Gustav Heinse sull’Isonzo

Heinse-Foto[Pubblichiamo qui una parte della postfazione di Paola Maria Filippi al volume di Gustav Heinse Il monte in fiamme. Ai morti del San Michele del Carso 1915/1916, 1937, da lei curato (Ferrara, Kolibris, 2013, 94 p.). Il volume raccoglie le poesie scritte da Heinse sul fronte austro-italiano durante la Grande guerra. In calce, riportiamo l’inedito Epilog. M.S.]

Paola Maria Filippi

Solo la storia ricorda con poche parole
brevi e secche l’orrore

La prima Guerra mondiale è oggetto di un numero pressoché infinito di testimonianze scritte biografiche, politiche, militari, burocratiche, letterarie ed è da sempre al centro delle ricerche e delle riflessioni di studiosi e appassionati. Tuttavia, ancora oggi, a distanza di un secolo, ci sono testi quasi ignorati, soprattutto se mai tradotti in lingue diverse da quella in cui furono composti. Invece proprio la conoscenza e la lettura di poesie, romanzi, racconti, pièce – ovvero di testimonianze e rivisitazioni estetiche – di chi visse questo evento capitale “dall’altra parte”, dalla parte “opposta” a quella in cui ci si colloca, è quanto mai necessaria per ricostruire e comprendere con sempre maggior empatia il vissuto di persone, popoli, nazioni che la politica e le circostanze hanno collocato su versanti diversi, che però, forse, così diversi non erano.

Una significativa testimonianza di come la guerra al fronte fosse vissuta dal “nemico”, se vogliamo assumere la prospettiva italiana, è offerta dalle composizioni di questo volume, per la prima volta edite nella nostra lingua e che dell’Italia parlano, di un regione ricordata in tutti i manuali di storia: quel vasto territorio fra l’Isonzo e il Timavo, in cui si combatterono alcune fra le battaglie più cruente del conflitto. Per mesi e mesi un ufficiale austro-ungarico, un poeta, per metà italiano e per metà austriaco, si trovò in prima linea a compiere un dovere cui mai venne meno, ma di cui mise in discussione da subito il senso. 

Gustav Heinse

Lo scrittore austro-bulgaro Gustav Heinse, pseudonimo di Josef Klein, fa parte della numerosa schiera di intellettuali e artisti del mondo mitteleuropeo di lingua tedesca che le vicende belliche portarono sul fronte italiano. Un nome su tutti: Robert Musil, che fra il 1915 e il 1916 si trovò a combattere sul fronte austriaco in Trentino.

Lungo la linea meridionale questi uomini di cultura si dovettero confrontare con un “nemico” di cui condividevano modi di vivere e talvolta anche la lingua, e il cui patrimonio di sentire faceva parte integrante del loro universo culturale e spirituale. Per taluni era addirittura una componente irrinunciabile del sé, perché figli e discendenti di quello stesso “popolo” che dovevano combattere e annientare. Si pensi a Hofmannsthal, e appunto a Heinse, che dichiara ripetutamente e con franchezza di vivere la divisa austro-ungarica come una veste di Nesso, una camicia di forza che lo costringe a combattere contro uomini che percepisce come fratelli, poiché la madre è italiana e pertanto lui stesso si sente anche italiano. È interessante rilevare quanto questa italianità si radichi innanzitutto nella consuetudine linguistica: la lingua materna/della madre, l’italiano, elemento vitale d’identificazione che si conserva nello scorrere del tempo, se ancora alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso i due dialogano in italiano come si rileva dalla corrispondenza conservata.

Josef Klein nasce nel 1896 a Herceg Novi (Castelnuovo) in Dalmazia, non lontano dalle Bocche di Cattaro, nell’attuale Montenegro, suddito di Francesco Giuseppe, e muore in Bulgaria, a Sofia, nel 1971. Figlio di un ufficiale austro-ungarico, originario dei Sudeti, e della discendente di una illustre famiglia dalmatina, Lukrezia Androvich, fu destinato dalla famiglia alla carriera militare. Una fotografia del 1909 lo ritrae nella divisa di cadetto assieme alla madre, già vedova, e ai fratelli minori. Nel 1915 è sul Carso. Al termine del conflitto trova impiego come ingegnere presso l’industria Siemens & Halske e dopo Vienna e Belgrado, nel 1924, viene trasferito a Sofia. Da quel momento sarà quella la sua città e la Bulgaria la nuova patria. L’impegno sul fronte letterario, creativamente intenso e fruttuoso negli anni giovanili, troverà nel corso degli anni un’alternativa felice nella traduzione in tedesco di poeti bulgari. Ricordo solo alcuni nomi molto rappresentativi, fra i quali è possibile ritrovare anche quelli dei maggiori lirici simbolisti in lingua bulgara: Cristo Botev (1848-1876), Pejo Javorov (1877-1914), Teodor Trajanov (1882-1945), Nikolai Liliev (1885-1960).  La dedizione appassionata con la quale Heinse affronterà questo impegno nei decenni successivi, fino alla morte, gli permetterà di raggiungere risultati di eccellenza assoluta. Le sue versioni sono considerate ancora oggi le più valide per la ricezione della poesia bulgara nei paesi di lingua tedesca e sono state di recente ristampate. La consapevolezza dell’importanza che Heinse attribuiva alla propria attività di “mediatore di cultura” è suffragata dalle sue parole: «Auch ich bin um Brückenbauen von Land zu Land / Anch’io sono impegnato nella costruzioni di ponti fra i paesi». La metafora del traduttore costruttore di ponti, perfetta per un ingegnere, evidenzia quanto l’irrinunciabilità alla pace, di cui l’esperienza della guerra “fatta” lo aveva reso consapevole, non potesse ridursi a un mero sentire privato, personale, ma si dovesse esplicare concretamente in una attività rivolta agli altri. Per tanti anni, lasciando tacere la personale ispirazione poetica, l’impegno forte e costante di Heinse si è concentrato nel rendere possibile la lettura, e quindi la conoscenza, al mondo tedesco di alcune fra le personalità liriche più significative di una voce “minoritaria”, nella convinzione che una migliore conoscenza di aspetti culturali condivisi, seppure ignorati, non potesse che portare a migliori rapporti in ogni ambito fra due realtà contigue e pure non familiari l’una all’altra.

Heinse in guerra

Josef Klein, allo scoppio della guerra, viene inviato sul fronte italiano. Presta servizio come ufficiale nel k.u.k. Ungarisches Infanterie Regiment “Rupprecht Kronprinz von Bayern” Nr. 43, creato nel 1914 e costituito per il 78% da rumeni, il 20% da magiari e il 2% da militari di altra nazionalità. La divisa era quella ungherese.

La difficoltà, o meglio l’impossibilità, di riconoscere negli italiani la controparte da annientare e le durissime vicende della guerra di trincea inducono Heinse a tener nota per iscritto di quanto accade attorno a lui, ma soprattutto delle sensazioni e dei sentimenti che lo frastornano. La scrittura lo aiuta a riflettere, rielaborare, a prendere le distanze, a sopravvivere. Rimarchevole in lui non solo la necessità di fissare esperienze che per un qualche aspetto lo hanno colpito, ma di volerlo fare sotto forma di diario, e di un diario particolare, in cui le parole e le frasi si dispongano quanto più possibile armonicamente, alla ricerca di un ordine più vincolante della libera struttura prosastica, in una consuetudine alla “compattezza”, che aiuti a prendere le distanze, a superare l’indicibilità degli accadimenti e delle impressioni. La ricerca di una forma “bella”, per altro, e più che mai, data la materia, non è certo fine a se stessa. Va inquadrata in una necessità assoluta di distanziazione, nel tentativo di recupero di una normalità che rimandi al “prima” dell’evento. Dicendo le cose “entro le norme” ci si sforza di operare per ricondurre disgregazione e caos entro la regolarità di un dire in precedenza riservato ai momenti, non della quotidianità, ma della nobilitazione del vivere, della contemplazione, dello spirito. Ma malgrado la ricerca di espressioni e formulazioni ricche di rime, assonanze, lemmi preziosi, Heinse percepisce con pena crescente la non appropriatezza di quel suo voler lavorare con strumenti che prima della barbarie potevano aiutare a gestire sofferenza e disagio, mentre ora si rivelano insufficienti non tanto a raccontare, ma quasi offensivi nei confronti di una esperienza indicibile, come egli stesso sosterrà molti anni dopo.

«Decisi di fissare in forma poetica quegli eventi sconvolgenti che quotidianamente – ma che dico – di ora in ora si rinnovavano, e così comporre un po’ alla volta un diario in versi – versi liberi. Al principio avevo intenzione di mettere in rima queste mie esperienze al fronte, ma ben presto vi rinunciai dando la preferenza a un andamento ritmico più libero, quanto più possibile privo di rima, giacché orrore, disumanità, odio, insomma la guerra, e poesia essenzialmente non possono avere nulla in comune e anzi, se si riflette bene, rappresentano una contradictio in adiecto, se non da un punto di vista logico, di certo in una prospettiva estetica».

Gustav Heinse sembra risolvere in sé «la dicotomia tra uomini di poesia che fecero la guerra e uomini di guerra che fecero la poesia». La tradizione familiare, gli studi compiuti, la preparazione ricevuta lo avevano destinato a essere un ufficiale di carriera, un uomo di guerra, per la guerra. In lui, però, contemporaneamente matura una attitudine alla scrittura lirica che fin dalle primissime prove ne attesta una maturità di linguaggio e di composizione che permettono di annoverarlo fra i poeti. Le parole, esteticamente scelte e riordinate, sono da lui percepite come lo strumento più congeniale per esprimersi. La formazione tecnico-scientifica, e non umanistica, proprio come per Musil e tanti altri autori, serve per la vita pratica, ma non inibisce l’espressività, al contrario la sottende, la corrobora, inducendo alla ricerca, fin da questa prima prova, delle parole più dense, delle formulazioni più incisive e persuasive.

Der brennende Berg

Der brennende Berg, raccolta dalle travagliate vicende editoriali, rivelate dall’autore stesso nelle note autobiografiche, si compone di quattordici Dichtungen/liriche di varia lunghezza e di un epilogo, Ad me ipsum, che sembrerebbe suggellare il vissuto bellico con una dichiarazione di appartenenza inappellabile: «Io appartengo/alla generazione dei “sopravvissuti”». Il paratesto dell’ultima edizione, curata dalla figlia, rivela il travaglio umano e compositivo che sottende l’opera. In esergo la citazione da Hesse è certo un rimando storico, ma è forse ancor più una dichiarazione di poetica, di vicinanza a un comune sentire di cui si avverte impellente l’intima necessità. Anche altri hanno “fatto” la guerra, anche se come Hesse solo in forma indiretta curando i prigionieri, e questa esperienza, così come è capitato a Heinse, ha fatto maturare in loro una pervicace avversione alla guerra, un rifiuto netto allo scontro bellico quale momento risolutore di conflitti. Il testo, frantumato e interrotto, dalla sintassi spezzata, nel suo stesso andamento, testimonia l’inquietudine, l’ansia di chi lo scrisse. Frasi armoniche e coordinate non avrebbero potuto corrispondere a una realtà incomprensibile nella sua ordinaria follia, non potevano dire il caos e l’indicibile che si stava vivendo, che si era vissuto. Il grido, l’esclamazione, l’interiezione, i puntini di sospensione, le domande senza risposta, i punti interrogativi innervano una scrittura molto attenta ai valori metrici e prosodici, che deve però sacrificare nell’urgenza di trovare la necessaria durezza per provare almeno a suggerire quanto toglie la parola trasformandola in un grido muto. Se i poeti della Wiener Moderne, ponendosi il problema a priori, si erano interrogati sull’effettiva possibilità di far coincidere il linguaggio verbale alla realtà, ovvero sul loro essere in grado di far aderire le parole al reale, per gli scrittori e i poeti della Grande guerra è il mondo e quanto in esso avviene che sembra andare oltre la potenzialità espressiva dello strumento-lingua. Essi ristanno ammutoliti dinanzi all’incommensurabile nella ricerca affannosa di segni che li facciano uscire dall’afasia.

Pur nella sua brevità, nulla manca in questo inusuale diario. Il succedersi delle date e delle indicazioni di luogo attribuisce ai singoli frammenti il carattere dell’ufficialità. Tempo e spazio precisi vogliono rendere credibile, perché a posteriori verificabile, quanto potrebbe apparire fantastico nella sua smisuratezza. Heinse sa che il mezzo da lui scelto per testimoniare, la poesia, è solo uno strumento di traduzione intellettuale e fantastica della realtà e non può pretendere di esserne una fotografia obiettiva. Ma naturalmente Heinse vuole essere creduto e, consapevole di quanto sia arduo l’obiettivo che si è prefissato, vuole quindi servirsi di tutto quello che la scrittura gli offre per almeno cercare di mediare il livello emotivo di quel vivere.  Nella consapevolezza dell’insufficienza della parola, conscio della sostanziale “non-dicibilità” e “non-credibilità” di quanto sta vivendo, prova a suffragare le sue impressioni ricorrendo a una serie di dati sensoriali violenti e incontrovertibili. Le percezioni ottiche, uditive, olfattive – fetore di marcio, fetore di cadaveri, luci balenanti, squarci abbacinanti, un colpo, stridulo e secco, all’orecchio, nel cervello – si susseguono in un continuum espressionista in cui uomini e terra, fango e ossa si impastano: «Tutto è fango,/del colore della terra, rossastro,/perché piove da settimane./Solo là avanti biancheggiano nei reticolati/le ossa di cadaveri insepolti.» L’angoscia di quanto sta vivendo è dilatata parossisticamente in Heinse dalla consapevolezza della totale inutilità di quanto sta facendo, peggio dalla barbarie alla quale è obbligato. «Ci hanno adescati,/strappati dalla casa e dal campo/e da un destino sereno/indietro di diecimila anni/a un agire primordiale,/noi imberbi barbuti/nella pena di queste trincee e di questi crateri.//Ci hanno mentito,/ingannati con simboli falsi,/aizzati da ambo le parti./Ora siamo qua e spariamo,/giorno dopo giorno,/ammazziamo e moriamo nell’angoscia e nella miseria/la “morte dell’eroe”.»

La Guerra superata

Pur concludendosi Der brennende Berg con il breve Epilogo di 14 versi in cui ricorre per ben cinque volte il termine Grauen/orrore, la chiusa finale, invocazione angosciata a una istanza salvifica – Sii benedetta, o luce! / che mandi in frantumi il sogno -, lascia intuire che il poeta stia ancora cercando una personale via di redenzione da quel vissuto bellico traumatico e alienante. Forse potrà essere rielaborato, anche superato, di certo mai dimenticato o ignorato.

Heinse-Epilog

A conferma di ciò, nel lascito di Heinse si sono ritrovate altre composizioni che testimoniano come il tema della guerra vissuta e patita non sia mai stato accantonato, abbia continuato a “lavorare” in lui, inducendolo a riprenderlo letterariamente, non soltanto come esperienza metabolizzata, che in-forma il prosieguo dell’esistenza integrandosi in essa, ma come soggetto a se stante di ripensamento e rielaborazione estetica. E soprattutto come la Guerra abbia continuato a riproporsi, in verità mai definitivamente “superata”. Heinse ha la necessità di interrogarsi e dirsi in che misura la luce invocata nell’Epilogo dato alle stampe abbia mandato «in frantumi il sogno». Come scrive a Hesse il 27 maggio del 1937 nella lettera di accompagnamento all’invio di una copia del Brennender Berg: «Immerhin darf ich hoffen, daß aus dem Versuche – bei allen Mängeln, die ihm anhaften – die späte, doch notwendige Befreiung von dem furchtbaren Erleben spricht, das nun Jahrzehnte zurückliegt».

Heinse ha sempre cercato e sembrato trovare nella poesia uno strumento di liberazione. Il parlare di quanto accadeva e di quanto gli accadeva non ha quindi tanto funzione di memoria per il “dopo”, ma di catarsi per il “qui e subito”.

Grazie alla generosità di Ekatherina Klein, ho potuto leggere, e tradurre in chiusa, due liriche di Heinse mai pubblicate prima, un altro Epilog/Epilogo e un Nachwort/Postilla della metà degli anni Quaranta. Si tratta quindi di composizioni successive all’edizione del Brennender Berg curata dall’autore. In esse dove si legge non più soltanto l’orrore degli eventi, ma l’atrocità della memoria che cancella, la sofferenza nel prendere coscienza che neppure le parole di chi c’era e ha riferito sul momento, ha fissato nell’immediato, possono ridire e soprattutto conservare per chi non ha vissuto di persona l’incommensurabile di quanto accaduto. Per la storia quei combattimenti sono ormai soltanto dei numeri, delle date, dei nomi di luogo vuoti dei sentimenti, delle ansie, delle paure, delle anime di chi quei numeri li costituiva, quel tempo lo ho scandito, quei luoghi li ha abitati. Heinse si interroga, e interroga il suo lettore, sulla possibilità che le parole di un tempo, pensate per essere un “monumento”, conservino però anche intatta la loro forza documentale, ovvero continuino a raccontare della guerra la verità non mediata, non compromessa dai filtri della tradizione letteraria, di chi ha sperimentato sulla propria pelle l’inesprimibile. La disillusione di poter lasciare efficace memoria è totale. «Solo la Storia ricorda con poche parole / brevi e secche l’orrore. / “Quindici / Sedici: combattimenti al San Michele”, / ma quel soffrire, morire e tormento / chi li leggerà in queste righe?». Solo chi c’era sa. E persino che è stato protagonista in prima persona fatica a ripensarsi là. La lontananza temporale fa apparire quasi irreale quanto accadde. «Das dünkt mich jetzt so sonderbar» scrive il poeta. So sonderbar gli appare ora la battaglia, so sonderbar ora il contrapporsi degli eserciti, so sonderbar ora la sua salvezza. Così come appare tanto strano che il monte per il quale a migliaia morirono continui a esistere «riscaldato dal sole, rischiarato dalla luna»: la natura, nella sua indifferenza leopardiana, e che pure “c’era”, non ha preso nota degli eventi umani.

Paola Maria Filippi

Epilog

Längst sind die Kämpfe aus
und auch der Sieger gräßliches Frohlocken.
Nur die Geschichte meldet kurz und trocken
mit ein paar Worten von dem Graus.
«Fünfzehn/ Sechszehn: Kämpfe am Michele»,
doch jenes Leiden, Sterben und Gequäle
wer liest’s aus diesen Zeilen noch heraus?

Epilogo

Da tempo i combattimenti si sono esauriti
e l’atroce esultare dei vincitori pure.
Solo la storia ricorda con poche parole
brevi e secche l’orrore.
«Quindici/Sedici: combattimenti al San Michele»,
ma quel soffrire, morire e tormento
chi li leggerà in queste righe?

Sofia 1946

 

 

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