E.T.A. Hoffmann, i Notturni e gli Elisir

[Riproponiamo la recensione di Franco Marcoaldi ai Notturni e agli Elisir del diavolo di E.T.A. Hoffmann (L’Orma 2013) uscita su la Repubblica il 4 dicembre scorso col titolo Lo scrittore e il fantasma. I deliri di Hoffmann che ispirarono Freud. L’immagine è Modo de volar, la Disparate n. 13 di Francisco Goya. M.S.]

Franco Marcoaldi

«Non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e il poeta in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno specchio opaco». Così il narratore si rivolge al lettore mentre gli sta narrando la terribile vicenda di Nathanael, il protagonista della novella di E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, su cui Freud concentrerà la sua attenzione per elaborare la teoria del “perturbante”: quel sentimento angoscioso che ci prende di fronte a una situazione che percepiamo al medesimo tempo come estranea e familiare.

Sin da bambino, Nathanael ha dovuto convivere con immagini sinistre, con la visione di personaggi luciferini che hanno irrimediabilmente alterato la sua psiche. Anche se l’amata Claire, donna ironica e ragionevole, contraddice quel suo teatro fantasmatico e affaccia un’ipotesi per certi versi ancora più inquietante: quelle apparizioni atroci che lo turbano non sono esterne, ma albergano nella sua anima. Ed è contro quel diabolico nemico interiore che noi uomini dobbiamo lottare strenuamente con la forza della ragione, se non vogliamo inoltrarci in un cammino rovinoso.

L’uomo della sabbia apre la celebre raccolta dei Notturni (1816-1817), facendo da coda ideale al non meno famoso romanzo Gli elisir del diavolo,scritto negli anni immediatamente precedenti (1815-1816): volumi, entrambi, che escono ora in una splendida edizione della casa editrice L’Orma per le sapienti cure di Matteo Galli e Luca Crescenzi.

È l’ennesimo miracolo della piccola editoria italiana di qualità, che a fronte di una drammatica crisi economica e dell’ulteriore calo dei lettori, continua a perseguire ambiziosissimi progetti: in questo caso la pubblicazione – sotto la direzione dello stesso Matteo Galli – dell’opera omnia di Hoffmann, autore tanto geniale quanto inafferrabile.

Nato a Königsberg nel 1776 e morto di tabe dorsale nel 1822, il Nostro vive la sua breve esistenza a rotta di collo: magistrato in svariate città tedesche e polacche nel pieno dell’epoca napoleonica, compositore, capocomico, disegnatore, direttore di teatro e d’orchestra, grande consumatore di alcol e facile agli innamoramenti, appassionato studioso della neonata psichiatria, critico teatrale, Hoffmann esordisce in letteratura relativamente tardi, a trentatré anni. Ma da lì in avanti è un fiume in piena. E il tumulto della scrittura sembra riflettere il tumulto della vita: anche sulla pagina scritta, infatti, le diverse esperienze, co- noscenze e influenze convivono simultaneamente.

Di primo acchito si dovrebbe parlare di lui come di un romantico a tutto tondo, ma si farebbe torto a quel persistente razionalismo scettico presente nel suo pensiero (come dimostra la postura di Claire). Il notturno, l’inesplicabile e il fantastico rappresentano per certo il suo mood preponderante, ma la dimensione onirica e spettrale – come indicano le parole del narratore de L’uomo della sabbia – può trovare linfa vitale anche nella realtà più ordinaria.

Se poi dalle novelle si passa ai romanzi, la questione si complica ulteriormente: difficile, se non impossibile, rintracciare un’unica matrice. Perché se è vero che Gli elisir del diavolo prende le mosse dalla tradizione del romanzo gotico, dalla tentazione in cui cade il monaco Medardus che beve, e non dovrebbe, l’inebriante elisir conservato tra le preziose reliquie di Sant’Antonio a lui affidate, da lì in avanti succede di tutto: tra “sante allucinazioni”, amori febbrili e loschi omicidi. Così, le iniziali pagine devozionali lasciano il campo a espliciti rimandi al romanzo libertino, con il diavolo intento a confondere tra loro perdizioni erotiche e ascensioni mistiche, mentre acuminate riflessioni sulla dissociazione psichica si intrecciano con altrettanto accurate disamine sull’arte; e continui rinvii al romanzo d’avventura preludono al finale, che ritorna «sull’aspirazione alle cose sante e ultraterrene». Senza dimenticare mai il basso continuo su cui giustamente insiste Luca Crescenzi: quel timbro ironico e carnascialesco che ci rammenta come tutto, al fondo, si riduca a una folle recita.

Del resto, che cosa fa il cappuccino Medardus, se non cambiare ininterrottamente maschera e dunque identità? All’inizio era un monaco e poi lo ritroviamo nei panni di un conte, di un uomo di mondo «dedito unicamente alle scienze e alle arti», di un oscuro nobile polacco. Come gli rammenta Belcampo – l’esuberante parrucchiere che lo invita ad abbandonarsi festosamente alla follia, «vera signora degli intelletti su questa Terra» – il contrassegno della modernità è l’eclettismo, la simultaneità delle forme, l’ininterrotta metamorfosi. Con tutti i rischi che ne conseguono, perché il diavolo ha campo libero una volta che si è smarrito il baricentro esistenziale: «il mio io era diviso in cento parti. Ciascuna aveva, nel suo affaccendarsi, una propria coscienza della vita, e la testa inviava invano ordini alle membra che, come vassalli infedeli, non intendevano riunirsi sotto il suo comando».

A tratti il lettore può anche rimanere frastornato di fronte ai mille fili di un racconto che – nella geometrica perfezione del congegno narrativo – rovescia di continuo punti di vista, tempi e prospettive. Tanto più visto che, accanto alle mille, successive metamorfosi di Medardus, ci sono da mettere in conto anche quelle dei suoi sosia, alter ego, Doppelgänger. Attraverso i quali si manifestano il Nemico, il diavolo, il revenant, che accompagnano l’uomo nel suo sfiancante viaggio sulle montagne russe: tra realtà e allucinazione, terra e cielo, peccato e virtù, spirito e carne, Bene e Male.

Così, giunti alla fine, non si fa fatica a capire perché, davanti a questo picaro dell’anima, l’imperturbabile Goethe storcesse il naso. Mentre, per contro, in Medardus e più in generale nell’opera notturna di Hoffmann, emergono in piena evidenza i tanti motivi di fascinazione da parte di Baudelaire, Gogol’, Dostoevskij. Frugando con straordinario acume nei meandri della psiche, l’autore degli Elisir del diavolo prefigura addirittura le inquietudini di quell’età dell’ansia che culmina nel Novecento. E leggendo le memorie di Medardus, che davanti al proprio io «divenuto un crudele giocattolo di un caso capriccioso, e confusosi con l’immagine di altri, nuotava senza requie nel mare degli avvenimenti », viene alla mente Musil quando parla dell’io come di un “delirio dei molti”. O l’eteronimo Pessoa, abitato -come noto – da “una sola moltitudine”.

Franco Marcoaldi

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