennese, dei suoi idioletti, e del linguaggio, della particolare libertà delle donne; soprattutto delle donne in conversazione, donne non emancipate, sottovalutate dagli intellettuali uomini, e dalle stesse scrittrici donne: «Frauen, die auch existieren, waehrend ich mich beschaftige mit den Kontroversen, den Ideen, den Maennern also, die sie haben, in diesen letzen Jahrzehnten».

Bachmann pare rendersi conto, nella ricostruzione di Marie Luise Wandruszka,  di quanto la sua scrittura si fosse alimentata esclusivamente dal confronto e dall’osservazione delle idee degli uomini. Questa maschera euristica, linguistica e intellettuale, che Bachmann indossa per tutti gli anni Cinquanta e poco oltre, fino al suo Tremendum, veniva compensata con una serie di espedienti performativi: i gesti, l’abbigliamento, gli atteggiamenti iperfemminilizzati, di fragilità e seduzione.

In questo libro Wandruska, dopo anni di attenta lettura e confronto con i testi della scrittrice austriaca, ci mette a parte come di una personale agnizione estetica e critica: riesce a trovare in questa aporia il suo senso di “irritazione” verso certi testi, che pare così finalmente spiegato e  dispiegato.

Le viennesi bachmanniane, invece, non si misurano con gli uomini e trovano in modo molto naturale una misura in se stesse. Per questo sono libere, con ironia, con una vena anzi comica, riconosciuta come carattere originario viennese,  con tanto di pedigree che arriva a Bachmann dalle scene primo novecentesche di Hofmannsthal-Strauss.

E così se Undine sparisce tra le acque, per la viennese si prospetta un tranquillo e pacificato sonno – che non confina con la morte né col suicidio. La dormiente Beatrix è anche una disperata, però la Bachmann non le fissa un destino tragico.

Ingeborg Bachmann, negli anni Cinquanta discesa agli inferi italiani, in molti sensi, cercando altrove una sua via verso le “frasi vere” – da esplorare nelle zone buie del paese del sole, sembra ritrovare nella scrittura in prosa degli ultimissimi tempi della sua vita la via di un ritorno in un luogo abitabile per le istanze femminili.

La ricostruzione di Marie Luise Wandruszka ha un doppio valore. Indica una resa dei conti con se stessa di una studiosa che riesce a fare il punto del proprio interesse e delle proprie idiosincrasie nei confronti dell’oggetto della propria ricerca di decenni, e con un approccio in cui essa stessa si mette in gioco come soggetto-lettore, anzi lettrice, riesce a costruire una argomentazione condivisa.

A quarant’anni dalla morte della scrittrice appena quarantasettenne ci fa sentire tutta la nostalgia per quei libri non ancora scritti che avrebbero contribuito alla fondazione di una scrittura femminile oltre la mimikry mascolina, rovesciando il mito della felicità, indicando una strada che passa per una consapevolezza della differenza, e rifonda l’idea del male, ma anche della felicità.

Camilla Miglio

Marie Luise Wandruszka, Ingeborg Bachmanns “ganze Gerechtigkeit”, Wien, Passagen Verlag, 2011, pp. 157

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