Martin Mittelmeier, Adorno in Neapel

Gabriele Guerra

“Tourist zu sein ist ein leidiges Geschäft”. Segnato da un motto che potrebbe scolpirsi a lettere dorate sull’architrave del tempio tedesco dedicato al turista (edificio che indubbiamente possiede una eleganza e una solidità rara in altre culture), questo libro, in realtà tesi di dottorato – sia pure sui generis – dell’attuale editor dell’Eichborn Verlag, si configura come un interessantissimo aperçu storico-filosofico sulla natura intimamente teoretica dello sguardo del turista alle prese con un panorama esotico. E cosa vi è di più esotico, ed allo stesso tempo di più filosofico, del paesaggio del golfo di Napoli per un intellettuale tedesco dei primi decenni del XX secolo? Beninteso, il “turista” di cui si parla in questo libro è tutt’altro che la figura cui siamo abituati ai giorni della società di massa. L’autore ricostruisce invece – sulla scorta più dei saggi e delle idee prodotte in quegli anni che su una effettiva ricerca biografica, che non è al centro delle intenzioni che muovono il libro – la costellazione di autori che diventa visibile proprio a Napoli e nei suoi dintorni nei primi anni ’20: non solo cioè l’Adorno del titolo, ma anche gli amici e colleghi Walter Benjamin e Siegfried Kracauer, Alfred Sohn-Rethel, Ernst Bloch – e poi ancora Gretel Karplus, più tardi signora Adorno, brillante intellettuale anche lei e grande amica di confessioni epistolari di Benjamin; la rivoluzionaria lettone Asja Lacis, oggetto dei desideri sentimentali e politici del filosofo berlinese; Gilbert Clavel, talentuoso artista che si rifugia in una torre a picco sul mare a Positano. Una costellazione, si diceva, dal momento che uno dei meriti maggiori di questo libro (una tesi di dottorato un po’ speciale, come detto, discussa nel corso di “uno stimolante ed eccitante pomeriggio”, come si esprime l’autore nei ringraziamenti finali, e scritta in gran parte ai tavolini del Café zum Kloster di Monaco di Baviera) è quello di tematizzare in maniera assai plastica le modalità in cui un concetto si offre alla rappresentazione. Letteralmente: per Mittelmeier si tratta cioè di vedere “come un paesaggio nostalgico si tramuti in filosofia”, come dice il sottotitolo del volume. La costellazione – l’insieme cioè di concetti tenuti insieme dialetticamente dalla vis imaginativa, se si può dir così, del pensatore-astrologo –  diventa essa stessa costellativa: allo stesso tempo un’istantanea di un momento cruciale di storia intellettuale europea (in particolare tedesca), un’allegoria di un paesaggio concettuale fascinoso e perturbante ad un tempo, un procedimento metodologico arrischiato ed elegante; ed è al contempo, infine, un modo molto elegante – e forse un po’ troppo à la page – per restituire al lettore odierno le prestazioni intellettuali di un gruppo di pensatori, filosofi e critici accomunati dall’idea che al pensiero, per pensare il reale, non sia più sufficiente l’ordinato squadernarsi dello Spirito o della Critica – ma occorrano armi nuove, ancora impensate e ancora non praticate; per le quali occorrano cioè nuove concezioni e nuove percezioni. Perché in effetti, per i vari Adorno, Benjamin, Kracauer, Sohn-Rethel, essere in quegli anni a Napoli e sulla costiera amalfitana non significa soltanto trovare un refugium al caos metropolitano tedesco – e, non da ultimo, un luogo economicamente sostenibile per un dignitoso Existenzminimum –, ma anche e soprattutto un laboratorio dove sperimentare nuove modalità di riflessione filosofica integrale, come emerge chiaramente da questo libro. Nel quale non si tratta, in altri termini, di offrire una ricostruzione biografica dell’esilio intellettuale, né una Darstellung sociologica dei Kaffehausliteraten (elemento tanto caratteristico peraltro del paesaggio di quegli anni), e neanche un tentativo di assimilare queste cerchie intellettuali a quel movimento vasto e complesso, proprio dei primi anni del secolo, noto come Lebensreform (anche perché, ovviamente, né Adorno né Benjamin sono mai stati interessati a una simile esperienza di rinnovamento “integrale” dell’uomo, come avvenne per esempio a Monte Verità). La domanda che muove il libro, e che ne sostanzia il fascino per il lettore, è invece squisitamente teoretica: cosa vuol dire far filosofia partendo da un paesaggio? E cosa, più concretamente, ha significato il paesaggio napoletano e mediterraneo sulle filosofie di Adorno, di Benjamin e degli altri?

Le immagini di quel paesaggio – che attraversano anche questo volume con la riproduzione di belle cartoline d’epoca – innervano cioè il percorso filosofico di Adorno, anzi: ne costituiscono in qualche modo il presupposto irrinunciabile: “Die Erfahrung Neapels gelangt als stoffliche Anreicherung in die Texte Adornos” (p. 18), esattamente nel senso in cui per Benjamin gli Städtebilder diventano Denkbilder. In questo modo cioè Napoli e Capri diventano vere e proprie quinte del pensiero, ovvero elementi architettonici fondamentali nelle costruzioni concettuali in cui alla metà degli anni ’20 in quelle località vanno attendendo gli amici e colleghi Adorno, Kracauer, Benjamin e Sohn-Rethel, e i cui sforzi intellettuali, pur proveniendo da origini diverse ed approdando a risultati apparentemente lontani tra loro, si tengono insieme proprio grazie a questa intentio allegorico-architettonica. Adorno che sta iniziando proprio allora i suoi brillanti studi filosofici, Sohn-Rethel immerso nel suo esame del Capitale marxiano, Benjamin che compone la sua (poi rifiutata) tesi di abilitazione dedicata al Trauerspiel barocco, Kracauer impegnato a scrivere le sue affilate critiche giornalistiche: tutte manifestazioni intellettuali del principio per cui il materiale diviene Forma, e dunque “schreibende Darstellung” (p. 49). E il “materiale”, per questa intelligencija in trasferta, si concretizza in un’immagine ben precisa, quella della sua specifica consistenza. La pietra di cui sono fatti i palazzi napoletani, scrive infatti Benjamin in un saggio dedicato alla città partenopea e scritto assieme ad Asja Lacis, è una pietra “porosa”, che finisce per caratterizzare l’intero tessuto architettonico e simbolico della città: “Porös wie dieses Gestein ist die Architektur. Bau und Aktion gehen in Höfen, Arkaden und Treppen ineinander über. In allen wahrt man den Spielraum, der es befähigt, Schauplatz neuer unvorhergesehener Konstellationen zu werden. Man meidet das Definitive, Geprägte“ (W. Benjamin, A. Lacis, Neapel, in Gesammelte Schriften IV/1, p. 309). Questa figura della porosità, concettuale e architettonica insieme, viene applicata in maniera molto virtuosistica da Mittelmeier a tutta la produzione coeva del gruppo di intellettuali tedeschi al centro del libro: così ad esempio anche la musica di Alban Berg, oggetto di una raffinata quanto incompresa (dall’autore del Wozzeck) disamina da parte di Adorno, assume questi connotati porosi; e, di nuovo, la porosità è anche la caratteristica fondamentale della costellazione, e dell’allegoria che le sovrintende. La costellazione diventa così il dispositivo filosofico attraverso cui rendere percepibile – sia pure in termini allegorici – come il materiale di cui sia composto si offra alla continua compenetrazione con altri elementi, e per ciò stesso si elevi a principio formale assoluto – “eine wahre Wunderwaffe”, la definisce Mittelmeier, ma con una sua precisa regolamentazione che le impedisce di scadere in mera ars combinatoria (p. 64).

In tal modo non solo i luoghi assumono un significato ambivalente, tra olimpico e demonico; anche le persone vengono in tal modo trasfigurate, ed il soggetto borghese al centro di tutti i procedimenti critici di questi intellettuali finisce per diventare Doppelgänger di se stesso, immagine dialettica nella quale precipitano le proprie contraddizioni – e le linee di fuga da esse. In effetti, le intenzioni profonde che muovono Adorno, Benjamin, Kracauer e gli altri sono allo stesso tempo filosofiche, politiche, antropologiche – e che portano per esempio Adorno e Kracauer a firmare le proprie lettere all’amico e collega Leo Löwenthal con l’umoristica ma non troppo definizione di “Fürsorgeamt für transzendental Obdachlose”, come ricorda Mittelmeier (p. 139): una sorta di “ufficio di assistenza sociale per senza tetto della trascendenza”, in cui riecheggia la celebre formula lukácsiana, che si incarica di pensare sino in fondo la crisi nella quale è precipitato l’uomo borghese-capitalistico, ed al quale questi pensatori non propongono facili formule redentive e liberatorie, ma solo un percorso complicato e tortuoso (un “Umweg”, dirà di lì a poco Benjamin) che passi attraverso le rovine del mondo e dell’uomo.

Mittelmeier infatti non dimentica che quello che sta descrivendo non è un felice e divertente idillio alternativo, ma il faticoso processo di individuazione – allegorico e per questo melanconico, problematicamente consapevole del suo stesso tramontare – di un gruppo di intellettuali senza chiesa e senza partito, sempre ben deciso a dire la propria sull’epoca che gli è toccata in sorte vivere, sempre ricordando che la storia è intimamente dialettica, e può in ogni momento ribaltarsi in catastrofe: “Das Modell der Konstellation hatte schon immer eine geschichtsrhythmisierende Kraft. Die freigestellten, toten Dinge können dann die Trümmer eines historischen Wendepunktes sein, einer Revolution, die gescheitert ist“ (p. 216). Il “paesaggio allegorico“ mediterraneo, insomma, di questi pensatori è sin da subito esposto alla sua duplice ambivalenza, tra una facies idilliaca ed olimpica, ed una demonica, che riappare in tutta la sua perturbante presenza; in questo senso, si potrebbe aggiungere, questo paesaggio filosofico appare come una perfetta Pathosformel in senso warburghiano, non a caso provvista anch’essa di una propria Nachleben – un termine che torna sorprendentemente spesso nella saggistica di qualità pubblicata in Germania in questi ultimi anni, a partire dal magnifico libro di Ulrich Raulff dedicato a Stefan George (Kreis ohne Meister. Stefan Georges Nachleben, München, Beck, 2009) – una specie di revenant filosofico, insomma, che mostra i suoi effetti ed affetti in maniera sotterranea ma indelebile, anche per lunghi anni dopo il suo primo apparire. In tal senso questo libro di Mittelmeier può anche essere letto come la tessera di un mosaico complesso e articolato che si va componendo in questi anni in Germania, alla ricerca di fonti alternative dell’attuale paesaggio tardo-moderno.

Se pochi anni dopo questi irripetibili anni ’20, Heidegger potrà scrivere, citando Hölderlin, “…poeticamente abita l’uomo…”, questi intellettuali paiono insomma anticiparlo, mentre osservano intenti il golfo di Napoli: “allegoricamente abita l’uomo…” – e non solo il turista.

Gabriele Guerra

Martin Mittelmeier, Adorno in Neapel. Wie sich eine Sehnsuchtslandschaft in Philosophie verwandelt, München, Siedler, 2013, 304 pp.

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