Visita al padre e il teatro di Roland Schimmelpfennig

Visita[Giovedì 6 febbraio alle 17:00 Roland Schimmelpfennig è a Milano, ospite del Piccolo Teatro (Chiostro Nina Vinchi, via Rovello 2). In occasione della messinscena della sua Visita al padre (Regia di Carmelo Rifici) il drammaturgo dialoga col suo pubblico in un incontro moderato dal sottoscritto e legge assieme ad attori del Piccolo brani dalle altre parti della Trilogia degli Animali. Pubblico qui di seguito, con l’autorizzazione del teatro, il mio pezzo (qui in pdf) per il programma di sala. Nell’immagine Marco Foschi (Peter) e Massimo Popolizio (Heinrich). M.C.]

Marco Castellari

Per entrare nel mondo di Roland Schimmelpfennig conviene partire da due battute di Visita al padre, pronunciate dai due protagonisti e unici personaggi maschili della pièce, Heinrich, il padre, e Peter, il figlio. Ein Fremder mit einem Anspruch auf Nähe: con queste parole Heinrich circoscrive alla fine del quarto atto la figura di Peter, il suo ruolo deflagratore nel cosmo famigliare nonché, al contempo, la sua funzione drammatica e la sua portata metaforica. Definendolo letteralmente “un estraneo che rivendica vicinanza”, Heinrich non nomina infatti soltanto il paradosso centrale della vicenda – il figlio che, un mattino d’inverno, giunge dall’America in una villa sperduta nella campagna tedesca innevata è lontano, poiché frutto ignoto o dimenticato d’un fuggevole incontro d’amore, e contemporaneamente vicinissimo per sangue e affinità alla famiglia allargata, le cui figure femminili Peter sedurrà una dopo l’altra. Nella laconica definizione di Heinrich c’è molto di più: la dialettica fra estraneità e famigliarità, distanza e vicinanza è infatti a vari livelli di lettura la chiave di Visita al padre, della Trilogia degli animali cui il dramma appartiene e, in ultima analisi, del teatro di Schimmelpfennig.

Lo stratagemma drammatico, innanzitutto: come nella miglior tradizione realistico-borghese l’arrivo di Peter, l’estraneo di famiglia, scoperchia l’ordine apparente, una stasi mortale mascherata da armonia che non regge all’urto del cambiamento. Il sapore ibseniano o cechoviano dell’impianto – come anche di alcuni dettagli – non inganni rispetto al carattere complessivo del dramma di Schimmelpfennig, sapientemente costruito come un macchinario d’impronta sì tradizionale ma che contiene i sintomi, manifesta gli accessi e produce gli strascichi di malattie assolutamente contemporanee. I cinque atti, l’unità strettissima di tempo, luogo e azione e altri elementi di densa strutturazione drammatica colpiscono sicuramente lo spettatore, ormai abituato se non rassegnato a convivere con una drammaturgia contemporanea riluttante a tali forme conchiuse e a certi schemi di sicura efficacia retorica. Ancora più forte sarà lo stupore di alcuni di fronte alle movenze tragiche, persino mitiche e arcaiche dello scontro tra generazioni che il dramma propone, con un figlio che, anche fuor di metafora, strappa al padre il ruolo di maschio dominante nella famiglia. D’altro canto, in questo classico contenitore drammatico si agitano le questioni brucianti del presente e del recente passato – sia con riferimento alla specifica situazione tedesca, naturalmente, che ben emerge nell’intervista a Carmelo Rifici in questo stesso programma di sala, sia su un piano più generale che riguarda la crisi generalizzata del nostro presente. Essa è qui simboleggiata soprattutto da un conflitto generazionale dal quale tutti escono sconfitti, i padri (e le madri) come i figli (e le figlie), tutti in preda a un disorientamento dalle profonde radici storico-culturali e di scottante attualità: schizzata spesso nel giro di fulminanti brani drammatici in forma di monologhi o brevi dialoghi, la biografia di ciascuno dei personaggi in scena si rivela sconquassata, franta, fuori squadra.

La diagnosi di Schimmelpfennig, che anagraficamente si situerebbe a cavallo fra la generazione di Heinrich e quella di Peter, è durissima verso entrambe. A differenza del padre, però, Peter esprime quantomeno consapevolezza di tale smarrimento esistenziale (e con ciò lo stimolo a un cambiamento) nella sua domanda retorica “Chi in fondo sa quale sia il suo posto?. È questa dunque la seconda battuta emblematica di Visita al padre, pronunciata in chiusa a un breve monologo del secondo atto. Anche in questo caso Peter nomina nelle sue parole un motore della vicenda specifica – a una ricerca della propria identità rimanda il ritorno nella patria perduta che scatena il dramma, il quale a sua volta mostra il fallimento di tale ricerca in ciascuno dei personaggi e lascia aperta, nel finale, la possibilità di rimettersi in marcia verso il miraggio di un’identità  – ed evoca contemporaneamente un grande tema della drammaturgia di Schimmelpfennig. Le sue figure sono tipicamente prese da un movimento, da un desiderio di cambiamento in continuo oscillare fra la pulsione interrogativa sul proprio senso e posto nel mondo e la frustrazione per l’incapacità o impossibilità di sottrarsi a situazioni castranti, ammorbanti, asfissianti.

La sicurezza con cui Schimmelpfennig domina i più eterogenei strumenti della lunga tradizione teatrale è pari alla capacità vuoi di farli ecletticamente convivere tra di loro, vuoi di applicarli a dimensioni realistiche come anche oniriche o fiabesche, vuoi infine di coniugarli a uno sguardo consapevole e disincantato al teatro contemporaneo nonché alla società in cui esso si muove. Allargando lo sguardo oltre Visita al padre risulterà più chiaro il senso dell’operazione di Schimmelpfennig nel discorso culturale tedesco ed europeo.

Le altre due parti della Trilogia degli animali, innanzitutto, mostrano maggiore eclettismo formale e una più diffusa elaborazione tematica di Visita al padre – la classicità strutturale, il sapore realistico-borghese, una certa chiusura spazio-temporale sono dunque anche funzionali al valore per così dire preliminare del primo dramma, per altro scritto per ultimo e rappresentato per secondo (la prima risale al 14 aprile 2007, a Bochum). La pièce centrale, Il regno degli animali, segue Peter e Isabel, la figlia minore di Heinrich, nei loro mediocri successi da attori e dipinge un mondo del teatro brutale e dominato da strutture di potere: il tema cardine della fallimentare quête di un proprio ruolo esistenziale è evidentemente amplificato, raddoppiato nella metaforica del theatrum mundi. La tecnica, spesso utilizzata da Schimmelpfennig, di inserire dentro alle battute dei personaggi veri e propri passaggi narrativi e descrittivi (una sorta di iperstraniamento epico che molta critica lega, come ovvio, a Brecht ma che del teatro brechtiano ha soprattutto, non ce ne stupiremo, il gioco tra distanza e familiarità, tra estraneità e realismo) si accompagna qui con convincente coerenza stilistica a una struttura di “teatro nel teatro”: gli attori devono interpretare una favola nera, ambientata nel mondo animale, in contrappunto continuo alle loro vicissitudini personali e lavorative prima che, nel finale assieme minaccioso e grottesco, i pochi attori superstiti ai tagli della produzione non finiscono per abbassarsi a impersonare nemmeno più leoni, zebre & co. ma addirittura trivialissimi oggetti da cucina in uno spettacolaccio kitsch e in linea coi tempi.

Fine e inizio, “poema drammatico” che chiude il trittico, porta poi a un punto-limite il gioco di Schimmelpfennig con i linguaggi teatrali e parallelamente estremizza la drammaticità della condizione dei protagonisti. In brani liricamente densi ma volutamente frammentari, veri e propri blocchi verbali con i quali Schimmelpfennig rinuncia alla costruzione di dialoghi o monologhi drammatici come pure alla distinzione fra battute e didascalie a favore di “superfici testuali” postmoderne à la Jelinek, ritroviamo anche Peter e Isabel, giunti come tante altre figure al gradino più basso del proprio fallimento artistico ed esistenziale. Ad accogliere le loro spente rivendicazioni, i loro ricordi e la loro rassegnazione non sono nemmeno più le quinte di un teatro di second’ordine ma un laboratorio sperimentale in cui – questa la loro assurda occupazione – si prendono cura delle cavie.

La Trilogia degli animali presenta dunque una rassegna virtuosistica (e compiaciuta) di linguaggi e stili drammatici eterogenei che si piegano di volta in volta a rappresentare la crisi di individui, famiglie e sistemi sociali e culturali. Dalla tragedia classica attraverso il dramma borghese fino ai suoi estremi tedeschi tardo-novecenteschi – Botho Strauss sembra ad esempio fare capolino già in Visita al padre con la sua “drammaturgia della coscienza” e probabilmente finanche nel titolo del trittico, che richiama la sua Trilogia del rivedersi (1976) –, dalle scatole metateatrali e allegorie elisabettiane e barocche attraverso la distanza epica e gli straniamenti brechtiani fino alla dissoluzione linguistica del teatro cosiddetto postdrammatico di uno Heiner Müller o della citata Jelinek, dai toni neoromantici attraverso graffianti ironie fino alla disperazione esistenziale Schimmelpfennig affila qui, tra parodia e riuso, le proprie notevoli armi retoriche, toccando al contempo il nervo dei grandi temi contemporanei.

Nel suo piccolo la Trilogia degli animali è rappresentativa, proprio per l’eclettismo formale e per la costellazione di motivi, del teatro tutto di Schimmelpfennig, fin dai suoi esordi a metà anni Novanta. Heiner Müller era appena scomparso, Brecht era morto da quarant’anni e il teatro tedesco riunificato vedeva emergere una nuova generazione di drammaturghi, tutti all’incirca ventenni alla caduta del muro: Moritz Rinke, a cui Schimmelpfennig è spesso accostato, Albert Ostermaier, René Pollesch e Dea Loher, di poco più giovani Falk Richter, Kathrin Röggla, Marius von Mayenburg e lo svizzero Lukas Bärfuss. Schimmelpfennig è fra questi l’autore di punta, il drammaturgo tedesco vivente più rappresentato in Germania nel nuovo millennio e oggi sempre più presente sulle scene internazionali. I critici teatrali e gli studiosi – su Schimmelpfennig è ormai a disposizione in tedesco un certo numero di dissertazioni, volumi e saggi – gli riconoscono tale primato e si inseguono nel tentativo di condensare la sua vena drammatica in un’etichetta. Lo definiscono “misterioso ed enigmatico”, “poeta del quotidiano”, “romantico” e ne lodano vuoi il “realismo magico”, vuoi la “capacità affabulatoria”, qui la mordacità critica, là la perizia tecnica, scomodando di volta in volta illustri predecessori (e qui chi scrive non può certo scagliare la prima pietra). Altri (pochi) guardano con malcelato sprezzo alla sua notevole produttività e versatilità, non lesinando definizioni quali “grafomane” e “drammaturgo su commissione”.

D’altronde, come hanno sottolineato ripetutamente lo stesso Schimmelpfennig e i suoi migliori interpreti (Peter Michalzik, Ulrich Fischer e Christine Laudahn), la sua poetica teatrale parte da questioni tematiche e fa derivare da esse le proprie scelte stilistiche. “È la materia a trovare la forma, la forma va dietro al contenuto”. L’eclettismo è dunque connaturato alle scelte di fondo della drammaturgia di Schimmelpfennig come lo è la sua tendenza ad appropriarsi di stilemi e di “blocchi” testuali preesistenti (la definizione è sua) e a rimodularli sulla situazione drammatica specifica. Ciò è ben evidente nella Trilogia degli animali e spiega anche la difficoltà che la critica ha incontrato nel fissare una definizione univoca per il teatro di Schimmelpfennig. Si potrebbero addurre numerosi esempi a conferma di ciò: si pensi al recente Drago d’oro (2010), forse a oggi la pièce migliore di Schimmelpfennig, che è passata di recente anche al Mittelfest, o ancora a notevoli lavori già arrivati sulle scene italiane come Prima/Dopo (2002, alla Biennale nel 2004), Notte araba (2001, a Genova nel 2007), La donna di un tempo (2001, a Milano nel 2009), Push up 1-3 (2001, a Milano nel 2011).

In ciascuna di queste opere l’autore Schimmelpfennig ci viene incontro come un estraneo di famiglia. Riconosciamo di volta in volta un frammento, un accenno di stile, qualcosa di noto. Percepiamo sempre qualcosa di disturbante, che crediamo ignoto e lontano. Entrati poi nella rete di storie che il drammaturgo ha intessuto per noi, ci chiediamo insieme alle sue figure quale sia il loro, forse anche il nostro posto nel mondo, oscilliamo con loro fra mutamento e fallimento, e senza illusioni lasciamo che, calato il sipario, le domande rimangano aperte. Sembra un Brecht del Duemila, con parecchie speranze in meno – ma sembra anche molto altro.

Marco Castellari

Estratto dalle pp. 15-18 del programma di sala di:
Visita al padre. Scene e bozzetti
di Roland Schimmelpfennig.
Regia di Carmelo Rifici. Traduzione di Roberto Menin.
Piccolo Teatro di Milano. Stagione 2013/14.
Prima rappresentazione: 18 gennaio 2014 – Teatro Studio Melato.

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