Cases lettore

Cases[Uscito su Alias il 7 luglio 2013. L’immagine viene dalla sovraccoperta di Patrie lettere.]

Massimo Raffaeli

Ammetteva francamente di essere negato a scrivere una monografia, era piuttosto un estensore di note, di articoli, di dottissime glosse filologiche, così come di apologhi e inaudite invenzioni satiriche: Cesare Cases (1920-2005) è stato non soltanto un grande germanista e critico letterario, fra i maggiori del secondo Novecento, ma anche e soprattutto uno scrittore il cui stile secco e pungente, sommamente penetrante nella costitutiva brevitas, risulta per esempio in Cosa fai in giro?, una memoria autobiografica sulle leggi razziali scritta nel 1978 (poi in Il boom di Roscellino. Satire e polemiche, a cura di Luca Baranelli, Einaudi 1990) che, in realtà, è un vero e proprio romanzo di formazione. Non basta, perché Cesare Cases era stato innanzitutto un formidabile lettore o, meglio, uno studioso e un critico che aveva mantenuto nella propria ottica le domande primordiali del lettore tout court: qual è il senso e la motivazione di un testo? come e perché è stato scritto? qual è dunque la sua verità e, pertanto, la sua sostanziale utilità? Per lui il sapere dello specialista e la magnanimità dell’umanista (“dilettantismo superiore”, lo chiamava) erano infatti una cosa sola, come testimonia a oltranza un corposo volume che però si legge alla stregua di un breviario, Scegliendo e scartando. Pareri di lettura (Aragno, “Biblioteca”, pp. LXXVIII+627, € 40.00), meritoriamente costruito e annotato da un giovane germanista dell’Università di Trento, Michele Sisto, già firmatario della Bibliografia degli scritti di Cesare Cases nel collettivo Per Cesare Cases (a cura di Anna Chiarloni, Luigi Forte e Ursula Isselstein, Edizioni dell’Orso 2010).

Scanditi fra il ’53 e il ’73, selezionati e trascritti dall’archivio Einaudi di cui Cases fu consulente e magna pars per la germanistica, si tratta di 250 pareri integrati da documenti redazionali e stralci dalla corrispondenza, specie nel primo decennio con Luciano Foà e Renato Solmi che furono appunto i suoi mallevadori einaudiani. Cases, cui vengono inviate in lettura per lo più opere di narrativa ma anche di saggistica e di storiografia, ha da subito una chiara nozione del campo editoriale e del suo relativo posizionamento. Sisto, nella introduzione, divide il percorso in tre fasi e ne deduce sia la poetica sia i contraltari polemici.

La prima fase anni cinquanta (quando Cases è un militante del Pci su posizioni lukacsiane e, scrive Sisto, “sostiene una letteratura che non interessa solo ai letterati”) è quella della valorizzazione progressiva di Bertolt Brecht e della aperta contrapposizione al catalogo di Mondadori in cui, grazie alle versioni e ai suggerimenti di Lavinia Mazzucchetti, figurano i campioni dell’umanesimo borghese, da Stefan Zweig e Hermann Hesse a Thomas Mann, che peraltro è il prediletto da Cases. Nella seconda fase, l’antagonista è Feltrinelli dove la germanistica è curata da Enrico Filippini, aderente al Gruppo 63: alle opzioni sperimentaliste o apertamente avanguardiste (Günter Grass, Uwe Johnson), Cases, che ormai agisce da battitore libero vicino ai Francofortesi e, in Italia, ai gruppi e alle riviste della Nuova Sinistra (su tutti i “Quaderni Piacentini”), oppone la ricerca problematica di un fuoriclasse quale Arno Schmidt o il radicalismo, variamente declinato, di Enzesberger, Durrenmatt e Max Frisch. Più povera di schede di lettura e di pareri scritti (perché Cases dal ’70 insegna a Torino e partecipa personalmente ai celebri “mercoledì” einaudiani) è invece la terza e ultima fase dominata tanto dalla perplessità circa il valore della letteratura corrente quanto dalla consapevolezza dello stallo che in Germania divide l’ambigua accettazione del neocapitalismo a Ovest dalla produzione socialista, per lo più eloquente e rettorica, a Est: qui non è un caso prediliga gli scritti autobiografici e teatrali di un post-brechtiano quale Peter Weiss, l’autore de L’Istruttoria (’65) e del satirico-grottesco La persecuzione e l’assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentati dai filodrammatici di Charenton, sotto la guida del marchese di Sade (una pièce del ’64, “qualcosa in cui l’ideologia si trasforma in poesia”, scrive nel parere che la avalla).

Dato il quadro della poetica, resta da dire l’essenziale e cioè la stilistica di Cases lettore. Chi abbia in mente le opere della sua produzione maggiore (da Saggi e note di letteratura tedesca, ’63, poi a cura di Fabrizio Cambi, Università degli Studi di Trento 2002, a Il testimone secondario, Einaudi ’85 e Patrie lettere, ivi ’87, sempre a cura di Luca Baranelli, fino alle sapide Confessioni di un ottuagenario, nuova edizione Donzelli 2003) ne riconosce il tratto ad apertura di una pagina che realizza in sintesi, e si direbbe secondo etimologia, l’attitudine critica del comprendere-per-valutare. Di rado i suoi pareri eccedono la misura delle due o tre cartelle e (come prescriverà ai recensori nel primo numero de “L’Indice”, 1984) all’inizio c’è sempre un riassunto cui seguono un breve inquadramento storico-letterario e, di solito con una point delle sue, il giudizio che ne raccomanda o meno la pubblicazione.

Non occorre tanto ricordare che i suoi no siano molto più numerosi dei e nemmeno  che ben pochi tra quei abbiano potuto materializzarsi in libri a stampa, quanto viceversa rammentare la postura di Cases consulente nell’atto di redigere un parere. La questione del riassunto è capitale perché da un lato egli assume l’ottica del lettore comune (o del “dilettante superiore”) ma dall’altro, proprio per essere tale, sente il bisogno di ridurre all’essenziale le competenze e le pretese del grande specialista. Ne risulta uno straordinario paradosso, quello di un provetto conoscitore della lingua e dello stile (colui che duettava con Fortini traduttore del Faust, colui che scrivendo in tedesco stupiva e persino umiliava i tedeschi, a detta di Thomas Mann) insomma un perfetto formalista indotto a presentarsi nelle vesti di uno spiccio contenutista.

E’, questo, il paradosso che rendeva plausibile la immancabile clausola sulla “utilità” del libro, un concetto che i letterati à la page avrebbero senz’altro sdegnato o ritenuto imbarazzante, anacronistico. Invece Cases di lì partiva e lì arrivava puntualmente, fiondando i suoi aforismi critici come nel caso-limite, appena tre righe, del parere sul Kreuzzwege (’61) di Fredrich Georg Junger: “E’ un libro pieno di nobili sentimenti, scritto da un aristocratico che ogni tanto si degna di amare il popolo, specie sotto forma di donne. Non è proprio da tradurre, né da noi né da nessuno”. Ma bastino pochi altri esempi tratti dalla miniera di Scegliando e scartando: uno sconsolato del ’59 su Die Entscheidung, tardo e stanco romanzo di una autrice molto amata, Anna Seghers (“non vale neanche la pena di riassumere il complicato intreccio”), un altro del ‘62 su Peter Handke (“una lettura faticosa e noiosissima, ma ho il vago sospetto che molti altri la possano trovare eccitante”), un altro ancora del ’63 sulla Introduzione al Lied romantico di Mario Bortolotto, oggi ritenuto un semidio della critica musicale: “Sarà bene che Mila con la sua autorità gli ricordi che si scrive per i cristiani e non per Dio, che è il solo ad essere onnisciente (per fortuna)”. Chi legga questa frase a rovescio o in controluce può riconoscervi il profilo di Cesare Cases, il suo sorriso indimenticabile, la sua divisa intellettuale e morale.

 Massimo Raffaeli

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