Riflessioni sulla DDR

Un’immagine dal film Good Bye, Lenin!

Paola Quadrelli

Il timore espresso nel 1990 da Stefan Heym, il quale in occasione del dissolvimento della DDR si prefigurava che essa sarebbe stata relegata in futuro in una «nota a pie’ di pagina» nei libri di storia, appare a oltre vent’anni dalla riunificazione tedesca come una preoccupazione ingiustificata, almeno a giudicare dalla mole e dalla qualità degli studi dedicati allo Stato socialista tedesco apparsi negli ultimi anni. Il ventennale della caduta del muro di Berlino ha sollecitato e favorito anche in Italia un’ampia serie di manifestazioni e pubblicazioni, di cui il volume in questione è un’esemplare testimonianza. Riflessioni sulla DDR, curato da Magda Martini, esperta di relazioni culturali tra Italia e DDR, e dallo storico tedesco Thomas Schaarschmidt, raccoglie gli atti di un convegno interdisciplinare tenutosi a Trento nell’ottobre 2009 sotto il patrocinio dell’Istituto storico italo-germanico e del Zentrum für Zeithistorische Forschung di Potsdam. Il volume, che comprende i contributi di ventidue studiosi, perlopiù stranieri, si divide in cinque parti che muovono, per così dire, dall’universale al particolare; s’inizia, infatti, con una sezione di saggi che propongono un’interpretazione storica e politica dell’Ottantanove per terminare con le testimonianze di due visitatori e studiosi della DDR: l’ambasciatore Luigi Vittorio Ferraris, che offre un ricordo personale di quel paese scomparso, e David Childs, politologo dell’Università di Nottingham e promotore di iniziative volte a favorire la conoscenza della DDR in Gran Bretagna.

Nel saggio iniziale, Martin Sabrow pone una domanda apparentemente sconcertante, ovvero «A chi appartiene l’89?», consapevole che a vent’anni da quegli eventi non è stato raggiunto un consenso in merito all’interpretazione di un rivolgimento inatteso, al cui successo contribuirono una felice concomitanza di circostanze favorevoli e la sinergia di attori diversi. La stessa controversia riguardo alla terminologia da adottare per riferirsi agli eventi del’89, a cui si allude ora con il termine «svolta» (Wende), ora con il termine «rivoluzione», ovvero «rivoluzione pacifica», è indicativa della diversa valutazione che si attribuisce a quei fatti: l’espressione «Wende» sembra alludere a uno strappo improvviso e ha in sé una connotazione passiva a cui si contrappone il termine, attualmente più in auge, di «rivoluzione pacifica»; esso, come osserva in un altro passo Liza Candidi, «tende a sottolineare l’aspetto consensuale della riunificazione e la volontà popolare ad esso sottesa» (p. 315). All’interpretazione della cesura dell’89, intesa come «svolta» o come «rivoluzione», si aggiunge, nella disamina di Sabrow sull’elaborazione storica della DDR, il modello interpretativo di coloro che giudicano la riunificazione tedesca come un protervo atto di «annessione» della DDR alla Repubblica federale. «Svolta», «rivoluzione» e «annessione» costituiscono dunque i «particolari schemi narrativi» che sottendono ogni tentativo di rielaborazione storica della DDR, siano essi resoconti e memorie dei testimoni, film sull’argomento o monumenti e luoghi di commemorazione. 

La peculiarità dell’89 tedesco è sottolineata anche dalla storica inglese Mary Fulbrook che osserva come il 1989 rappresenti un unicum tra le cesure storiche della Germania del Novecento, in quanto il regime della DDR non fu abbattuto da una disfatta totale dall’esterno, come accadde per il regime nazista alla fine della seconda guerra mondiale, né da una presa del potere da parte di una forza politica all’interno di una guerra civile; il disfacimento del regime socialista fu piuttosto conseguenza di «un accordo reciproco più o meno generale […] di smantellare quello che era esistito per una quarantina d’anni», commenta la Fulbrook (p. 43). L’indebolimento dell’Unione sovietica, che non era più in grado di intervenire per sostenere con la forza regimi impopolari, come aveva fatto a Budapest nel ’56 o a Praga nel ’68, l’articolarsi di varie forme di dissenso – dall’esplicito malcontento di coloro che nell’estate dell’89 avevano incominciato a fuggire in massa, alla protesta espressa dagli attivisti dei movimenti civili (quali il Neues Forum) – nonché, infine, il processo meno visibile, ma non meno importante, del «cedimento dell’autorità dall’interno» (p. 43) costituiscono gli elementi congiunturali che condussero al collasso, sostanzialmente pacifico e privo di spargimento di sangue, del regime della DDR.

L’Ottantanove non rappresentò solamente una cesura storica ma costituì anche una cesura sotto il profilo sociale e personale, la cui forza dirompente nella vita delle singole persone dipese in buona misura dalla generazione di appartenenza dei singoli abitanti del defunto stato socialista. I «figli del Terzo Reich», ovvero i nati tra il 1933 e il 1945, e i nati nei tardi anni Quaranta e negli anni Cinquanta furono coloro che risentirono in misura maggiore dei rivolgimenti indotti dalla svolta politica, economica e sociale del 1989; la difficile riqualificazione professionale, l’alto tasso di disoccupazione in breve registratosi nei nuovi Länder, il disorientamento in una società individualistica e competitiva, con un mercato professionale mobile e insicuro, determinarono nella generazione dei quaranta-cinquantenni una sensazione di spaesamento e di frustrazione che si tradusse a posteriori in quella rivalutazione di certi aspetti della vita nell’Est definita con il termine tedesco di «Ostalgie». A quella stessa generazione di mezzo appartenevano, del resto, i principali esponenti dei movimenti civili che condussero all’abbattimento della DDR; il sorgere, dopo il 1990, di una valutazione differenziata della vita nella DDR in coloro che avevano fattivamente contribuito a rovesciare quella dittatura è sintomatico, secondo Fulbrook, del fatto che «il 1989 come cesura personale ha un significato del tutto diverso dal suo significato come spartiacque storico».

Il crollo delle dittature comuniste determinò anche, come argomenta Schaarschmidt nel saggio successivo, la rinascita del concetto di totalitarismo come categoria interpretativa della storia tedesca del Novecento. Il concetto di totalitarismo, nato negli anni Venti in riferimento al regime fascista, ripreso negli studi degli anni Cinquanta di Hannah Arendt e di C.J. Friedrich e Zbigniew Brzesinski, «sbiaditosi» nella fase di distensione degli anni Settanta, conobbe una nuova rinascita dopo l’Ottantanove. La necessità di rielaborare il passato della DDR, promossa dal Parlamento della Germania unificata con l’istituzione dell’ufficio federale preposto alla conservazione e all’apertura degli archivi della Stasi e con la nomina di due commissioni d’inchiesta per la «revisione della storia e delle conseguenze della dittatura della SED», determinò una rinnovata riflessione su entrambi i regimi totalitari manifestatisi nella Germania del Novecento. La discussione sulle modalità con cui mantenere vivo il ricordo della dittatura della SED si inscriveva, infatti, nel contesto generale della cultura tedesca della memoria, mentre sin da subito si pose il problema di come trattare luoghi «dal doppio passato», monumenti storici in cui si era impresso il ricordo dei crimini perpetrati da entrambi i regimi, come i campi di Buchenwald e di Sachsenhausen, utilizzati come campi di prigionia prima dai nazisti e poi dai sovietici. Le omissioni del governo tedesco-federale dopo il 1945 e la mancata rielaborazione del passato nazionalsocialista funsero inoltre nella Germania riunificata come modello cui guardare ex negativo per sollecitare l’apertura degli archivi della DDR e per promuovere una pronta e accurata rielaborazione della dittatura socialista (sulla rielaborazione giuridica del passato della DDR, attuata con costanza e risolutezza nella Germania unificata, si legga nel volume pure il saggio di Annette Weinke, assai tecnico ma perspicuo anche per il lettore profano). Schaarschmidt ricostruisce nel suo saggio il rinvigorirsi del consenso antitotalitario in Germania e i suoi riverberi nei lavori delle commissioni d’inchiesta parlamentari e nella cultura della memoria.

Sull’importanza e l’attualità della cultura della memoria nella Germania riunificata insiste anche l’antropologa Liza Candidi in un saggio contenuto nella quarta sezione del volume, in cui la studiosa presenta alcune riflessioni etnografiche scaturite dalla sua ricerca sulla memoria della DDR presente nei vari spazi di Berlino e da lei indagata in cinque ambiti specifici: la memoria urbana, la memoria museale, la memoria storica ed istituzionale, la memoria mediata e la memoria privata. La Candidi riflette sugli inevitabili scarti che si creano tra la memoria «ufficiale» e la memoria personale degli eventi, sulle modalità psicologiche di conformazione del ricordo, sul rinforzarsi, a vent’anni dalla rivoluzione pacifica, di studi, ricerche e dibattiti pubblici sulla DDR, cui si contrappone la graduale diminuzione dei testimoni del tempo, dovuta a un «primo significativo ricambio generazionale» (p. 311).

Nel saggio seguente, Éva Kovács intende gettare nuova luce sul rapporto della Germania con la propria storia recente tramite la descrizione e l’analisi delle dinamiche di politica della storia adottate da un altro Paese ex-comunista, l’Ungheria; qui, commenta la studiosa, la celebrazione della rivoluzione dell’89 è stata inserita in una tradizione di «miti rivoluzionari e nazionali», associata a due date-chiave, il 15 marzo, commemorazione dello scoppio della rivoluzione del 1848, e il 13 ottobre, anniversario della rivoluzione del 1956, la cui memoria, vietata dal regime comunista di Kádár, fu per decenni conglobata nelle manifestazioni del 15 marzo. La Kovács dedica ampio spazio a un evento di enorme portata simbolica e di larghissima partecipazione popolare; la nuova e solenne celebrazione in Piazza degli Eroi a Budapest nel giugno 1989 del funerale di Imre Nagy e dei suoi sfortunati compagni politici. La studiosa ripercorre la politica della memoria in Ungheria sino agli anni recenti e constata, rispetto alla Germania unificata, una diversa concezione della cultura della storia, che ha origine nelle «concezioni di nazione e nel confronto con il nazismo e la Seconda guerra mondiale» (p. 344). I processi di secolarizzazione e di modernizzazione e l’esperienza del Terzo Reich finirono per far evaporare in Germania quei miti nazionali tedeschi che fino al 1945 presentavano singolari somiglianze con i miti nazionali ungheresi: le guerre dei contadini, la Riforma, la rivoluzione del 1848-49, le tradizioni imperiali. Questi miti nazionali, osserva la Kovács, poterono invece continuare a svilupparsi in Ungheria, dove, al contempo, l’irrisolta questione delle minoranze ungheresi negli stati confinanti, ha alimentato il «nazionalismo radicale dall’interno e dall’esterno».

Il saggio della studiosa ungherese rappresenta l’unico, peraltro fecondo «sconfinamento» in un volume ben costruito e focalizzato su vari aspetti della ricezione del passato della DDR in Germania e all’estero. Storici italiani e stranieri informano il lettore dell’evoluzione degli studi storici sulla DDR in diversi Paesi europei, dall’Italia (Sara Lorenzini), alla Francia (Ulrich Pfeil), agli Stati Uniti (Mario Kessler) sino alla Gran Bretagna (David Childs). Dopo l’Ottantanove si è registrato in tutti i Paesi citati un nuovo e vivace interesse per la DDR nei suoi aspetti storici, sociali, culturali, mentre prima della caduta del Muro l’attenzione alla Germania orientale era perlopiù riservata a studiosi motivati da interesse e simpatia politica per lo stato tedesco socialista. Fu questo il caso dei politici laburisti citati da Childs, del germanista francese di orientamento comunista Gilbert Badia, sulla cui attività di mediatore culturale con la DDR discute a lungo Pfeil, oltre che del nostro Cesare Cases (1920-2005), osservatore attento e autorevole dell’«altra» Germania sin dal 1958, quando attinse alle esperienze raccolte in un lungo periodo di permanenza a Lipsia per redigere un importante e fortunato saggio sulla vita culturale nella DDR di quegli anni.

Michele Sisto offre un ritratto convincente e per certi aspetti illuminante del rapporto intellettuale e umano di Cases con la DDR, fondato sostanzialmente sul radicale anticapitalismo dello studioso. La persuasione, attestata da Cases ancora nel 1990, che il capitalismo costituisse la «più grave minaccia per l’umanità», il timore dinanzi all’alienazione indotta dalla società dei consumi e dinanzi alla tecnocrazia di una società, quale quella capitalistica, basata solo sul profitto economico, oltre che la fede antifascista dell’ebreo e comunista Cases indussero il germanista a rivolgere la sua simpatia alla povera e «rustica» DDR piuttosto che alla opulenta Germania di Bonn. In tal senso Cases non mancò di esprimere i suoi timori dinanzi allo sviluppo economico della DDR negli anni Sessanta, colpevole di sottoporre a irrimediabile trasformazione un Paese che a Cases era apparso sino ad allora come un’«oasi precapitalistica», singolarmente somigliante, secondo l’acuta osservazione di Michele Sisto, alle borgate romane o all’Africa di Pasolini: «un luogo certo non immune ma meno sfigurato dalla trasformazione antropologica determinata dall’instaurarsi della società del benessere» (p. 116). Da osservare, a riprova della cecità degli intellettuali comunisti occidentali dinanzi alle storture del socialismo reale, è che alla (giustificata) preoccupazione espressa da Cases dinanzi ai pericoli di «alienazione» indotti dalla società dei consumi, non corrispose mai una preoccupazione altrettale dinanzi ai rischi di alienazione psicologica e spirituale che incombevano sui cittadini, spiati, vessati e ideologicamente uniformati, di una dittatura repressiva. Sisto ripercorre anche gli interventi di Cases successivi alla caduta del muro e alla riunificazione, animati dal pessimismo storico di chi assiste al rafforzamento incontrastato del modello capitalista e alla scomparsa di una fede nel progresso storico che aveva costituito il presupposto dell’impegno intellettuale di tutta la generazione di intellettuali marxisti cui Cases aveva appartenuto.

Storici, economisti e politologi ripercorrono singoli aspetti della società e della politica della DDR alla luce delle più recenti acquisizioni della ricerca nella terza parte del volume, in cui si  discute di prospettive di analisi comparatistica tra Germania Est e Germania Ovest, di continuità e cambiamenti nella politica estera della DDR, di storia economica della Germania Est, della repressione del dissenso, oltre che dello sport in quanto ambito di punta per la propaganda della DDR all’estero. Molto interessante per il lettore italiano è il saggio di Magda Martini che verte sull’attività di diffusione della letteratura italiana del dopoguerra promossa da un’importante casa editrice di Berlino Est specializzata nella narrativa internazionale, Volk und Welt. L’analisi del catalogo italiano di Volk und Welt, comprensivo di oltre settanta pubblicazioni, mostra come nella scelta delle opere da tradurre non influisse esclusivamente l’orientamento politico degli autori da tradurre e la collocazione ideologica delle loro opere, ma incidesse anche la dimestichezza dei collaboratori della casa editrice con le complicate manovre politico-culturali della DDR e la loro conseguente abilità nel sapere influenzare le scelte dei funzionari del Ministero della cultura, inducendoli ad approvare anche opere potenzialmente controverse. Così, la sagacia di lettori della casa editrice come Alfred Antkowiak, prima, e Joachim Meinert, dopo, rese possibile la traduzione dei romanzi, dei racconti e perfino delle lettere di Cesare Pavese, una figura che mostrava aspetti biografici (la morte suicida) e di tecnica letteraria (il simbolismo della sua narrativa) giudicati inizialmente come pregiudizievoli per la diffusione della sua opera nella DDR.

Il confronto con la DDR emerge anche nelle opere letterarie, nei quadri e nei film di artisti provenienti da quel Paese o desiderosi di affrontarne il passato. Al retaggio della DDR in ambito artistico, letterario e cinematografico sono dedicati i puntuali saggi di Karl-Siegbert Rehberg, di Heribert Tommek, di Anna Chiarloni e di Matteo Galli. Rehberg ricostruisce innanzitutto il mutamento radicale di condizioni di produzione e di consumo dell’arte figurativa esperito dagli artisti, passati da un Paese socialista in cui lo stato fungeva da grande mecenate, a un Paese basato su di un’economia di mercato, e illustra inoltre il decorso e le motivazioni inerenti il cosiddetto «Bilderstreit» (la controversia sulle arti figurative), articolatosi negli anni Novanta attorno a una serie di esposizioni in cui si metteva in discussione e si relativizzava l’arte della ex-DDR, denunciandone il sostrato ideologico.

Prima del Bilderstreit il mondo culturale tedesco era stato lacerato, del resto, dal più noto Literaturstreit, ovvero dalla polemica letteraria divampata nell’imminenza della riunificazione attorno a Christa Wolf ed estesasi ad altri scrittori della ex-DDR, squalificati da una certa opinione pubblica per il loro rapporto di «solidarietà critica» con il regime della defunta DDR. In un saggio ampio e complesso, ispirato ai principii dell’«analisi di campo» di Pierre Bourdieu, il germanista H. Tommek illustra esemplarmente l’eredità letteraria della DDR nell’opera narrativa di tre scrittori nati a Dresda negli anni Sessanta ma giunti al successo nella Germania riunificata e noti pure in Italia: Ingo Schulze, Durs Grünbein e Uwe Tellkamp. Tommek constata come nell’opera di tutti e tre questi scrittori affiori la nostalgia per un’esistenza estetica, marcatamente dedita all’arte, «evocativa delle “profondità culturali” di un mondo (tedesco) tramontato» (p. 423). Il grande retaggio culturale della Germania sette-ottocentesca si rimarca anche nei frequenti richiami ai poeti classici che ricorrono insistitamente nella lirica dell’ultimo decennio; essi – è questa la tesi che presiede lo stimolante saggio di Anna Chiarloni – testimoniano la volontà di ancoramento e di ricerca di senso che attraversa sotterraneamente l’area di letteratura tedesca dopo l’89.

Film di grande successo, giunti anche nelle sale italiane, come Good bye, Lenin o Le vite degli altri hanno mostrato come il cinema svolga un ruolo decisivo nella mediazione e nell’elaborazione della memoria. Nel suo scritto, vivace e scorrevole, Matteo Galli propone una mappatura del cinema della/sulla DDR alla luce delle categorie di classificazione della DDR-Literatur come entità post-statuale elaborate alcuni anni fa dal germanista Holger Helbig. Ne emerge il panorama ampio e frastagliato di una produzione cinematografica ricchissima, da noi in larga parte sconosciuta.

Il volume testimonia nel complesso la ricchezza e la raffinatezza di prospettive che anima la ricerca italiana e internazionale sulla ex-DDR e riconferma al lettore italiano il confronto coraggioso, leale e indefesso che la Germania del XXI secolo continua a condurre con il proprio recente passato totalitario.

Paola Quadrelli

Riflessioni sulla DDR. Prospettive internazionali e interdisciplinari vent’anni dopo, a cura di Magda Martini e Thomas Schaarschmidt, Bologna, Il Mulino 2011, pp. 515

da: “Intersezioni”, agosto 2013.

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