Arno Schmidt, una costellazione

Massimo Raffaeli

La casa di legno ai margini della brughiera in cui Arno Schmidt (Amburgo 1914-Celle 1979)  trascorre in solitudine gli ultimi vent’anni di una vita relativamente breve e tuttavia immolata all’esercizio della scrittura, quel riparo dai clamori del mondo che non sia puro stillicidio dattilografico o un ultimo rifugio dal Novecento, secolo di strage e lutto, è davvero la più esatta allegoria di una letteratura vocata integralmente alla verità e, per etimologia, al martirio. Piccolo borghese precocemente proletarizzato, autodidatta, revolté per elezione, ateista e da sempre antinazista, scaraventato dalla guerra in Norvegia e poi a Bruxelles in un campo di prigionia inglese, finalmente approdato al villaggio di Bargfeld in Bassa Sassonia, Arno Schmidt ricomincia ogni giorno da capo. Lì, il silenzio della brughiera spazzato a folate dai venti del Baltico vale in emblema la maestà della Natura che la Storia percuote e travolge nei termini del conflitto dialettico dove muore e rinasce ogni giorno, depositando i suoi frantumi incandescenti sul bianco della pagina: tale è l’epica della modernità di cui appunto la scrittura, nel suo prodursi dal nulla per esalare verso il nulla ulteriore, rappresenta insieme l’alfa e l’omega. Schmidt è un Robinson della scrittura, alle sue spalle c’è la tabula rasa, davanti a lui un bianco dilagante che lo scrivere è chiamato non tanto a colmare o interpretare quanto a negare o a esorcizzare. Perché quest’uomo ha visto tutto e tutto ha già vissuto: l’orrore totalitario, l’ideologia come teologia della morte, la religione come benedizione del nichilismo e rinuncia preventiva alla vita medesima. Sembrerà paradossale, ma proprio il mago supremo della letteratura tedesca, il firmatario di pagine asperrime e sconvolte, è l’erede postremo della civiltà dei Lumi, il biografo di Fouqué, l’esecutore testamentario degli amatissimi Wieland e Lessing. Scrivere, per lui, equivale a serbare e scampare dal buio circostante un atomo di luce che sia percettibile nella particola di Storia non ancora smentita e affogata dentro la Natura, o viceversa. E noterà, sprezzante: “Nessun rapporto con la natura (il criterio più importante!)”. In altri termini, se Louis-Ferdinand Céline, scrittore suo pari e virtuale antagonista, incorpora l’atrocità del secolo traducendola nello spasmo emotivo e in una residua musica del corpo (nella celebre petite musique), al contrario Arno Schmidt cortocircuita emozione e ragione in un moto centrifugo di cui la pagina è tanto il luogo di esplosione quanto di una calcolatissima ricomposizione. Cioè una liberatoria dal passato che valga quale viatico per il futuro, nella ostinata convinzione che “la durata del mondo si fonda sulla diligenza degli scrittori”.

Tardivamente celebrato in Germania, Schmidt resta per decenni, in Italia, meno che uno scrittore di culto se la sua bibliografia si riduce a due titoli, Leviatano o il migliore dei mondi (a cura di Maria Teresa Mandalari, Linea d’ombra 1991), la novella che nel ’49 lo ha segnalato in patria fra la cosiddetta letteratura delle macerie, e Alessandro o Della verità (nella traduzione di Emilio Picco, 1965), che esce da Einaudi grazie a Cesare Cases il cui patrocinio risale peraltro a una recensione del ’54 (poi confluita in Saggi e note di letteratura tedesca, Einaudi 1963) dove al giovane scrittore il grande germanista riconosce  “la vitalità propria di molti tedeschi antifascisti che hanno dovuto reprimerla e comprimerla durante il nazismo”. Tale è la radice che, nel suo spettacolare smottamento, innerva la trilogia di Nobodaddy’s Kinder (1963) la quale riunisce tre distinti ma comunque concentrici romanzi del decennio precedente, ora disponibili al completo in italiano dall’editore Lavieri grazie alla versione eccellente per fedeltà e nitore di Domenico Pinto che insieme firma l’apparato di note o, meglio, una lenticolare glossa al testo in tutto degna di comparire nella Pléiade.

Il titolo complessivo della trilogia allude a una paternità negata ovvero parodistica. I fondali non mutano mai, c’è sempre un reduce scampato nella brughiera, un individuo che vanamente esige di riscattare nella maestà della Natura quanto la Storia ha già condotto al rischio dell’annientamento e dell’oblìo. Ambientata fra il ’39 e il ’44, la prima frazione narrativa, Dalla vita di un fauno (’53), è l’avventura riparatoria, espiatoria, di un quidam preso dentro il nazismo e la guerra che si vuole non solo filologo/archivista ma replicante postdatato del milite dell’armata napoleonica che lo ha preceduto, in fuga dai disastri della guerra, rintanandosi nel silenzio della brughiera; il protagonista vuole resarcirne (nota Pinto) il “mosaico danneggiato della vita” nella vana ricerca di una compiutezza o di un senso retrospettivo: “Nessun continuum, nessun continuum: così scorre la mia vita, così i ricordi”. La seconda frazione, più marcatamente autobiografica, è intitolata Brand’s Haide (’51) ed è occupata da un reduce della seconda guerra mondiale che è alle prese con una biografia di Fouqué: c’è dunque un altro fauno la cui vitalità gira a vuoto, ancora un individuo che cerca dolorosamente i residui di un amore e di una propria verità, ancora un uomo alla deriva e un testimone fatalmente naufragato. Nella terza frazione il décalage può dirsi in effetti compiuto: chi dice io in Specchi neri (’51), dentro uno scenario apocalittico da Dopobomba, è ormai un impotente Robinson che si ritrova solo sulla terra, un mondo desolato cui non può guardare (scrive Goffredo Fofi nel risvolto) se non da una “distanza da anacoreta”: l’ultimo accadimento della Storia qui si coniuga alla sinistra perfezione della Natura come deserto nucleare. All’epilogo, compare il fantasma di una donna ma è solo uno spettro volatile, che seduce e dilegua con la rapidità medesima del vento: costei è giusto la simulazione più bugiarda del Leviatano che torna a profilarsi, imponente nella sua nudità, davanti a colui che, temerario, presumeva di sottrarsene e così di salvarsi.

Come scrive un uomo che si ritiene l’ultimo della sua specie? Sempre uguale a se stessa e sempre sobillata da impulsi tellurici, la pagina di Arno Schmidt corrisponde a una sequenza ritmata da continue cesure e giunzioni. Il flusso è costante ma il ritmo è scandito da acmi lancinanti. La forma rinvia ad un vortice o al lavoro di un immenso succhiello (un antipode della delicata dentelle céliniana): ciò legittima ogni avventura della morfologia e l’immissione integrale del vocabolario nella centrifuga, se al riguardo Pinto dice giustamente di un “roveto di simboli”. Il ricorso massiccio al plurilinguismo non deve però indurre il lettore italiano a proiettare troppo nettamente Schimdt su Carlo Emilio Gadda o, tanto meno, su Antonio Pizzuto: nella pagina dello scrittore tedesco il magma mistilingue non appiomba mai sulla verticale lirica né raggela, ieratico, nello stile nominale. All’opposto, Schimdt resta autore epico pure se di un’epica decisamente deflagrata: il suo punto d’onore è la sintassi e dunque la mobilità delle voci verbali nello spazio-tempo, la fobìa vera e propria della statica che sembrerebbe inverosimile per l’uomo recluso a Bargfeld, il fauno solitario della brughiera.

Lo ha compreso quasi quarant’anni fa il regista Sebastian Schadhauser con Anno Schmidt (’73) che prima di una interpretazione è l’atto di omaggio al maestro in forma di esecuzione dello spartito. L’opera (documentata da Winand Herzog in Anno Schmidt. Essays-Dokumente-Materialen, Büro für Realitäts Design, Mönchengladbach 2007) si traduce nei modi di un oratorio musicale: la voce del vento, in uno spazio totalmente aperto che allude alla brughiera, è ritmata/contraddetta dalle voci originali di Rafael Alberti (severo nella postura di poeta “fra i garofani e la spada”) e di Anita Ekberg, ninfa ubertosa, dea inaccessibile, donna che va e viene misteriosa nella macchia popolata di fogli strappati, portati via dal turbine aquilonario. Il campo visivo si staglia in profondità, i due corpi sono presi in cammino da lunghe carrellate, procedono su direttrici opposte e complanari, i due attori leggono e parlano nel vento che stormisce suggerendo la cadenza di un salmo, di una poesia, persino di un principio di danza. Ma c’è un’altra voce, fuoricampo, che apre e suggella Anno Schmidt, quella di un poeta e cineasta di estri leggendari, Gianni Toti (Roma 1924-2007) che con gesto fraterno invita a leggere con lui il “fabbro e maniscalco del Logos”, beninteso un Miglior Fabbro verbaio “non per felici pochi ma per gli altri, tutti, della maligna infinità”.

Forse non è un caso che Toti, mentre legge Schmidt e presta la propria parola a Schadhauser, abbia appena ultimato la sua unica opera cinematografica, il film su San Paolo che l’amico Pier Paolo Pasolini (San Paolo, Einaudi 1977) non riuscirà a girare, … E di Shaùl e dei sicari sulle vie da Damasco (’73), un esempio di cinema allo stato nascente, refrattario alla narrativa e incline alla saggistica autoriflessiva, dove è sempre in questione il problema di una eredità spirituale e culturale o meglio di un possibile bene da strappare, a mani nude, fra le macerie dell’antichità. Nemico del settarismo (e degli autentici feddayn che furono i sicari zeloti, i portatori del pugnale anti-romano), qui Paolo è l’uomo della profezia messianica, il soldato di Cristo persuaso a rigettare la dinamica di Storia e Natura in quanto le ritiene entrambe, se lasciate a se stesse, dominio del Leviatano. In una luce atea e smagata, non meno rivoluzionaria, Toti fa dire a Paolo di Tarso che Cristo è il primo vincitore “contro la dittatura della morte” e che infine rappresenta sulla croce “la morte della morte”. Ma si tratta, da parte del marxista Toti, di un rovesciamento dialettico e, prima ancora, di una confidenza con il negativo che Arno Schmidt non potrebbe sottoscrivere.

Alle spalle di costui resiste tutto un carico di tenebra agghiacciante mentre nell’hic et nunc, nel deserto della brughiera, continua a urlare senza scampo la voce del vento. La catastrofe è avvenuta una volta per sempre nell’abisso del Secolo Breve e si è presto trasformata (scrive precisamente il traduttore) nella “storia trascendentale del mondo” e dunque ogni religione ne è parte integrante, anzi è il male che presume di combattere. Pari in questo a Céline, l’immaginario di Arno Schmidt non è dialettico bensì tragicamente antinomico, laddove la ferita che si apre tra l’uomo e il Leviatano non può mai cicatrizzare e resta normalmente aperta, sanguinante. Perciò l’ateismo, nella sua accezione primordiale, è il solo bene davvero necessario, la luce più modesta ma essenziale a sopravvivere, all’atto stesso dello scrivere o del continuare a farlo nonostante tutto. La risposta a un questionario pubblicato nel ’57 (ora in Ateo?: Altroché!, a cura di Dario Borso e Domenico Pinto, Ipermedium Libri 2007) viene con le parole più orgogliose di un umanista tuttavia disperato: “Parteggio per il vecchio, oggi oltraggiatissimo, Illuminismo: la lumière sans phrase”.

Massimo Raffaeli

da: “Il Caffé Illustrato”, 2011

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